Critica alla giustizia


Critica alla giustizia

Il paragrafo precedente termina su un aspetto molto importante del pensiero e dell’opera di Hilsenrath: la giustizia. Nel corso del presente lavoro si è fatto spesso riferimento al difficile rapporto dell’autore con Dio, aspetto che del resto lo accomuna con molti altri autori ebrei sopravvissuti all’Olocausto:

“Das Judentum als Religion hat ähnliche Probleme wie andere Religionen; die Zahl der wirklich praktizierenden Mitglieder verringert sich ständig. Zusätzlich hat die Erfahrung des Holocaust eine Vielzahl von Atheisten unter vorher gläubigen Juden hervorgebracht.” [1]

Hilsenrath si dichiara ebreo non osservante, ma soprattutto non credente. La parola Jude o jüdisch nella sua opera determina, quindi, una realtà storica o sociale, ma non religiosa. Nei personaggi di Hilsenrath la fede è quasi assente o la si ritrova solamente sotto forma di accusa, velata da toni scettici e canzonatori. E’ una fede priva di speranza verso il prossimo, la vita presente e futura e, soprattutto, verso la possibilità di un’esistenza eterna al cospetto divino. Già nel primo romanzo Nacht, lo scrittore manifesta attraverso la figura del protagonista l’impossibilità di credere e l’assoluta mancanza di speranza e fiducia. Espressione di questi stati d’animo è la frase biblica, di cui si è già parlato, che introduce il romanzo. Essa traduce in poche, essenziali parole la disperata condizione di tutti coloro che lottano per la sopravvivenza, ma anche dei superstiti che devono battersi ogni giorno contro il terribile ricordo che la coscienza ripetutamente fa riaffiorare:

“[…] Gegen Erinnerungen sind wir machtlos? Es gibt immer wieder Augenblicke, wo alles wieder da ist; das ist dann so, als würde mann auf eine Folterbank gespannt, und die Bilder grinsen einen an. Nur die Toten haben keine Erinnerungen. Sie wissen nicht mehr.” [2]

Peter Stenberg prendendo spunto dal motto iniziale di Nacht, ricostruisce il legame tra Hilsenrath e Dio:

“»Ich habe dich einen kleinen Augenblick verlassen, aber mit großer Barmherzigkeit will ich dich sammeln.« Das sind Jehovas Worte, in Zeiten der Not für sein auserwähltes Volk gesprochen und in der Bibel übermittelt (Jesaja 54,7). Das sind auch die ersten Worte, die in einem Buch von Edgar Hilsenrath stehen, als Motto für Nacht vor der Widmung an die Mutter, die wohl auch die nächsten Worte Gottes ganz persönlich verstehen konnte: »Einen Augenblick nur verbarg ich vor dir mein Gesicht in aufwallendem Zorn.« Es ist der Augenblick des Zornes, den die biblischen Israeliten ihrer Ungehorsamkeit wegen hinnehmen mußten, bevor sie ins gelobte Land ziehen durften. Aber für viele europäische Juden wurde dieser Augenblick während der Zeit des Holocaust so ewig, daß der abwesende Gott sein verborgenes Gesicht danach nicht mehr zum Vorschein bringen konnte. Wie ein Wunder hat die Familie Hilsenrath diese Jahre überlebt […]. Für den älteren Sohn Edgar, […] kam die Rettung durch die Rote Armee und nicht durch einen mit großer Barmherzigkeit wieder erscheinenden Gott. Für ihn war der Augenblick in der Wildnis des transnistrischen KZ-Ghettos zu lang, der Zorn Gottes zu unbegreiflich und dessen Folgen zu verheerend, als daß er an der Barmherzigkeit, die danach kommen sollte interessiert hätte sein können: »Seit meinem 14. Lebensjahr habe ich Gott abgelehnt.«” [3]

Dall’età di quattordici anni, ossia dal momento della deportazione insieme alla famiglia nel ghetto rumeno di Moghilew-Podolsk, Hilsenrath ha abbandonato la propria fede in Dio e ha iniziato a credere unicamente in se stesso e nella propria forza fisica e mentale, che lo aiuta a sopravvivere e continuare a convivere con i terribili ricordi che si affollano nella sua mente e che riesce ad esorcizzare solamente grazie all’ausilio della scrittura. [4] La perdita di fede conduce all’inevitabile scetticismo verso tutto ciò che è legato a Dio: secondo lo scrittore non esiste il Paradiso, quindi non c’è né ricompensa per i buoni e giusti, né tantomeno castigo per i malvagi. In conclusione: non esiste giustizia divina.

“Woran ich glaube? Eigentlich an gar nichts. Oder stimmt das nicht? Sind diejenigen, die behaupten, an nichts mehr zu glauben, vielleicht die wirklichen Gläubigen? Eine verzwickte Frage. Vielleicht sollte sie lauten: woran ich glauben möchte. Also gut. Das ist leicht zu beantworten. Ich möchte, zum Beispiel, daran glauben, daß es einen Gott gibt, einen, der der größte aller Bürokraten ist, ausnahmweise gerecht, der alle seine Schäflein kennt, der genau Buch führt, die Guten belohnt und die Bösen bestraft und - als ungewöhnliches Vorbild aller Bürokraten - dafür sorgt, daß am Ende immer das Gute über das Böse siegt.” [5]

Anche il migliore dei “burocrati” qualche volta può commettere errori punendo gli innocenti, come i sei milioni di ebrei ingiustamente e brutalmente sterminati, o lasciando a piede libero i loro carnefici che, come Max Schulz, possono rifarsi una vita decorosa. Der Nazi & der Friseur rielabora il tema della giustizia umana e divina attraverso l’immaginario Mordprozeß, che Max Schulz decide di inscenare. Nella sua lunga vita avventurosa il carnefice Max Schulz non incontra alcun ostacolo morale, nessuna valida regola religiosa e così decide di seguire la propria coscienza, distorta da innumerevoli avvenimenti negativi che hanno segnato la sua esistenza, e si comporta come Hitler, Stalin o lo strangolatore di Boston [6] , fino a quando approda in Palestina con una nuova identità. La nuova realtà ebraica gli fa percepire la necessità di norme precise e di una morale che regoli i pensieri e le azioni quotidiane e così s’insinua in lui il desiderio di giustizia:

“Der Richter hatte sich lange nicht blicken lassen. Eines Tages kam er triumphierend in meinen Friseursalon. Sagte: »Herr Finkelstein. Jetzt will ich meine Flasche Champagner. Ich hab’s nämlich rausgekriegt!« […] Resultat der Bemühungen des Amtsgerichtsrat Wolfgang Richter: Max Schulz ist tot! Seine Leiche wurde am 2. Juni 1947 von den polnischen Behörden geborgen! […] Sagte zum Richter: »Woher wissen die Behörden, daß die Leiche wirklich Max Schulz war? […] Es könnte ja ein anderer SS-Mann gewesen sein?« »Es war aber Max Schulz«, sagte der Richter. »Es hätte auch Hans Müller sein können«, sagte ich, »der Lagerkommandant, der damals zusammen mit Max Schulz flüchtete. Ja. Warum eigentlich nicht Hans Müller? Der war ja auch dort?« »Das weiß ich nicht«, sagte der Richter: »Aber glauben Sie mir als ehemaligen Amtsrichter: die Behörden haben Beweise, daß der Tote Max Schulz war… und nicht Hans Müller. Dem Urteil der Behörden muß man vertrauen!« Ich sagte: »Es war nicht Max Schulz!« Und der Richter sagte: »Es ist festgestellt worden! Wollen Sie etwa klüger sein als die Behörden?«” [7]

Conoscendo la reale identità del falso Itzig Finkelstein il lettore percepisce, dalle ultime frasi di questo colloquio, l’infondatezza della posizione di Richter: bisogna credere nel giudizio delle autorità. Max Schulz prova una profonda lacerazione interiore perché è messo di fronte ad un dato di fatto per lui impossibile da accettare: “Max Schulz ist tot”.

Nello stesso tempo, però, la sicurezza di Richter: “Wollen Sie etwa klüger sein als die Behörden?”  lo fa dubitare della sua stessa esistenza, già piuttosto incerta a causa di un’identità che anche lui non riesce bene a definire, suscitando nel carnefice l’inconfessato desiderio di essere giustamente giudicato e condannato:

“Ich sagte: »Stellen Sie sich vor, ich wäre wirklich Max Schulz! Und stellen Sie sich vor… dieser Friseursalon wäre ein Gerichtssaal! Und stellen Sie sich vor… ich wäre der Angeklagte! Und stellen Sie sich vor… Sie wären mein Richter!« […] »So! Sehen Sie! Der Angeklagte steht nicht vor dem Richter! Er sitzt neben ihm! Sie sitzen nebeneinander: Richter und Angeklagter!« »Und was soll das bedeuten, Herr Schulz?« »Ein ungewöhnliches Gerichtsverfahren, Herr Amtsgerichtsrat. Wir verzichten auf die übliche Prozedur, brauchen keinen Staatsanwalt, keinen Rechtsanwalt und all die anderen. Wir arbeiten zusammen. Als Partner!« »Als Partner?« »Jawohl, Herr Amtsgerichtsrat. Ich versichere Ihnen, daß ich, Max Schulz, dasselbe Ziel ansterbe wie Sie!« »Und das wäre?« »Eine Strafe für mich, die meine Opfer zufriedenstellt«” [8]

Max vuole pagare per le sue colpe, ma il passo più difficile per il giudice è quello di trovare una condanna che possa ripagare le circa diecimila vittime che sono morte per mano del carnefice Max Schulz:

“»Wieviel hast du eigenhändig umgebracht, Max?« […] »Ungefähr 10.000. Es könnten aber auch mehr gewesen sein. Oder auch weniger. Nur, um eine runde Ziffer zu nennen: 10.000! « […] »Dann lautet mein Urteil: 10.000mal aufhängen!« […] »Das geht aber nicht, Wolfgang. Ich habe nur einen Nacken!« […] »Dann hängen wir dich eben nur einmal auf, Max!« »Das geht nicht, Wolfagng.« »Und warum soll das nicht gehen, Max?« »Weil wir uns doch was vorgenommen haben, Wolfgang!« »Was denn, Max?« »Eine Lösung zu finden, die meine Opfer zufriedenstellt.« »Na und, Max?« »Die wären aber nicht zufrieden mit so einer Strafe.« »Wie meinst du das, Max?« »Mein Tod wäre nur ein Tod. Ein Tod für 10.000 Tode. Das wäre ungerecht.«” [9]

La giustizia umana non è in grado di trovare una punizione proporzionata ai gravi delitti di cui si è macchiato il carnefice, poiché le vittime sono troppo numerose e per riscattarle tutte Max dovrebbe essere impiccato almeno diecimila volte e riprovare così per diecimila volte la paura che le vittime hanno sentito prima della morte. Richter, interprete della giustizia umana, conferma la sentenza: “Freispruch [10] . Nel passo che è stato appena affrontato, Hilsenrath cerca di interpretare le difficoltà incontrate dopo la guerra da coloro che avevano il difficile compito di giudicare un crimine che non aveva eguali nella storia umana e giuridica. Bisognava impedire che alcuni criminali sfuggissero a qualsiasi condanna, ma l’ampiezza stessa del progetto di distruzione messo in atto dai nazisti precludeva la possibilità di organizzare un processo, in cui si potessero giudicare e condannare tutti i veri colpevoli. Inoltre, era necessario stabilire una graduatoria per decidere quali persone fossero più colpevoli, ossia individuare coloro che avevano avuto una responsabilità diretta nell’ordinare i massacri, che non poteva essere estesa, per esempio, ai soldati che erano in ogni modo implicati, ma si limitavano ad eseguire gli ordini loro impartiti [11] . Anche il personaggio di Hilsenrath fa parte di quest’ultima categoria. Egli si è sempre considerato “ein kleiner Fisch” e, infatti, per rendere più veritiero il suo ruolo di imputato cerca di difendere il proprio operato, come fecero realmente i veri grandi colpevoli:

“Mitgemacht! Bloß mitgemacht! Andere haben auch mitgemacht. Das war damals legal!” [12]

Dal luogo sacro, dove sono stati piantati i sei milioni di alberi in memoria delle vittime dell’Olocausto, Hilsenrath fa riecheggiare il suo più alto grido d’accusa:

“Die meisten Massenmörder leben auf freiem Fuß. Manche im Ausland. Die meisten wieder in der alten Heimat. Habt ihr keine Zeitung gelesen? Es geht ihnen gut, den Massenmördern! Die sind Friseure. Oder was anderes. Viele haben eigene Geschäfte. Viele besitzen Fabriken. Sind Industrielle. Viele machen wieder Politik, sitzen in der Regierung. Haben Rang und Ansehen. Und Familie. […] Wahrlich, ich sage euch. Das ist die volle Wahrheit. Sie leben auf freiem Fuß und machen sich über Gott und die Welt lustig. Ja. Und auch über das Wort »Gerechtigkeit!«” [13]

In questo caso la critica dello scrittore non è velata da alcun tono satirico- grottesco, non vi è alcuna frase umoristica che smorzi il tono di un’accusa più che mai aperta. Se nessuno conosceva veramente ciò che stava accadendo, se nessuno fu il vero responsabile, se tutti eseguirono semplicemente gli ordini, com’è possibile che sei milioni di vite umane siano state private del bene più prezioso? Hilsenrath, sopravvissuto a questa orribile realtà, desidera trovare una risposta a tale quesito e cerca di farlo attraverso il personaggio di Max Schulz, dovendo però constatare che non esiste una vera soluzione al problema, poiché una sola vita non potrà mai riscattarne sei milioni:

“Für den kleinen Hitler Max Schulz findet Richter keine gerechte Strafe, weil man ihn doch nicht sechs Millionen mal hinrichten kann. Er kann ihm nur wünschen, daß er mit der Angst der Opfer, die sie kurz vor ihrem Tod empfanden, selbst sterben wird. Das ist, wie er selbst weiß, eine ungerechte Strafe, weil Max Schulz, der gleich sterben wird, schon sehr lange mit seinen furchtbaren Verbrechen in Saus und Braus leben konnte und seine Bestrafung zu spät kommt. In der Abwesenheit Gottes wird eben sehr ungerecht mit Schuld und Sühne umgegangen.” [14]

Quando alla fine Max Schulz muore, Wolfgang Richter pensa che sulla terra non esista una giusta punizione per l’accusato e lascia la sentenza al Giudice Supremo:

“«Ich überantworte dich einem anderen Gericht!» «Das ist nichts Originelles.» «Ich hab dich dem lieben Gott überantwortet, Max.» «Den gibt’s vielleicht nicht…»” [15]

Nella versione tedesca il Mordprozeß si conclude con questa provocante incertezza. Se Dio non esiste allora ogni criminale potrà riposare in pace, questa è l’idea di Hilsenrath, il dubbio, quindi, rimarrà insoluto. Nella versione inglese dell’opera che fu pubblicata con il titolo The Nazi & the Barber e The Nazi Who Lived As a Jew, lo scrittore rende questo insolvibile dubbio ancora più drammatico e provocatorio. La prima edizione del romanzo - l’originale in Germania uscì sei anni più tardi - riporta alcune pagine in più rispetto alla versione tedesca: in esse è descritto il processo del carnefice al cospetto di Dio. Max Schulz ammette di essere colpevole, ma si difende affermando che quello che fece in quei giorni era legale e che quindi, come molti altri, partecipò solamente. Dio decide di condannarlo, ma, prima che possa essere pronunciata la massima sentenza, l’imputato interviene rivolgendo a Dio una domanda piuttosto seria e provocatoria, che nella lunga storia della crudeltà nazista nessuno aveva mai avuto il coraggio di proferire:

“»Where were you in those days?« »What do you mean… in those days?« »In those days during the executions?« »What do you mean?« »The execution of the defenseless.« »When?« »When it happened.« I ask: »Were you asleep?« And the One and Only says: »I never sleep!« »Where were you?« »When?« »When it happened!« »When it happened?« »If you were not asleep… where were you?« »Here!« I ask: »Here?« And the One and Only says: »Here.« »And what did you do if you were not sleeping?« »When it happened?« »Yes. When it happened!« And the One and Only says: »I watched!« »You watched? Only watched?« »Yes. I just watched.« »Then your guilt is greater than mine!« I say. »If that is true… then you cannot be my judge!« »That’s true.« And I ask: »What do we do next?« »That is a problem!« And the One and Only says: »Yes. That is a problem!« And the One and Only climbed down from his seat of judgement and placed himself next to me at my side. And so we both wait! For a just sentence! But who is there who can pronounce it?” [16]

Nella versione inglese c’è quindi un finale amaro e nichilistico: non solo Dio non viene perdonato dallo scrittore per essersi assentato durante il più orribile momento della storia del popolo ebraico, ma è addirittura accusato di aver partecipato al genocidio in qualità di “carnefice silente”, poiché è rimasto inerme a guardare, senza opporre alcuna resistenza al massacro. Siccome Dio non è nella posizione di poter giudicare un delitto di cui è stato partecipe è costretto a scendere dal Suo sacro trono e affiancarsi al più umile, opportunista e cinico degli assassini: Max Schulz. Questo è ciò che accade nelle versioni inglese e americana pubblicate nel 1971, in quella tedesca del 1977, già di per sé abbastanza provocatoria, l’autore ha preferito eliminare queste pagine e quando gli viene chiesto per quale motivo ha deciso di apportare tale cambiamento risponde:

“Das erste Manuskript hatte ein Ende auf nur zwei Seiten, wo Max Schulz vor Gottes Thron steht und Gott ihn fragt: »Bist Du schuldig, Max Schulz?«, und er sagt: »Ja.« Und dann klagt Max Schulz den lieben Gott an und sagt, du bist eigentlich schuldiger als ich, denn du hast zugeguckt und nichts gemacht. Das Buch kam ja erst in Amerika raus. Als es dann in Deutschland gedruckt wurde, habe ich mir das nochmal durchgelesen und mir gedacht, nein, das würde ja den Max Schulz entschuldigen. Und den ganzen Holocaust in Frage stellen. Daraufhin habe ich die letzten zwei Seiten einfach weggestrichen. Das bleibt in Deutschland einfach offen. Jedenfallls ist die deutsche Ausgabe die richtige Ausgabe.” [17]

Nella versione tedesca, dunque, l’assenza di Dio rimane inspiegata e Max Schulz è colpevole perché ignora i comandamenti (non uccidere, ama il prossimo tuo come te stesso) e sfrutta opportunisticamente l’occasione di rifarsi una vita completamente nuova e rispettabile da uomo libero e, ciò che è peggio, da ebreo. In fondo l’uomo, sostiene Hilsenrath, è libero da ogni vincolo e può decidere di percorrere la strada che preferisce (“[…] Auf jeden Fall glaube ich daran, daß der Wille des Menschen frei ist und habe nicht die Absicht, Max Schulz zu entlasten.” [18] ).

Il carnefice Max Schulz rimane a piede libero e muore serenamente trasportato dal vento che proviene dalla Wald der 6 Millionen, forse proprio fra le anime delle sue vittime, che vagano in mezzo a quegli alberi piantati in loro memoria, senza riuscire a trovare la pace eterna.


[1] C. Brecheisen, op. cit., p. 5.

[2] E. Hilsenrath, Nacht, op. cit., pp. 41-42.

[3] P. Stenberg, op. cit., p. 178.

[4] Questo discorso sarà ripreso e approfondito nel capitolo sesto.

[5] E. Hilsenrath, Ich bin von natur aus ein Einzelgänger und singe nicht gern im Chor, op. cit., p. 50.

[6] Cfr. ivi, p. 52.

[7] E. Hilsenrath, der Nazi & der Friseur, op. cit., pp. 402-405.

[8] Ivi, pp. 411-412.

[9] Ivi, pp. 413-414.

[10] Cfr. ivi, p. 416.

[11] Cfr. R. Hilberg, op. cit., vol II, p. 1213.

[12] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., p. 413.

[13] Ivi, p. 418.

[14] P. Stenberg, op. cit., p. 184.

[15] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., p. 422.

[16] E. Hilsenrath, The Nazi and the Barber, in P. Stenberg, op. cit., pp. 186-187.

[17] E. Hilsenrath, Ich habe über den jüdischen Holocaust geschrieben, weil ich dabei war. Gespräch mit Thomas Kraft und Peter Stenberg, op. cit., pp. 223-224.

[18] P. Stenberg, op. cit., p. 187.

 


Homepage | Dizionario autori | Autori aree linguistiche | Indice storico | Contesto
 [Up] Inizio pagina | [Send] Invia questa pagina a un amico | [Print] Stampa questa pagina | [Email] Mandaci una email | [Indietro]
Antenati Europa - la storia della letteratura europea online - Vai a inizio pagina © Antenati 1984-2003, an open content project