Vittime = carnefici / carnefici = vittime


Vittime = carnefici / carnefici = vittime

Come è già stato accennato all’inizio del capitolo, generalmente l’opera di Hilsenrath si divide in vittime e carnefici. Alcuni personaggi però esulano dalla categoria cui appartengono per inserirsi in quella opposta: alcune vittime agiscono o pensano come i carnefici o, viceversa, i carnefici subiscono violenze fisiche o psicologiche, diventando così delle vittime. Non potendo inserire queste figure né nel gruppo delle vittime né in quello dei carnefici si è preferito dedicare loro un paragrafo a parte. Der Nazi & der Friseur presenta solo quattro personaggi di rilievo con le caratteristiche sopra descritte: Frau Schmulevitch, Sigi Weinrauch, Veronja (vittime = carnefici) e Frau Holle (carnefici = vittime), uno dei quali, Sigi Weinrauch, collega di Max Schulz nel salone di Schmulevitch, è solamente abbozzato.

Frau Schmulevitch, moglie di Schmuel Schmulevitch, è un’ebrea prussiana fiera della patria cui appartiene, la quale mostra addirittura un certo diniego verso suo marito e tutti gli ebrei, che, come lui, provengono dall’Europa orientale. Il particolare più assurdo del personaggio in questione è l’adorazione per la figura di Hitler e l’approvazione del nazionalsocialismo. Il segno evidente di questa insolita propensione è la catena che con fierezza porta appesa al collo:

“Sie trägt ein silbernes Kettchen. Und dort hängt was dran, ein verborgenes Schmuckstück, sitzt irgendwo zwischen den welken Brüsten, tief verborgen unter dem hochgeschlossenen Kleid. Hab Jizchak Spiegel gefragt: »Was ist das für ein Schmuckstück?« […] »Man munkelt: das Eiserne Kreuz Erster Klasse. Ihr erster Mann war ein preußischer Offizier.« »Jude?« »Ja. Ein Jude.« […] Eine preußische Jüdin, die Preußen nicht vergessen kann. Das hat mir gerade noch gefehlt. Und noch dazu hier im Heiligen Land. Wissen Sie, was Schmuel Schmulevitch unlängst zu mir gesagt hat? »Herr Finkelstein«, hat er gesagt. »Wir sind Leidengenossen. Ich bin ein Russe und Sie sind ein Galizianer… wenn ich nicht irre. Wir müssen uns vor meiner Frau an acht nehmen.« Hab zu ihm gesagt: »Meine Eltern sind aus Galizien, aber ich selbst bin in Wieshalle geboren, einer alten deutschen Stadt.« »Das macht nichts«, hat er gesagt. »Sie sind ein Galizianer, Herr Finkelstein.« Hab ihn gefragt: »Hat Ihre Frau damals gewählt?« Hat mich gefragt: »Wen gewählt?« Hab gesagt: »Adolf Hitler!«” [1]

Frau Schmulevitch non crea molti problemi a Max, si limita a storcere il naso quando parla yiddisch con i clienti o nasconde, intimorita, il suo prezioso monile, quando Max discute con fervore sull’indipendenza dello stato d’Israele e sulla necessità di un’azione decisa affinché il popolo di Dio possa finalmente riacquistare le terre che gli appartengono. Frau Schmulevitch non ama la terra in cui è costretta a vivere e farebbe volentieri ritorno nella sua adorata patria prussiana. Questo atteggiamento è fortemente criticato da Max, il quale ritiene che non sia un vero ebreo, anzi sia addirittura un Volksfeind, colui che ama la Germania, patria dei carnefici, e disdegna invece la terra dei suoi avi:

…] der Sigi Weinrauch, der ist ein Volksfeind. Reißt Witze über den Zionismus - wir nannten sowas »Zersetzung« - beleidigt unsere Führer - wir nannten sowas »Führerbeleidigung« - redet andauernd von der verlorenen Sache - wir nannten sowas »Verbreitung von Feindpropaganda und Defätismus« aber was das Schlimmste ist… der Sigi Weinrauch, der liebt Deutschland. Können Sie verstehen? Ein Jude, der Deutschland liebt! Trotz der 6 Millionen! Der ist nicht besser als meine Chefin… die mit dem Eisernen Kreuz… Frau Schmulevitch… Eisernes Kreuz zwischen den alten Brüsten versteckt.” [2]

In un intervista, lo scrittore cerca di spiegare il punto di vista del suo personaggio:

“»[…] Fühlten Sie sich damals, als Sie Palästina verließen, wie ein Verräter?«

»Eigentlich ja. Ich sah die Notwendigkeit einen jüdischen Staat aufzubauen, einfach als Schutz. Für mich wäre es damals auch ein Verrat gewesen, nach Deutschland zurückzufahren, weil noch diese Generation da war, die bei den Nazis mitgemacht hat. Später wollte ich in das Land meiner Sprache zurück; nicht zu den Deutschen, aber weingstens zur Sprache, um weiterzuschreiben zu können.«” [3]

Dopo la morte di Schmuel Schmulevitch, la moglie eredita il salone, dove apporta molti cambiamenti, mettendo in evidenza i propri pregiudizi soprattutto verso gli ebrei orientali: su alcune poltrone del negozio appende grossi numeri progressivi, indicanti una precisa disposizione che deve assolutamente essere rispettata:

»[…] Der Friseursessel Nummer eins, der am Fenster, bester Frieseursessel im Salon, Fensterplatz, verstehen Sie… der ist… für die deutschen Juden reserviert!« »Ach so! Und Friseursessel Nummer zwei?« »Für Juden aus anderen westeuropäischen Ländern.« »Und Nummer drei?« »Für die Elite der Ostjuden.« »Und wer sind die, Herr Spiegel?« »Die russischen und die litauischen.« »Und Friseursessel Nummer vier?« »Für die übrigen osteuropäischen Juden. Außer den rumänischen.« »Und wo sitzen die rumänischen?« »Auf dem letzten Sessel der Ostjuden. Auf dem Sessel Nummer fünf.« Ich blickte Jizchak Spiegel entsetzt an. Dachte an die Hausnummer 33-45! Dachte: Aha. Also so ist das! Jizchak Spiegel erklärte mir dann, daß auf dem Sessel Nummer sechs die Elite der orientalischen Juden bedient wurde: die Jemeniten. Dann folgten andere; auf dem letzten Sessel, der für die orientalischen Juden bestimmt war, saßen die Marokkaner. […] »Und wie ist das mit den beiden nummernlosen Sesseln in der Nähe des Fensters?« »Der eine ist für die “Sabras” reserviert«, sagte Jizchack Spiegel. »Das sind die Juden, die bereits in diesem Lande geboren wurden […].« »Und der andere, Herr Spiegel?« »Der ist für die Nichtjuden bestimmt. Für neue nichtjüdischen Staatsbürger, auch Ausländer. Wir lassen sie aus Höflichkeit am Fensterplatz sitzen.«” [4]

Il passo rivela esplicitamente le preferenze di Frau Schmulevitch, la quale, avendo preconcetti soprattutto nei confronti degli ebrei orientali li suddivide a loro volta in categorie preferenziali, nell’ultima delle quali colloca i rumeni. Max osserva inoltre, che “casualmente“ il numero dell’edificio in cui si trova il salone è 33-45, ossia le gli anni che indicano gli estremi della dittatura nazista in Germania. Frau Schmulevitch è un personaggio inconsueto, che rappresenta in maniera estremamente esagerata i pregiudizi che, non solo i non ebrei, ma anche gli ebrei tedeschi, pressoché assimilati, avevano verso i loro confratelli orientali. In Germania gli Ostjuden, devoti e ribelli allo stesso tempo, erano considerati sporchi, rumorosi, scostumati, culturalmente antiquati, l’immagine antitetica del moderno, emancipato acculturato e, soprattutto tedeschizzato Westjude. Lo stile di vita degli ebrei orientali era contrassegnato da un adeguamento relativamente rinunciatario alla cultura tedesca, essi tendevano però ad isolarsi dal resto della popolazione e della comunità ebraico- occidentale per mantenere inalterate le loro tradizioni religiose e la loro lingua (lo yiddisch); per gli ebrei orientali era quindi molto importante vivere proprio come quando, prima dell’involontario esodo, stavano insieme e incontaminati nell’idillio dello Shtetl. [5]

Hilsenrath, nato in Germania, ma di origine ebraico- orientale, era molto legato alla vita comunitaria della piccola cittadina rumena dove abitavano i nonni materni e dove ogni estate trascorreva momenti indimenticabili a contatto con le tradizioni del suo popolo che in Germania, dove risiedeva, erano state completamente dimenticate.Del gruppo delle vittime, che agiscono come carnefici, fa parte anche il personaggio della vecchia Veronja, che non appartiene all’intreccio vero e proprio del romanzo, ma è protagonista di una vicenda a sé stante, che Max inserisce nella narrazione (racconto nel racconto), per rendere l’avventura nella foresta polacca molto più avvincente. Veronja è un’anziana contadina polacca, che come gli ebrei subisce i pesanti insulti e le persecuzioni dei nazisti, ma che nel romanzo appare come una strega che si diverte a torturare, picchiare e violentare il povero, indifeso carnefice Max Schulz. Prima di identificarsi definitivamente in Itzig Finkelstein, il carnefice veste brevemente i panni della vittima, ma ancora in quanto Max Schulz. E’ una fase transitoria che egli è costretto a superare, affinché la futura metamorfosi avvenga in maniera compiutamente perfetta. L’anziana donna ha, secondo l’io- narrante, le sembianze di una strega e, effettivamente, le azioni che essa compie, confermano ciò che il suo aspetto comunica allo sguardo intimorito di Max:

“Plötzlich ging eines der Fenster auf. Ich sah ein Gesicht. Das Gesicht eines Hutzelweibes. Ein uraltes Gesicht. […] Das Fenster wurde schnell wieder zugeklappt. Eine Zeitlang rührte sich nichts, und ich dachte schon: Pech! Die Alte hat die Uniform gesehen. Sicher hat sie Angst! Aber dann ging die Tür auf. Ganz langsam ging die auf. Und knarrte. Ganz komisch knarrte die Tür. […] Da stand sie plötzlich auf die Türschwelle. Eine uralte Frau. Eine, die ganz komisch grinste. So ein Grinsen hatte ich vorher noch nie gesehen.” [6]

Inizialmente, Max pensa che l’anziana donna, dopo aver visto l’uniforme delle SS tema di essere uccisa, però la porta si apre, emettendo un lugubre cigolio, proprio come nella favola di Hänsel und Gretel, [7] la strega esce con un sorriso da Menschenfresser e invita Max ad entrare nella calda e accogliente capanna. Appena i due mettono piede nella piccola abitazione di Veronja, i loro ruoli si invertono: il carnefice viene privato dell’uniforme, la sola in grado di dargli forza e coraggio, e diventa un’indifesa, mansueta preda per la vecchia strega, che rivela apertamente la sua vera natura. Max è sottoposto ad ogni sorta di tortura, la strega lo bastona e lo frusta, per poi medicargli le ferite riaperte con altre bastonate e vergate. Costretto ad estenuanti, insonni notti di passione, Max rischia di morire di infarto, ma ancora una volta la brutale persecutrice diventa un’abile e amorevole infermiera, lo cura, lo rinvigorisce con tisane dall’oscura provenienza (proprio come le magiche pozioni delle streghe) prima di passare ad un altro spossante ciclo di botte e violenze. Alla fine, stanco delle insopportabili e angoscianti angherie che deve sopportare da parte di Veronja e che oltretutto lo avrebbero condotto a morte sicura, Max risveglia il carnefice assopito che è in lui e uccide brutalmente la donna. I ruoli si invertono nuovamente e definitivamente: il carnefice Max Schulz uccide la vecchia donna polacca:

“Ich war schneller als Veronja. Ich wich dem Schlag aus, warf Veronja zu Boden, ergriff selber die Hacke, die in der Bank steckgeblieben war, holte aus und zertrümmerte den Schädel der Hexe mit drei Schlägen: Drei Schläge!  Wie man so sagt: Aller gute Dinge sind drei.” [8]

Nella categoria dei carnefici, a parte il protagonista che passa continuamente da uno stato di vittima a quello di carnefice e viceversa, l’unico personaggio ad aver subito violenze è Frau Holle, una figura chiave, poiché, come già detto, permette e facilita la trasformazione del carnefice Max Schulz nella vittima Itzig Finkelstein. Questo personaggio occupa da solo circa venti pagine del romanzo; la sua   storia,   inserita senza preavviso nell’intreccio del racconto, serve al narratore per spiegare più facilmente il proprio legame con la donna. Vedova di un compagno di Max nelle SS, Frau Holle è una donna molto sola, che ogni giorno è costretta ad escogitare nuove strategie per rimediare qualcosa da mangiare. Le prime parole che il narratore usa per descriverla lasciano il lettore un po’ perplesso, almeno fino a quando non viene chiarito come sia possibile che Frau Holle abbia una gamba ariana e una non ariana:

“Frau Holle hat zwei Beine: ein arisches un ein nichtarisches. Das nichtarisches war aus Holz, wurde tagsüber angeschnallt und spät am Abend, vor dem Zubettgehen abgeschnallt.” [9]

Leggendo la parte iniziale della frase non si comprende per quale motivo sia specificato che Frau Holle ha due gambe, visto che tutti gli esseri umani sono dotati di due arti inferiori: l’espressione diventa ancora più incomprensibile quando si afferma che una gamba è ariana e l’altra no; solo successivamente viene definitivamente chiarita l’enigmatica questione delle due gambe di Frau Holle: la gamba nichtarisch è di legno. La voce narrante si insinua così nei pensieri più reconditi della donna, rivelandone le inquietudini che si manifestano attraverso l’ombra danzante della gamba di legno appesa alla parete:

“Der Schatten des Holzbeins war ein seltsamer Schatten. Denn er hatte nicht nur einen Körper. Er hatte auch ein Gesicht. Daß sich ein Schatten im Widerschein der flackernden Kerze bewegen konnte, das verstand Frau Holle. Sie hatte auch Verständnis dafür, daß der Schatten tänzeln konnte, zuweilen sogar seltsame Sprünge machte… an der langen Wand… als wollte er sich jeden Moment auf das einsame Bett stürzen und auf die einsame ängstliche Frau, die sie selbst war, eine arische Frau, tagsüber mit zwei Beinen, nachts nur mit einem, einem arischen, daß sich vor Schreck zusammenkrümmte - aber daß der Schatten auch grinsen konnte, und zwar immer anders - das verstand Frau Holle nicht. […] Nachts hatte Frau Holle Angst. Frühmorgens jedoch, wenn es hell wurde und der Spuk verflogen war, da war auch die Angst wie weggewischt und ihre aufgespeicherte Wut entlud sich mit aller Macht. Erst dann wagte Frau Holle das Holzbein zu beschimpfen. Und Frau Holle schimpfte! Und wie sie schimpfte! »Du dreckiger Iwan«, schimpfte Frau Holle und wurde dabei ganz munter, »du dreckiger, gottverfluchter Iwan. Frauenschänder, Lump, Saujud, Itzig, Führermörder, Halunke, Schlitzauge, Sibirien!«” [10]

Durante la notte la gamba di Frau Holle si muove, danza, sogghigna, in questo modo rivivono i fantasmi del passato che la donna, intimorita, cerca inutilmente di allontanare dalla propria mente, ma essi si insinuano nella penombra della sua stanza, illuminata dalla fioca luce di una candela e rimangono fino all’alba. Solo allora Frau Holle riacquista il coraggio e la forza emotiva per scacciare il terribile ricordo della violenza subita a Berlino, nel maggio del 1945, dove è stata violentata cinquantanove volte dai russi, i quali non hanno nemmeno notato il suo grave handicap. Dopo questa terribile esperienza Frau Holle, spaventata, ritorna a Warthenau, la sua città d’origine, dove si rifugia nella cantina della sua casa semidistrutta. Là la donna aspetta invano il ritorno del marito, barbaramente trucidato nella foresta polacca insieme agli altri compagni di Max Schulz, lotta costantemente per la sopravvivenza e si aggira con difficoltà tra le rovine della città trascinandosi la pesante gamba di legno:

“Und dann waren die Russen gekommen. Und die hatten sie 59 mal vergewaltigt. Und die hatten sich nicht um das Holzbein gekümmert. Und es war bestimmt keine Kleinigkeit gewesen, aus der Hauptstadt herauszukommen und sich nach Warthenau durchzuschlagen, mit einem arischen und einem nichtarischen Bein, ungebrochen, obwohl humpelnd, mit Schmerzen im Gesäß und den Gesclechtsteilen und zerbissenen Brüsten und abgebrochenen Fingernägel […].” [11]

Le violenze subite l’hanno resa particolarmente debole anche a livello psicologico: ogni giorno deve affrontare le conseguenze del danno fisico che ne è derivato e ogni notte è costretta a lottare contro le proprie paure che si manifestano attraverso l’ombra in movimento della gamba di legno appesa alla parete. Ma Frau Holle è contemporaneamente anche un carnefice perché maledice gli ebrei, a causa dei quali, secondo lei, dopo la guerra è costretta a soffrire la fame, rimpiangendo i bei tempi in cui Hitler era ancora vivo. [12]

Con le tre donne considerate in questo paragrafo, si chiude l’analisi dei personaggi del romanzo. Come è stato possibile osservare, tutte le figure presenti nell’opera hanno un’importanza relativa se considerate fini a se stesse, ma sono di fondamentale necessità se relazionate alla figura del protagonista, giacché ne stimolano la metamorfosi e la continua oscillazione tra l’identità di vittima e quella di carnefice. Questi personaggi inoltre, hanno delle caratteristiche generali che determinano la loro tipicità e quindi la loro inesistenza in quanto singoli individui. Infine, la paradossale esagerazione con cui vengono raffigurate ha un chiaro intento satirico- grottesco: la satira è un artificio ripetutamente utilizzato nel corso del romanzo per velare, ma non troppo, la critica dell’autore alla società piccolo borghese, ai suoi ridicoli rappresentanti e alle false credenze naziste che collimano con gli esagerati ideali terroristici del sionismo. Questa particolare funzione del romanzo sarà argomento del prossimo capitolo.


[1] Ivi, pp.303-304.

[2] Ivi, p. 331. Questo è l’unico riferimento degno di nota al personaggio di Sigi Weinrauch.

[3] A. Kupka, Die Schwachen werden dann vernichtet. Gespräch mit Edgar Hilsenrath, in “Freitag”, 26.03.1993, p.23

[4] E. Hilsenrath, Der nazi & der Friseur, op.cit., pp. 373-374.

[5] “Lo shtetl era l’antica cittadina ebraica dell’Europa orientale, che generalmente godeva di forme di particolare autonomia della società circostante.” L. Cremonesi, Le origini del sionismo e la nascita del kibbuz (1881-1920), editrice la Giuntina Firenze 1992, p. 199.

[6] E. Hilsenrath, Der nazi & der Friseur, op. cit., pp. 131-132.

[7] “»So wie bei Hänsel und Gretel«

, sagte Frau Holle. »Mich gruselt’s richtig.«” Ivi, p. 132.

[8] Ivi, p. 151.

[9] Ivi, p. 75.

[10] Ivi, p. 75-76.

[11] Ivi, p. 85.

[12] Bisogna aprire una breve parentesi per riferire che Frau Holle pensa addirittura che Hitler, se fosse ancora vivo, scenderebbe dal cielo: “Der käme vom Himmel zu uns herab!” (ivi p. 86) per aiutare il popolo tedesco ancora costretto a subire la vergogna del mercato nero, abilmente portato avanti da ebrei senza scrupoli come il falso Itzig Finkelstein. L’immagine di Hitler che scende dal Paradiso si ricollega, ancora una volta, alla critica di Hilsenrath alla giustizia divina e al suo scetticismo verso tutto ciò che riguarda l’esostenza di Dio e del Paradiso. A questo proposito rivedere il breve scritto di Hilserath, Ich bin von natur aus ein Einzelgänger und singe nicht gern im Chor, op. cit., pp. 50-53.

 


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