Max Schulz o Itzig Finkelstein? Un picaro alla ricerca della propria identità


Max Schulz o Itzig Finkelstein? Un picaro alla ricerca della propria identità

È stato più volte osservato che il protagonista del romanzo possiede una personalità poliedrica, che lo sottopone ad un’ininterrotta oscillazione tra due specifiche identità: quella di vittima e quella di carnefice. Il carattere di Max Schulz non viene compromesso quando il carnefice decide di cambiare la propria identità, esso è in verità, instabile e ambiguo sin dall’inizio del romanzo:

“Der Erzähler schwankt unvermittelt zwischen Selbstüberschätzung und Weinerlichkeit, Autoritätsgläubigkeit und trotziger Widerborstigkeit.” [1]

Una simile insicurezza riguardo allo stato o alla qualificazione del narratore è una caratteristica del romanzo moderno in prima persona e spesso appare già fin dalla prima frase. Uno degli esempi più famosi a tale proposito è l’ironico auto-distacco all’inizio di Die Blechtrommel, con il quale Oskar mette in dubbio il proprio racconto, prima ancora di avviare la narrazione: “Ich bin Insasse einer Heil- und Pflegeanstalt.” [2] Rivelando la sua posizione, Oskar mette in guardia il lettore sul suo stato di salute mentale e, di conseguenza, lo porta a dubitare della validità del racconto. Anche Max Schulz, proprio come Oskar Matzerath, mostra una certa insicurezza riguardo al suo stato e alla sua origine (ha cinque padri!), tuttavia cerca in tutti i modi di convincere se stesso e il lettore del contrario [3] ; inoltre, proprio come Oskar, anche Max soffre di un Dachschaden irreversibile che rischia di compromettere l’autenticità e la validità della sua autobiografia, per questa ragione, nel corso del romanzo, Max si rivolge ripetutamente al lettore per confermare la veridicità delle sue parole, ma anche e soprattutto, per autoconvincersi che le avventure di cui è protagonista assoluto sono realmente accadute e non sono solamente frutto della fantasia di una mente malata, incapace addirittura di riconoscere la sua stessa identità:

“Sie glauben, daß ich mich über Sie lustig mache? Oder Sie glauben es nicht, und Sie werden sich sagen: »Max Schulz spinnt! Er bildet sich ein, daß man ihn umbringen wollte… weil er ein Bastard war… und das alles unter dem Vorwand einer Beschneidung, so wie das bei den Juden üblich ist: am achten Tag nach der Geburt. Was will Max Schulz? Was will er mir einreden? Wem will er die Schuld in die Schuhe schieben? Seiner Mutter? Den Juden? Oder dem lieben Gott? - Und das mit der Selbstwehr des Säuglings, seiner Flucht, den Eindrücken am Fenster… Unsinn! Sowas gibt es nicht! Ein Alptraum! Nichts weiter!« Aber ich will Ihnen ja nur meine Geschichte erzählen… in systematischer Reihenfolge… drückt man sich so aus?… obwohl ich Ihnen nicht alles erzähle, sozusagen: nur das Wichtigste, oder das, was ich, Itzig Finkelstein, damals noch Max Schulz, für ganz besonders wichtig halte.” [4]

È necessario ribadire che il Dachschaden di Max, a cui egli si richiama spesso, è un’arma di difesa, proprio come il tamburo di Oskar, contro l’aggressività del mondo esterno, ma è anche un mezzo che il carnefice usa per giustificare le orribili azioni compiute.

La metamorfosi del protagonista è rappresentata specificatamente, oltre che da continui riferimenti lungo tutto il corso dell’autobiografia, da due scene all’inizio del romanzo e poco prima del trasferimento in Palestina. Le due scene in questione potrebbero essere denominate Spiegelszenen, poiché, attraverso l’ausilio di uno specchio e dell’immagine che in esso si riflette, Max è messo di fronte alla realtà, che subito non riesce a comprendere e quindi rifiuta, ma che gli si paleserà in punto di morte. Entrambe le Spiegelszenen collegano l’un l’altro i motivi della percezione di sé (Augen) e di ciò che è sconosciuto (Spiegel) [5] . La visione allo specchio è la possibilità dell’io- narrante di gettare uno sguardo sul protagonista, cioè su se stesso, ossia di potersi vedere da una prospettiva completamente diversa e quindi giudicare obbiettivamente. Nello specchio il soggetto diventa allo stesso tempo oggetto e quindi è in grado di auto- valutarsi, proprio come farebbe un estraneo. La prima Spiegelszene è quella del giovane Max Schulz che si osserva nello specchietto della madre, dove oltre ad immagini note, ne vede altre che non è in grado di riconoscere e lo spaventano:

“[…] Und sah, was ich sah! Verschiedene Gesichter zwischen den vielen Sprüngen im Spiegelglas: das Gesicht eines Friseurs… das Gesicht eines studierten Herrn… das Gesicht eines Halbidioten… das Gesicht eines Dichters… das Gesicht eines Perversen… das Gesicht eines Normalen… das Gesicht eines Ariers… das Gesicht eines Juden… das Gesicht eines Fußballspielers… Aber noch andere Gesichter - besonders, wenn meine Froschaugen vom langen Starren zu tränen anfingen… dann sah ich zwischen den gläsernen Laufmaschen des gesprungenen Handspiegels… noch eine Menge anderer Gesichter… Gesichter aus einer fernen Zukunft, die ich nicht kannte… gebrochene Reihen,… Gesichterreihen… und eines davon… ein ganz bestimmtes… eines, das sich bewegte, wegtanzen wollte… aus den Reihen tanzen… den Gesichterreihen… als ob es nicht dazugehörte… das… das eine: war das Gesicht eines Mörders!… aber ein seltsames Mördergesicht war das, denn es schien zugleich die Züge aller Sterblichen zu tragen, die nach »Seinem Ebenbild« erschaffen wurden… und doch konnte ich das nicht mit Bestimmtheit sagen, obwohl es ein bestimmtes Gesicht war, das ich sah, weil alles verschwommen war… weil mein Augen tränten […]. Vor dem Spiegel fragte ich mich: Wer bist du eigentlich? Fragte, wie meine Mutter gefragt hatte… wollte eines wählen… eines der Gesichter… konnte aber nicht… die wollten nichts mit mir zu tun haben; die starrten mich wütend an, seltsam verzerrt, weil ich Grimassen schnitt und die Zunge herausstreckte.” [6]

Gli occhi rappresentano lo specchio dell’anima: i molteplici volti riflessi simboleggiano tutte le anime e tutte le identità del protagonista, sia quelle passate e presenti, in cui si identifica, sia quelle future, che però non ha ancora sperimentato e che tenta di cancellare, attraverso le lacrime che velano la sua capacità visiva, in quanto troppo atroci da sopportare. Un volto, quello di un Mörder, lo colpisce più degli altri, poiché non è quello di un normale assassino, esso, infatti, “schien zugleich die Züge aller Sterblichen zu tragen”, ma questa immagine è poco nitida ai suoi occhi bagnati di lacrime e scompare lasciando un dubbio atroce a cui Max, per il momento, non è in grado di trovare soluzione: “Wer bist du eigentlich?” Questa scena dimostra che l’Io non è libero di scegliere la strada che preferisce battere. Max non può decidere autonomamente di essere altruista e umano, oppure opportunista e disumano, poiché tutto è già stato scritto. Ogni cosa è predeterminata e a lui non resta altro che la possibilità di attendere inerte il futuro di morte e distruzione che gli è stato imposto e i volti riflessi nello specchietto ne sono una chiara conferma. Il protagonista è così sottoposto a molteplici scissioni interiori, ognuna delle quali simboleggia una diversa identità, tenute insieme solamente dal suo furore emozionale (“wütend”, “Grimassen”) e da un prematuro disprezzo di sé, rivolto soprattutto all’ultimo, vago volto, che lo osserva minacciosamente [7] .

La seconda Spiegelszene è proposta dopo l’incontro con l’ebreo Max Rosenfeld nell’hotel Vaterland, quando Max Schulz, già diventato Itzig Finkelstein, deve decidere se lasciare la Germania per ricostruirsi una nuova esistenza, da libero e felice ebreo, in Palestina. A questo punto del romanzo, il protagonista ha già ottenuto la possibilità di riconoscere il volto dell’assassino che nella prima Spiegelszene gli era ancora ignoto. Da poco sta vivendo la sua nuova realtà di commerciante ebreo nel mercato nero a Berlino e si appresta a mutare ulteriormente la propria identità in quella di emigrante e convinto Freiheitskämpfer, prima però, deve nuovamente interrogarsi davanti allo specchio, per riuscire a valutare obbiettivamente l’evolversi della situazione e, naturalmente, della sua personalità:

“Konnte nicht schlafen. Stand kurz vor Mitternacht auf. Stelle mich vor den Wandspiegel hin, sagte zu mir: »Itzig Finkelstein. So sieht kein Jude aus. Das ist bloß ein Zerrbild. Aber sie glauben daran. Sogar Max Rosenfeld. Man hat ihnen das eingeredet. Was ist das nur?« […] Stand wieder vor dem Wandspiegel. Dacht verzweifelt: Vielleicht hat er dich an deinen Augen erkannt? - suchte etwas in meinen Augen… suchte jüdische Seele… konnte sie nicht finden. Lange stand ich so vor dem Spiegel an der Wand. Sagte zu mir: »In deinen Augen, Max Schulz, steht keine Volksseele, weder die jüdische noch eine andere, nicht mal die deutsche. Das sind doch bloß Froschaugen!«” [8]

Ancora una volta, solo uscendo da se stesso, ossia guardandosi allo specchio, l’Io è in grado di comprendere la realtà che altrimenti gli appare distorta. Questa volta, però, lo specchio non gli offre la visione di molteplici figure, esso infatti non riflette alcuna immagine. Max cerca allora di indagare nei suoi occhi, (specchio dell’anima!) dove spera di trovare il suo spirito ebraico, ma oltre a dover constatare la mancanza di unajüdische Seele, deve accettare la terribile realtà di non possedere più un’anima tedesca: Max Schulz è privo di qualsiasi anima. L’unico riflesso ravvisabile nello specchio è quello dei suoi giganteschi Froschaugen, che non fanno però di lui un vero ebreo, ma semplicemente un “Zerrbild”. A questo punto del romanzo il protagonista ha completamente perso la propria identità: egli non è più tedesco e non è neppure un vero ebreo, il suo essere si trova in bilico tra le due esistenze, ognuna delle quali o non gli appartiene più (quella tedesca) oppure è in uno stadio troppo superficiale e deve ancora uniformarsi al suo Io (quella ebrea):

“Die »Umprägung« hatte für Max mit der Übersiedelung nach Israel begonnen, als er sich zunehmend mit jüdischem Schicksal und jüdischer Geschichte identifiziert. Der Judenmörder wird zum Philosemit und überlebt dadurch.” [9]

Appena giunto in Israele l’io- narrante si trova, per la prima volta, nella condizione di poter parlare di se stesso dalla posizione distanziata della terza persona:

“Das jüdische Volk brachte Itzig Finkelstein in das Land seiner Vorväter zurück. Seine Ankunft, nach einem Exil von 2000 Jahren, war ein historischer Moment. […] Itzig Finkelstein hatte sich zu oft verwandelt. Aus dem unschuldigen Säugling, der einmal Max Schulz hieß, war ein kleiner Rattenfänger geworden. Und aus dem Rattenfänger ein studierter junger Herr. Und aus dem studierter jungen Herrn… ein Friseur. Und aus dem Friseur ein SS-Mann. Und aus dem SS-Mann ein Massenmörder. Und aus dem Massenmörder… der kleine jüdische Schwarzhändler Itzig Finkelstein: aus dem kleinen jüdischen Schwarzhändler Itzig Finkelstein... ein Pionier, ein Heimkehrer, ein Freiheitskämpfer.” [10]

Proprio come nelle due Spiegelszenen la narrazione in terza persona trasforma il soggetto in oggetto, così il protagonista può esaminare obbiettivamente la sua metamorfosi e constatare, per la prima volta nel romanzo, che i volti nello specchietto di sua madre presagivano le tappe evolutive del suo essere. Inoltre, per la prima volta, egli non dubita della sua identità ed è fermamente convinto di essere diventato “ ein Pionier, ein Heimkehrer, ein Freiheitskämpfer”. Questa certezza rimarrà immutata quasi fino alla fine del romanzo, quando Max, dopo un inutile tentativo di raggiungere le truppe israeliane che si apprestano a combattere, rimane bloccato con la macchina nella Wald der 6 Millionen e gli alberi, che simboleggiano le anime delle vittime dell’Olocausto, lo mettono di fronte all’unica realtà effettivamente possibile:

“Bist du denn kein Jude? […] Du bist einer… aber nicht vom Standpunkt dieser Bäume… dieser 6 Millionen! […] Obwohl du beschnitten bist. Die wissen genau, wer du bist.” [11]

La raggiunta consapevolezza di non essere ebreo e di non potere continuare a nascondersi dietro il ruolo di vittima, lo spinge a desiderare una giusta punizione per i delitti perpetrati, tuttavia, quando rivela la sua vera identità, nessuno è più disposto a credergli poiché, ormai, il suo essere ebreo è troppo radicato e così è ritenuto pazzo. Una volta riconosciuta la sua vecchia personalità di carnefice, Max è costretto ad accettarla, anche se gli altri non lo fanno, e a convivere, d’ora in poi, con le sue due anime. L’inquieta coesistenza è però presto interrotta dal sopraggiungere della morte del protagonista. Max è colpito da un infarto, che simboleggia il rifiuto del cuore, sede del coraggio e della compassione [12] , e prima di spirare fa un ultimo, inutile tentativo di impossessarsi dell’identità ebraica immaginando che gli venga trapiantato il cuore di un rabbino:

“Ich hatte einen Wachtraum. Es kam mir vor, als läge ich wirklich im Sterben. Am Telefon die aufgeregte Stimme meiner Frau: »[…] Kommt gar nicht in Frage, Herr Doktor. Ich habe meinen Man gefragt. Kommt nicht in Frage. Er will kein arabisches Herz. Auch kein englisches. Und erst recht kein deutsches. Mein Mann will ein jüdisches Herz! […] Was sagen Sie? Ein Glücksfall? Gerade ist jemand gestorben? […] das Herz eines Rabbiners? Und ob mein Mann einverstanden ist?«” [13]

Pervaso dal desiderio di essere ebreo e deluso dall’impossibilità di ricevere una giusta punizione per le gravi colpe di cui si è macchiato, Max muore trasportato “Irgendwohin, Dorthin!” dal vento proveniente dalla Wald der 6 Millionen. Il finale è piuttosto controverso e la critica ha cercato di chiarirne il significato:

“Tatsächlich wird hier der durchgängige satirisch-groteske Diskurs verlassen: der Wind, der vom Wald der sechs Millionen weht - erinnernd an den Rauch aus den Kaminen von Auschwitz, aber zugleich auch an den Wettersturm, aus dem der Herr im Buch Hiob spricht (Hiob 38,1 und 40,6) -, erlaubt die satirische Rede nicht mehr.” [14]

Hilsenrath vuole recuperare la propria identità perduta: come ebreo, come tedesco e come scrittore. Attraverso la sua opera letteraria, ricostruzione dell’esperienza vissuta, e in Der Nazi & der Friseur, attraverso la sibillina conclusione, ha probabilmente voluto dimostrare ai lettori, soprattutto suoi connazionali, che nella sua anima convivono due identità: quella ebrea e quella tedesca, che per lui non sono affatto antitetiche.


[1] A. Graf, op. cit., p. 139.

[2] G. Grass, op. cit., p. 9.

[3] A. Graf, op. cit., pp. 139-140.

[4] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., pp. 13-14.

[5] Cfr.. A, Graf, op. cit., p. 146.

[6] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., pp. 38.

[7] A. Graf, op. cit., p. 146.

[8] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., pp. 204-205.

[9] A. Graf, op. cit., p. 147.

[10] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., pp. 277-278.

[11] Ivi., p. 393.

[12] Cfr. A. Graf, op. cit., p. 146.

[13] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., pp. 420-421.

[14] H.O.Horch, op. cit. p. 223

 


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