Satira, nazismo e piccola borghesia


Satira, nazismo e piccola borghesia

“Das Problem ist, daß nach dem Zweiten Weltkrieg tausende von Büchern erschienen sind über dieses Thema, über KZs und Faschismus. Die Leute sind überschwemmt worden mit solcher Literatur, und keiner will das mehr lesen! Inzwischen ist jedoch eine neue Generation da, die das einerseits lesen möchte, andererseits aber Hemmungen hat, weil sie sich sagt: das ist zu schrecklich. Ich finde es wichtig, daß man weiter solche Bücher schreibt, nur muß man sie den Leuten auch zugänglich machen. Die Frage, die ich mir gestellt habe, war die: wie finde ich dafür einen neuen literarischen Weg? Da habe ich mir gedacht, es gibt nur eine Möglichkeit, und das ist das Understatement. „Der Nazi & der Friseur“ ist ein Understatement in Form einer Satire - eine angebliche Verharmlosung, die aber keine ist, eine Anklage im Tarnmantel einer angeblichen Satire.” [1]

L’intervento di Hilsenrath sulla problematica relazione tra satira e nazismo mostra apertamente l’intento di suscitare l’interesse del pubblico con nuovi, insoliti percorsi. Lo scrittore definisce il suo romanzo precisamente una satira, tuttavia ricorrono molti passaggi al grottesco, quindi, bisognerebbe definire Der Nazi & der Friseur un romanzo satirico- grottesco sul nazismo, sull’Olocausto e sul sionismo. Questi ultimi, infatti, sono i tre elementi a cui Hilsenrath rivolge le proprie accuse “im Tarnmantel einer angeblichen Satire”, e la satira è il suo mezzo per Understatement la realtà. Egli vuole attenuare il vero, minimizzare l’orrore della morte e accusare coloro che hanno provocato o permesso tale orrore.

Fin dal Medioevo il riso carnevalesco veniva usato per esorcizzare la paura del misterioso e dello sconosciuto e nello stesso tempo per svelare la verità sul mondo e sul potere divino e umano che lo dominavano. Nel XX secolo vi è una rinascita della cultura e del riso, utilizzata dagli scrittori per allontanare lo sgomento provocato nell’uomo da un mondo in continuo progresso. Anche Hilsenrath si riallaccia a quest’antica cultura e con il riso, che cerca di suscitare attraverso le battute talvolta un po’ troppo mordaci del carnefice Max Schulz, cerca di esorcizzare le sue paure, ma anche quelle di tutti coloro, ebrei e non, che hanno dovuto affrontare la dura realtà del nazionalsocialismo:

“Das Lachen über Max Schulz, auch wenn es bisweilen im Hals stekken bleibt, hat sicher eine entlarvende Funktion. Wenn der Leser über den Opportunismus des Nazis lacht, wird er gleichzeitig dazu verleitet, sich mit den Ursachen des Nazionalsozialismus auseinanderzusetzen. Das Lachen hilft hier, bestehende Hemmschwellen, sich mit dem Greuel zu beschäftigen, abzubauen und der Wahrheit ins Auge zu sehen. Gleichzeitig entlarvt die groteske Zeichnung des Helden als Stürmer-Karikatur bestehende Voturteile und Klischees.” [2]

La cultura del riso a cui si riallaccia Hilsenrath non è solo quella di Rabelais, ma è anche quella dell’antica tradizione ebraica del Talmud, dove hanno origine gli jüdische Witze, [3] i quali svolgono una precisa funzione: si battono contro il peso dell’ambiente ostile, contro l’oppressione che si manifesta attraverso i potenti e per la libertà di scelta, azione e pensiero; la loro è allo stesso tempo una lotta e una richiesta per una nuova, moderna etica, che non sia più basata su generali regole comunitarie, ma piuttosto su norme dai forti toni personali. [4] Gli jüdische Witze sono riproposti dagli autori del XX secolo come reazione all’antisemitismo e alla persecuzione che ne consegue. Anche Hilsenrath cerca di utilizzare lo humour per scansare l’eccesso di dolore che l’opprime e per poter esprimere, attraverso la scrittura, l’inenarrabile orrore al quale è miracolosamente sopravvissuto. L’autore cerca di travestire questa indescrivibile realtà da favola allegra, raccontata da un ingenuo carnefice, che, con il suo opportunismo, cinismo e falso perbenismo, diventa l’emblema di tutto il mondo piccolo borghese che egli orgogliosamente rappresenta. Heinrich Böll all’inizio del saggio critico intitolato Hans im Glück im Blut rievoca in poche righe, con evidente sarcasmo, la tipica immagine del nazista piccolo borghese, che Hilsenrath ha saputo rinnovare nelle pagine del suo romanzo:

“Während sich die Auseinandersetzung mit Hitler in immer höheren und damit immer feineren Gefilden verliert, vergißt man jene denkwürdige Menschensorte, die man ohne Einschränkung Nazis nennen muß, eine deutsche Variante des homo sapiens, ohne die Hitler seine Karriere nicht hätte machen können. Wo soviel Grausiges geschehen ist, von dem kaum einer »etwas gewußt«, das keiner »gewollt« hat, fragt sich einer natürlich, wer hat denn getan, was kaum einer gewußt und gewollt hat? Wer etwa war »gewissenhaft« genug, die mörderischen Befehle auszuführen und »gewissenlos« genug, mit einem Sack voller Goldzähne als Kriegsbeute heimzukehren? […] Hilsenrath nennt seinen - Helden schlicht einen Nazi. Das ist wohltuend, wenn auch unakademisch. Denn, was vulgo Nazis waren (und sind), sind natürlich historisch - objektiv die Nazionalsozialisten, damit, durchaus korrekt, auf eine Weise veredelt, über die man streiten kann.” [5]

Böll descrive i nazisti come una specie che si avvicina più a quella animale che a quella umana, una sorta di insensibili, crudeli, spietati esseri animaleschi che cercano di negare le proprie colpe, ma che irrimediabilmente le trascinano con sé, proprio come Max Schulz che si porta dietro e custodisce gelosamente il suo sacco pieno di denti d’oro delle migliaia di vittime da lui mandate a morte.

“»Und wie ist das mit den 6 Millionen Juden?« Fragte Frau Holle. »Das stand doch in der Zeitung. Hat der Willi gesagt. Bestimmt alles Schwindel?« »Das weiß ich nicht«, sagte Max Schulz »Es waren bestimmt nur 2 Millionen«, sagte Frau Holle. »Das weiß ich nicht«, sagte Max Schulz. »Oder 3 oder 4. Es könnten vielleicht auch 5 gewesen sein. Aber bestimmt keine 6!« »Das weiß ich nicht«, sagte Max Schulz. »Glauben Sie… es könnten doch 6 gewesen sein?« »Vielleicht«, sagte Max Schulz. »Möglich ist das schon. Ich habe nicht gezählt.«” [6]

Daniel Jonah Goldhagen, nel dettagliato saggio sui tedeschi e l’Olocausto parla di cifre e scrive:

“Per comprendere il genocidio dobbiamo quindi tenere a mente due considerazioni. Scrivendo o leggendo a proposito di quelle operazioni omicide, è fin troppo facile divenire insensibili al vero significato delle cifre: diecimila morti qui, quattrocento lì, quindici da un’altra parte. Ciascuno di noi dovrebbe soffermarsi a pensare che se ci furono diecimila morti vuol dire che i tedeschi ammazzarono diecimila persone - uomini disarmati, donne, bambini, vecchi, giovani, ammalati -, che per diecimila volte privarono un essere umano della vita. Ciascuno di noi dovrebbe riflettere sul significato che tutto questo può avere avuto per i tedeschi che presero parte allo sterminio; […] Le vittime ebree non erano «dati statistici», come ci appaiono sulla carta: per i loro assassini gli ebrei erano persone che un attimo prima respiravano, e ora giacevano senza vita, spesso ai loro piedi. E tutto questo avveniva indipendentemente dalle operazioni militari.” [7]

Ma chi sono i veri artefici di un massacro dai numeri così esorbitanti che anche un meticoloso carnefice come Max Schulz non riesce a computare? Secondo Daniel Jonah Goldhagen, erano per lo più tedeschi i quali [8] agivano nel nome del loro Vaterland, e del popolare e amatissimo leader Adolf Hitler. Alcuni di essi erano nazisti, perché iscritti al partito nazionalsocialista o perché ne approvavano le ideologie, altri però, non lo erano. Alcuni erano arruolati nelle SS, altri erano semplici cittadini. I realizzatori del più grande massacro dell’era moderna contribuirono al genocidio sotto l’egida di molte strutture diverse dalle SS. Il legame tra di loro era l’appartenenza al popolo tedesco e prima di tutto l’impegno improrogabile di realizzare gli obbiettivi politici nazionali della Germania: il definitivo sterminio del popolo ebraico. Furono centinaia di migliaia i tedeschi che cooperarono a questa grande, macabra impresa e, nonostante i fallaci tentativi del regime di nascondere la realtà dei campi di concentramento, erano milioni a sapere delle esecuzioni in massa (i carnefici silenti). Hitler, infatti sentenziò più volte che la guerra sarebbe terminata con la scomparsa totale degli ebrei: le stragi erano quindi accettate, se non addirittura approvate, da tutti. [9]

 Il “filisteo” era particolarmente predisposto a subire l’influsso dell’ideologia nazionalsocialista: ingenuo, spesso ignorante, con una precaria situazione economica, in cerca di pace e serenità, ma soprattutto, già imbevuto di antisemitismo, inculcato nelle menti del popolo tedesco da secoli di storia. [10] Un altro aspetto, da non sottovalutare, di questo piccolo borghese incline alle ideologie naziste e all’odio verso gli ebrei, che viene ripetutamente messo in risalto anche nell’opera di Hilsenrath con chiaro intento critico, è l’opportunismo. Gli atti compiuti per ordini superiori come il rastrellamento, la deportazione e l’uccisione degli ebrei erano per lo più motivati da un intento utilitaristico: sono le azioni che avrebbe svolto con precisione e totale devozione il proverbiale (e mitico) “buon tedesco”, che si limitava a eseguire servilmente gli ordini ricevuti: [11] “Befehl ist Befehl” esclama Max Schulz quando si vede costretto a uccidere i coniugi Finkelstein, inginocchiati e imploranti al suo cospetto, o quando per nascondere ai compagni il sentimento che ancora lo lega all’amico Itzig lo uccide sparandogli alle spalle per non dover sostenere l’insopportabile, sofferente luce dei suoi occhi amichevoli. Eseguire gli ordini comporta comunque una scelta di tipo morale e la volontà di mettere in pratica quanto prescritto; ciò che differenzia questo tipo di scelta dalla libera e orribile azione volontaria è solamente il grado di crudeltà. La prima è l’azione di un freddo carnefice che si limita ad eseguire scrupolosamente degli ordini, la seconda è invece l’atto crudele e disumano di un essere che, presumibilmente, trae un particolare piacere dalle sofferenze che infligge; il risultato comunque non cambia per gli ebrei: sei milioni di vittime innocenti. Max Schulz, la madre Minna e il patrigno Slavitzki, come è noto, aderiscono al partito non perché convinti sostenitori delle ideologie che propugnava, ma solamente perché il loro opportunismo li fa propendere dalla parte del potere e del sicuro guadagno economico. Max e Slavitzki entrano nelle SA, ma decidono di posticipare l’acquisto dell’uniforme e degli stivali “bis der Führer an die Macht kam [12] . Questo utilitarismo e interesse al guadagno economico esaspera una situazione comune nella Germania nazista: i piccoli borghesi tedeschi si fecero incantare dalle illusorie promesse del Führer, credendo di trovare, grazie a lui, nuova pace e serenità personale e finanziaria. Attraverso i suoi personaggi Hilsenrath deride quella società credulona che si è lasciata stupidamente corrompere da un falso predicatore. L’apoteosi di questa ridicolizzazione è rappresentata dalla massa di disgraziati che si reca ad ascoltare l’orazione di Hitler:

“[…] hier sind die verkrachten Existenzen versammelt - auch die Kurzatmigen und die Arschlecker von Beruf, Leute, die im Leben nicht richtig vorwärts kamen, entweder, weil sie keine Puste hatten und das planmäßig Kriechen nie richtig gelernt hatten, oder weil der Arsch, den sie leckten, unersättlich war. […] wie sagte ich doch vorhin: die irgendwann mal eins aufs Dach gekriegt haben - vom lieben Gott oder von den Menschen: die Glatzköpfe zum Beispiel, auch die sind hier versammelt - gucken Sie sich doch mal um - und auch die zu dünnen und die zu dicken, Leute mit zu kurzen Beinen und Leute mit zu langen, die zu alten und die zu jungen, die Perversen ohne Partner und die Impotenten, Leute mit Würgerhänden, die bisher nicht würgen durften, weil ihnen gesagt wurde, sie dürften zu streicheln, auch die Brillenträger sind gekommen und die Brillenträgerinnen, denn »Er« hat gesagt: »Lasset die Kindlein zu mir kommen!« Aber die Kindlein - das sind die Verhinderten! - Ja so ist das […] vor allem die Verhinderten die, die gerne mal möchten und nicht können.” [13]

Questa grottesca carrellata di poveri sventurati, angustiati da problemi molto “seri” quali la calvizie o la miopia, rappresenta la società piccolo borghese dell’epoca, secondo l’occhio critico dell’autore. Hilsenrath fa sfilare, Arschlecker von Beruf, Glatzköpfe, Perversen, Impotenten, Brillenträger, ecc., per illustrare la ridicola realtà che ha permesso l’affermazione del potere nazista in Germania e quindi il genocidio del popolo ebraico. Sono tutte persone bisognose d’aiuto perché almeno una volta nella vita sono state prese in giro o sottomesse da Dio o da altri uomini e quindi vedono nella figura di Hitler il nuovo santo salvatore: “Adolf Hitler […]. Er ist der große Heiler [14] in grado di liberare i tedeschi e forse il mondo intero, dal peso dei loro “gravi” problemi. Qui Hilsenrath per manifestare la sua pesante accusa contro l’ottusa, perversa, ipocrita società nazista si serve di un artificio utile a suscitare l’interesse del lettore: la satira che spesso diventa assai pungente. Come Günter Grass anche Edgar Hilsenrath mette in scena l’intera società piccolo borghese, attraverso le avventure di un unico filisteo, o come lo definisce Werner Hornung in Biedermann oder Adolf-Hitler-Milieu: una “seltsame Mischung aus Spießbüger und Schelm.” [15] Inoltre, le vicende che Max racconta con entusiasmo e partecipazione e, naturalmente, cinismo, sono un’autocritica della società da lui orgogliosamente rappresentata.


[1] E. Hilsenrath, Zwischen Tränen und Gelächter. Ein Gespräch über Satire und Faschismus, in “Sammlung”, 1/1978, p. 134.

[2] C. Brecheisen, op. cit., p. 233.

[3] Cfr. ivi., p. 230.

[4] Cfr. ibidem.

[5] H. Böll, op. cit., p. 76.

[6] E. Hilsenrath, Der nazi & dei Friseur, op. cit., p.115.

[7] D. J. Goldhagen, op. cit., pp. 23-24.

[8] Goldhagen precisa che se i tedeschi furono affiancati da esponenti di diverse nazionalità, questi però non si rivelarono indispensabili per la realizzazione del genocidio, né presero l’iniziativa per iniziarlo o portarlo avanti. Sicuramente però, se i tedeschi non avessero trovato collaboratori negli altri paesi d’Europa, l’Olocausto avrebbe avuto esiti differenti e forse non sarebbero stati uccisi così tanti ebrei. Ivi, p. 6.

[9] Cfr. ivi, p. 6.

[10] È risaputo che nella storia della società e della cultura tedesche l’antisemitismo era un aspetto alquanto comune, quasi normale. Nel medioevo, nell’Evo moderno e di sicuro finoi all’Illuminismo, quella società fui profondamente antisemita, quinidi quando il nazismo iniziò a propagandare le proprie idee di razza e a mostrare molto apertamente il proprio odio verso gli ebrei, si trovò di fronte tutta una società ben disposta ad accettare opinioni radicate ormai da secoli nell’immaginario collettivo. Cfr. ivi, p. 32.

[11] Cfr. ivi, p. 18.

[12] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., p. 55

[13] Ivi, p. 45.

[14] Ibidem.

[15] W. Hornung, Biedermann oder das Adolf-Hitler-Milieu, in “Bücherkommentare”, 1977 H. 4, p. 89.

 


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