L’importanza dell’autobiografia e della scrittura nella ricerca dell’identità


L’importanza dell’autobiografia e della scrittura nella ricerca dell’identità

I conflitti d’identità che gravano sia sugli scrittori ebrei, che su i personaggi della loro opera letteraria, solo in pochi casi sono di natura individuale, per lo più essi sono infatti causati da problemi storico- sociali legati alla spaventosa realtà dell’Olocausto. La terribile esperienza vissuta ha provocato una forma di alienazione nell’individuo, il quale non riesce più a convivere con i suoi simili e tende ad isolarsi e a crearsi un mondo a parte, costituito da quei ricordi insostenibili che vorrebbe allontanare, ma che costantemente si ripresentano sotto forma di conflitti interiori e incapacità di riconoscere la propria identità:

“Es erweist sich dann als problematisch, wenn das »me«, die gesellschaftliche Sicht, und das »I«, die individuelle und originelle Persönlichkeit, weit auseinanderklaffen. Dieses Problem stellt sich viele Mitgliedern von Randgruppen, die diskriminiert werden. Sie werden von der Gesellschaft anders gesehen und beurteilt, als sie sich selbst erfahren. Daraus resultieren häufig Identitätskrisen.” [1]

Con i pronomi “me” e “I” Claudia Brecheisen si riferisce ai due opposti componenti, che secondo lo studioso di psicologia sociale George Herbert Mead (1863-1931) costituiscono il “Self”:

“Das »I« verkörpert das ursprünglich Originelle im Individuum, sozusagen den Urgrund seiner Individualität. Das »me« wiederum liefert dazu den Gegenpart. Es steht für die gesellschaftlichen Erwartungen, die an einen Menschen gestellt werden, es vertritt also das Bild des Individuums, wie es von außen, von anderen Menschen, gesehen wird. Die Leistung der Identitätsfindung nach Mead besteht also darin, die beiden Aspekte einer Persönlichkeit, das »I« und das »me« in Einklang zu bringen.” [2]

Le crisi d’identità, spiega la Brecheisen, sono spesso legate al fenomeno del “looking- glass- self”: la società appare all’individuo come specchio della propria personalità. L’uomo cerca di sviare le reazioni dell’ambiente attraverso i propri tratti caratteristici e gli atteggiamenti comportamentali. Questo può portare all’accettazione da parte della società dell’immagine trasmessa dall’individuo che, il più delle volte, non corrisponde a quella reale. Concretamente, un individuo che viene discriminato a causa della sua origine, può credere di essere degno di tale discriminazione e quindi si comporta di conseguenza: isolandosi o continuando a vivere, offrendo l’immagine di sé che gli altri richiedono. La Brecheisen conclude che il concetto del “looking- glass- self” è riconducibile anche al cosiddetto jüdischen Selbsthaß. [3] La problematica dell’identità e l’ebraismo sono complementari: l’ebreo è sottoposto ad una tensione tra l’idea che ha di se stesso e quella che la società ha di lui e quindi gli impone. Questo aspetto potrebbe collegarsi al protagonista di Der Nazi & der Friseur. All’inizio dell’autobiografia Max Schulz si definisce un ariano, anche se il suo aspetto fisico restituisce il ritratto caricaturale di un ebreo ed egli è quindi percepito dalla società come tale. Dopo un iniziale rifiuto dell’immagine che la società vuole imporgli, manifestato attraverso l’assassinio di migliaia di ebrei, [4] Max decide di diventare ebreo e approfittare dei vantaggi che nel dopoguerra gli vengono offerti in quanto tale.

Dopo l’Olocausto l’identità ebraica si allontana dal piano religioso e si sviluppa su quello storico- sociale. La dimensione religiosa dell’ebraismo in molti letterati, che si dichiarano non credenti, passa in secondo piano. L’ebraismo si ridefinisce da un punto di vista storico, legato alla realtà del genocidio, alla singola esperienza della persecuzione, o all’appartenenza ad una famiglia con un passato atroce e indescrivibile. La perdita d’identità in campo di concentramento avviene spesso tramite il tatuaggio del numero di riconoscimento. La vittima non si sente più un essere umano, dotato di una propria individualità, ma si riduce ad un misera cifra di identificazione e in qualità di numero, non di individuo, viene sterminato [5] . L’esperienza dei campi di concentramento conduce la maggior parte dei prigionieri non solo alla perdita dell’individualità e quindi dell’identità, ma anche della fede, fatto che provoca un ulteriore destabilizzazione nell’individuo. Prima dell’Olocausto l’identità ebraica era riconosciuta, per lo più, attraverso il valore religioso; l’esperienza della persecuzione ha alterato il rapporto con Dio e quindi il mezzo di riconoscimento non è più la religione, bensì proprio la sofferenza causata dall’esperienza stessa:

“Diese kollektive Leidperzeption hat eine integrierende Wirkung, mehr als andere Faktoren […] Die Erfahrung des Leids wirkt sich natürlich nicht nur auf die jüdische Identität generell aus, primär hat sie einen starken Einfluß auf die einzelne Person. Mit diesem Einfluß der Verfolgung auf die Zeit nach der Befreiung setzen sich nahezu alle Holocaust-Autoren auseinander.” [6]

Un altro aspetto di identificazione, che viene spesso proposto dagli scrittori ebrei, è la colpa del sopravvissuto. I superstiti convivono con una sensazione di disagio provocata dalla colpa che provano nei confronti dei loro cari che, invece, sono morti. Claudia Brecheisen cerca di approfondire le sue argomentazioni sullo stato d’animo dei sopravvissuti rifacendosi a William G. Niederland, il quale nel saggio In Folgen der Verfolgung. Das Überlebenden- Syndrom Seelenmordscrive a tale proposito:

Warum habe ich das Unheil überlebt, während die anderen - die Eltern, Kinder, Geschwister, Freunde - daran zugrunde gingen? In dieser unbeantwortbaren Frage liegt wahrscheinlich die stärkste psychische Belastung des Überlebenden und zugleich die makabre Ironie, daß weniger die Täter und Vollstrecker der nazistischen Verbrechen als vielmehr deren Opfer an einer Überlebensschuld zu leiden scheinen.” [7]

Anche Hilsenrath, durante un’intervista, è messo di fronte alla problematica della colpa, egli però chiarisce che la condizione di sopravvissuto di un ghetto non è la stessa di quella di chi è scampato all’inferno dei campi di concentramento:

“Sie und Ihre Familie haben den Holocaust überlebt. Primo Levi hat in seinem Essay »Die Scham« seine Gefühle verdeutlicht, die er angesichts seines Überlebens hatte: »Gewiß, ich fühlte mich ohne Schuld, aber gleichzeitig war ich den Geretteten zugestellt und daher auf der ständigen Suche nach einer Rechtfertigung vor mir selbst und den anderen.« Wie vertraut ist Ihnen ein solcher Zwiespalt? Kennen Sie den Rechtfetigungsdruck?

Nein, ich war ja nicht im Lager. Für das Lager stimmt es, daß eigentlich nur die Zähesten und Gerissensten überleben konnten. Da hätte ich wahrscheinlich gar nicht überlebt. Ich aber war in einem Getto, aus reinem Zufall. Es sind über 100.000 Menschen deportiert worden, und von den ersten Transporten wurden alle umgebracht. Sie wurden von den Rumänen an die Deutschen ausgeliefert und sofort nach der Ankunft erschossen. Ich geriet in die letzten Transporte und kam vorläufig in eine Übergangsstation, in ein Ghetto. Ich war damals fünfzehn Jahre alt und mit meiner Familie zusammen. In meiner Familie waren Schwarzhändler, die uns mit Lebensmitteln versorgten, deshalb konnten wir überleben. Ich hatte gar nichts damit zu tun, und dementsprechend fühle ich mich nicht schuldig. Die einzige Schuld, das ist ja auch der Grundton in dem Roman »Nacht«, ist die, daß die Leute, die zu essen hatten, überlebten, und die, die nichts zu essen hatten, starben. Daraus resultiert ein Schuldgefühl. Ich hatte zu essen, während die anderen nichts hatten.” [8]

I problemi legati all’incapacità di riconoscersi in un ruolo preciso provocano un isolamento dell’individuo, che smette anche di comunicare con il mondo. La mancanza di comunicazione è rappresentata dalla Sprachlosigkeit di Mira che, traumatizzata dall’esperienza vissuta, perde la parola fino a quando non ritrova un motivo, in questo caso la proclamazione dell’indipendenza dello stato d’Israele, che l’aiuti a superare il dramma psicologico di cui è vittima. Per molti letterati il trauma della persecuzione e le inevitabili conseguenze, come la colpa o l’incapacità comunicativa, sono superabili solo attraverso l’ausilio della scrittura. Il mezzo letterario più efficace per risolvere questo ossessionante problema legato al ricordo della persecuzione è l’autobiografia. Generalmente uno scritto autobiografico tratta la graduale evoluzione di un’identità e quindi offre allo scrittore la possibilità di rappacificarsi con il proprio Io e trovare il proprio ruolo nel mondo, ma soprattutto in se stesso:

“Endpunkt einer Autobiographie ist immer das Erreichen einer Identität, die den jeweiligen Menschen zum Eintritt in die Gesellschaft und zur Übernahme von Rollen berechtigte.” [9]

Per Edgar Hilsenrath, come per molti altri scrittori ebrei che trattano la tematica dell’Olocausto, l’autobiografia è la chiave non solo per la produzione letteraria, ma anche e soprattutto, per esorcizzare la paura che accompagna il passato:

“Schreiben war für mich immer eine Therapie. Ich litt nach diesem Krieg an Depressionen und konnte den Anschluß an das normale Leben nicht mehr finden. Mit zwanzig hatte ich sehr viele Identitätskrisen. Das lag an der unterbrochenen Entwicklung. Ich war wie aus der Bahn geworfen, wußte nicht, was ich machen sollte, wußte nicht, wozu ich überhaupt da war. Das Schreiben hat viel gelöst. Nach den ersten zehn bis zwölf Seiten von Nacht war ich befreit. Ich hatte mein Ziel gefunden. Ab da hatte ich keine Depressionen mehr.” [10]

Nel romanzo fortemente autobiografico Bronskys Geständnis, Hilsenrath tratta il tema della difficile, costante ricerca dell’identità, dopo l’esperienza dell’Olocausto. Dopo aver trascorso il periodo bellico internato in un ghetto, nel 1945 Bronsky riesce a emigrare negli Stati Uniti, dove vive ai margini della società e si guadagna lo stretto necessario con lavori saltuari. Egli ha rimosso dalla coscienza le indescrivibili esperienze vissute questo, però, gli impedisce di scrivere e fino a quando non farà riaffiorare alla mente tutto ciò che ha voluto dimenticare, non sarà in grado di trovare la sua vena artistica:

“Hör zu, Bronsky. Versuch dich zu erinnern. Während des Krieges. Was ist damals geschehen? Verdammt nochmal. In deiner Erinnerung ist ein Loch. Ein dunkles abgrundtiefes Loch. Versuch es auszufüllen. Zieh die Ereignisse von damals, die du verdrängt hast, aus dem Abgrund heraus. Versuch es wenigstens. Und dann schreib es auf. Ich hole den Bleistiftstummel aus meiner linken Hosentasche. Auch Schreibpapier. Manche ein paar Notizen. Streiche manches durch.” [11]

Proprio come Hilsenrath, l’alterego dello scrittore, per potersi cimentare nella scrittura deve rimettere ordine nei propri pensieri. Nel corso del romanzo Bronsky appare molto segnato e provato dal vissuto. Lo sconforto interiore si manifesta esteriormente attraverso la sua immagine: egli ha solo ventisette anni, ma sembra un uomo di circa cinquant’anni. [12] Quando finalmente Bronsky riesce a scrivere le prime pagine del suo romanzo si sente rigenerato. La scrittura è come una medicina: essa diventa per il personaggio e per Hilsenrath, il cardine della nuova ritrovata identità. Hilserath cerca di spiegare il suo stato d’animo prima di ritrovare nuova forza vitale grazie alla scrittura, che gli permette, non solo di allontanare gli spettri del passato, ma anche di rielaborarli in tono satirico- grottesco e sostiene, infatti, di essere uno dei pochi scrittori che riesce a rivivere attraverso la scrittura la terribile realtà dell’Olocausto in maniera libera e addirittura con humour:

“In »Bronskys Geständnis« und in »Der Nazi & der Friseur« kommen Personen vor, die nach der Zeit des Faschismus nicht mehr sprechen können oder wollen. Kennen Sie selber auch das Gefühl, verstummen zu müssen, weil die Sprache für das Empfundene nicht mehr ausreicht?

Ich habe das ziemlich gut verkraftet. Ich war nicht stumm, aber ich war damals zu jung, um das richtig zu verarbeiten. Ich habe das eine Zeitlang ruhen lassen und fing erst mit 24 Jahren zu schreiben an. Ich brauchte sechs Jahre Distanz, um schreiben zu können, vorher konnte ich das nicht. Jeder war nach der Befreiung erst mal so ein bißchen wie betäubt, aber ich war nicht besonders geschädigt. Ich war ja nicht in Auschwitz, ich war auch nicht im Lager, ich habe das verhältnismäßig gut überstanden. Aber die Eindrücke wirken natürlich erst später nach. Ich gehöre heute zu den wenigen, die ganz frei darüber sprechen können, auch mit Humor. Viele können das nicht. Sogar der realistischen »Nacht« sind schon Stellen mit Humor, mit schwarzem Humor.” [13]

Come è già stato accennato, spesso le vittime hanno rapporti piuttosto complicati con la società che le circonda, quando tali relazioni non risultano addirittura inesistenti e soffrono di mancanza o incapacità di comunicazione. Esse tendono ad isolarsi e rifiutano di ricordare e parlare del loro passato. Hilsenrath, nel romanzo Der Nazi & der Friseur, propone questa tematica in maniera un po’ alterata: il carnefice Max Schulz, protagonista e voce narrante del romanzo, è incapace, fino ad un certo punto della sua vita, di parlare del suo passato. Lo scrittore attribuisce ad un carnefice una proprietà che solitamente contraddistingue le vittime. Max però, contrariamente alla moglie Mira, è un esperto oratore, quando non si tratta di rispolverare il passato, e se la cava benissimo con lingue difficili per gli stessi ebrei come lo yiddisch o l’ebraico. Bisogna comunque sempre tenere presente che Max Schulz oscilla continuamente tra l’identità di carnefice e quella di vittima, quindi la difficoltà di rievocare il passato potrebbe, in questo caso, confarsi perfino ad un carnefice. Ad un certo punto della sua esistenza anche Max Schulz decide di liberarsi dall’ossessionante passato e quindi redige le sue confessioni, rivelando il segreto che da lungo tempo custodiva gelosamente dentro di sé e che stava per lacerargli la mente e l’anima:

“Wie Hilsenraths Nazi-Opfer Bronsky, so nutzt auch der Nazi-Täter Schulz die therapeutische Funktion des Schreibens. Die einzige Stelle, an der das erlebende Ich nicht dominiert, sondern auch etwas über die Umstände des erzählenden Ich zu erfahren ist, verdeutlicht dies: »Ich sitze im Speisesaal […] Ich schreibe. Mache ab und zu Unterstreichungen.« Daß das Ergebnis dieses Schreibens u.a. der vorliegende Text ist, läßt sich aus einer späteren Stelle erschließen. Max sammelt Zeitungsberichte über sich selbst und hat zahlreiche Mappen angelegt, in denen sich allerdings »auch Briefe […] die wichtigen in Geheimschrift« befinden. Da der einzige Brief, den der Roman mitteilt, jener fiktive ist, den Max an Itzig geschrieben hat, wird klar, daß nur der Roman das Produkt jenes Schreibens sein kann. […] Das vorliegende Buch, die lebendige Erinnerung gibt keinem seiner Opfer das Leben zurück, bewahrt aber ihre Würde. Mehr vermag Literatur nicht, weniger sollte sie nicht anstreben.” [14]

La scrittura, oltre ad avere una funzione autoterapica, è di fondamentale importanza per conservare i propri ricordi, non solo quelli legati alla persecuzione, ma anche quelli felici, che prima del genocidio erano ancora vivi e presenti nella vita degli ebrei, ma che senza l’aiuto della memoria scritta rischiano di sprofondare   definitivamente   nell’oblio. A causa della persecuzione, il popolo ebraico ha perso i propri legami culturali: patria, tradizioni religiose e non, lingua, mettendo allo stesso tempo in pericolo l’identità di popolo e individui. Hilsenrath cerca di ricostruire, attraverso la sua opera, queste usanze dimenticate o nascoste, per tenere vivo il ricordo di un passato sereno e felice e per ritrovare l’identità che possedeva prima della guerra, quando la splendida realtà est-europea era in grado di fargli dimenticare l’antisemitismo, che ogni giorno doveva affrontare e subire nella sua patria tedesca:

“Wenn Individuen der Verlust kultureller Anbindung droht, ist ihre soziale Identität gefährdet. Im unfreiwilligen Prozeß der Entfremdung von ehedem vertrauten Bezugspunkten, die als Folie und Leitfaden Möglichkeiten zur Orientierung bote, erlebt der »unbehauste Mensch« eine tiefgreifende Erschütterung seiner Existenz, die nur schwer zu kompensieren ist. Vertreibung, Heimatverlust und Exil können solche fundamentalen Eingriffe in den soziokulturellen Kontext sein, in dem sich Menschen bewegen. Wo sich dies zu einer kollektiven Erfahrung ausweitet, verkümmern geschichtliche Wurzeln, zerfasern und geraten in Vergessenheit. Das menschliche Legitimationsbedürfnis in all seinen ethnischen, sozialen und kulturellen Schattierungen fällt in das schwarze Loch der Geschichtslosigkeit. Je mehr das eigene Selbstverständnis zur realen Fiktion verkommt, desto dringlicher wird der Ruf nach einer Instanz, einem »Gefäß«, das den Torso der Identität zu konservieren vermag. Auch der Hort der Erinnerung bedarf konkreter Impulse zur Regeneration. Im Exil der Sprache, in den literarischen Überlieferungen und Rückwendungen kann sich eine Welt aus Fragmenten zu einem neuen Ganzen zusammenfügen. Durch die Reanimation ohnmächtigen Bewußtseins werden Brücken zu einer Wirklichkeit gebaut, die sich verflüchtigt zu haben scheint. Im Medieum von Literatur und Sprache kann der Rekurs auf diese geographische und intellektuelle Topographie gelingen.” [15]

Il prodotto letterario dell’incontro di Hilsenrath con il passato dimenticato è la sua ultima opera Jossel Wassermanns Heimkehr, romanzo molto suggestivo, nel quale lo scrittore cerca di ricostruire l’identità ebraica perduta attraverso la ricostruzione della vita quotidiana della piccola comunità est- europea di Pohodna, mentre questa si avvia, ignara del proprio destino, verso la morte. Questo scritto è stato molto apprezzato per l’abilità dell’autore di ricreare non solo il suo mondo personale legato all’infanzia, ma anche tutta una realtà, sconosciuta a molti, grazie alla quale è possibile recuperare il passato di tutti quegli ebrei, che come Hilsenrath, giudicano positivamente la semplicità dei loro confratelli orientali, destinati alla definitiva scomparsa. Andrzej Szczypiorski, di origine polacca, pur non essendo ebreo, dichiara in una lettera aperta a Hilsenrath la sua ammirazione per un’opera insolita e magnifica, ideata da uno Zauberer, i cui incantesimi fanno uscire dal mondo degli spiriti uomini ancora viventi, in carne ed ossa, uomini buoni, semplici e sinceri, i quali operano in un mondo destinato a dissolversi nel baratro dell’oblio:

“Sie haben ein schönes Buch über eine gestorbene Welt geschrieben, die für mich nie gestorben ist, denn schließlich lebe ich heute noch und trage ihre Bilder in mir. Der Genauigkeit halber muß ich hinzufügen, daß ich nie in diesem Winkel Europas war, den Sie beschrieben. Ich bin in Warschau geboren und aufgewachsen, wo assimilierte und gebildete Juden lebten, die der Orthodoxie fernstanden, aber auch Juden, die den von Ihnen beschriebenen glichen. Ich habe Freunde, die aus dem ehemaligen Galizien stammen und die dortigen Juden kannten, und daher weiß ich, daß Ihre Erzählung auch eine Erzählung über Hunderttausende Menschen jener Region Europas ist, über die Menschen vom Pruth und von der Weichsel, aus Galizien und Masowien, Litauen und Kleinpolen, Belorußland und den Heiligenkreuzer Bergen. Gewiß gibt es in Wilna oder Lublin andere Speisen, die Menschen tragen anders geformte Hüte und andere Strümpfe. Aber sie dachten ähnlich, sie hatten viel von jener sanften, doch irgendwie düsteren Weishait an sich, die aus den Seiten Ihres Buches strömt. […] Lieber Herr Hilsenrath, manche Menschen werden weinen, wenn sie Ihr Buch lesen. Und das ist gut so, denn unsere Zeit braucht Tränen, um nicht zu vergessen, was wir unwiederbringlich verloren haben.” [16]

Un ultimo aspetto, ma non meno importante, di cui l’autore si avvale per ricostruire la propria identità è la lingua tedesca. Dopo la guerra Hilsenrath ha continuato a vagare senza riuscire a trovare se stesso in nessun luogo:

“Israel ist ein ziemlich militaristischer Staat, aber das ist auch logisch. Sie sind ja auch ständig bedroht. Ich konnte ja nie viel anfangen mit den Israelis, weil sie eine ganz andere Mentalität haben. […] Ich war auf verlorenem Posten. Ich fühlte mich schon damals als deutscher Schriftsteller, obwohl ich erst achtzehn Jahre alt war. Ich wollte schreiben und ich konnte nur Deutsch und keiner wollte mit mir Deutsch sprechen. Deutsch war sehr verpönt. Ich wußte nicht, was ich in Israel anfangen sollte. Ich hätte die Möglichkeit gehabt, auf eine hebräische Universität zu gehen, aber ich konnte die Sprache nicht.” [17]

Hilsenrath lascia Israele alla volta della Francia, dove riabbraccia i genitori e inizia a riavvicinarsi alla lingua tedesca, scrivendo il primo capitolo di Nacht. Anche la Francia diventa presto troppo estranea, quindi lo scrittore decide di cercare fortuna in America, ma nella metropoli newyorchese è costretto a vivere alla   giornata  e a procurarsi il minimo indispensabile con lavori saltuari, che gli permettono di continuare a scrivere durante la notte, davanti ad una tazza di caffè in un locale frequentato da emigranti. Anche in America la lingua tedesca è per Hilsenrath l’unica forma di riconoscimento in un mondo estraneo e ostile, i cui abitanti si esprimono con un idioma diverso, che lui non è in grado di riconoscere e quindi, utilizzare. Questo aspetto è rappresentato nel romanzo autobiografico Bronskys Geständnis che, come precedentemente osservato, ripropone in maniera fittizia, ma molto veritiera, il periodo americano dello scrittore:

“Es sind Sprache, für Bronsky ist es Deutsch, und der (für ihn) dazugehörige Kontext, »Kultur« und der Roman als kulturelles Kunstprodukt, die seine Welt definieren. Bronsky ist so stark an das Deutsche gebunden als sein Medium, um seine Erfahrung der Welt, sein Erleben des Holocaust auszudrücken, daß er unfähig ist, sich selbst in einem nichtdeutschen Kontext zu begreifen, nicht einmal dann, wenn dies notwendig wäre, um den von ihm angestrebten Status eines Schriftstellers zu erlangen. Schriftstellers zu sein bedeutet für Bronsky, in deutscher Sprache zu schreiben, […].” [18]

Per Hilsenrath il problema della lingua degli ebrei è identico a quello affrontato dagli scrittori di origine ebraico- tedesca esiliati dopo il 1933:

“Die verborgene Sprache des »Juden« ist Deutsch, und zwar nicht, weil eine notwendige Verbindung bestünde zwischen Juden und der deutschen Sprache, sondern weil es sowohl die Sprache der Kindheit ist als auch die Sprache seiner prägenden Erfahrung, der Konzentrationslager.” [19]

La sostanziale differenza tra Hilsenrath e il suo alterego Bronsky è che quest’ultimo rimane in America, mentre lo scrittore decide di tornare in Germania, dove può finalmente trasformare il sentimento di distanza in creatività. La Germania non rappresenta per lui la terra dei carnefici, ma la patria linguistica e il suo rientro è quindi dettato dal desiderio di un contatto più diretto con l’unico idioma in cui è in grado di esprimersi, di scrivere e, di conseguenza, l’unica lingua in cui si identifica.

“Daß freilich ein deutsches Publikum für solcherart >jüdische< Literatur nur schwer zu finden war, sagt viel über den Abgrund, der die Nachkommen der Täter und Opfer noch bis in die dritte Generation voneinander trennt.” [20]

In Germania Hilsenrath viene subito recepito come autore ebreo, non di origine ebraico- tedesca e nemmeno come scrittore di lingua tedesca, ma semplicemente come ebreo. Nei suoi romanzi lo scrittore affronta il tema della questione dell’identità ebraico- tedesca nella Germania contemporanea e vede la questione della definizione di “Ebreo” come un problema non solo per gli ebrei in Germania o negli Stati Uniti, ma anche e soprattutto, per i loro carnefici. Dalla critica dell’immagine standardizzata dell’ebreo, nasce Der Nazi & der Friseur: [21]

“Das Schreiben gegen den Mythos »jüdischer« Besonderheit in Sprache und Ritus durch Autoren wie Jurek Becker und Edgar Hilsenrath gilt Sander Gilman zufolge der liberalen deutschen Kulturszene als obsolet: Es zerstört liebgewordene Bilder des vermeintlich positiv »Jüdischen«, wie sie der Post-Holocaust-Philosemitismus in Umkehrung früherer Negativstereotype entworfen hat, und es macht zugleich durch seine Radikalität darauf aufmerksam, daß es auch nach der Exstirpation des deutsch-jüdischen Geistes durch Eliminierung der jüdischen Menschen in Deutschland wieder das partikulare Phänomen einer deutsch-jüdischen Literatur gibt. Diese freilich ist unauflösbar an die Shoah gebunden und hat darin ihre Dignität wie ihr moralisches Gewicht angesichts einer unübersehbaren Tendenz in Deutschland, zur Tagesordnung überzugehen und »normal« zu werden.” [22]

Attraverso la sua opera innovativa e anticonformista e, con la rappresentazione satirico-grottesca della realtà dell’Olocausto, Hilsenrath cerca di rompere con la tradizione, che impone di seguire dei canoni precisi secondo i quali l’ebreo deve avere solo qualità positive e deve essere innalzato su un piedistallo e portato in trionfo. Lo scrittore va ben oltre una semplice frattura con tale tradizione, poiché egli non descrive solamente ebrei come semplici e comuni mortali, con difetti e vizi (come l’insolito antisemitismo di Frau Schmulevitch), ma lascia addirittura che un carnefice vesta i panni di un ebreo, compromettendo, così, irrimediabilmente, l’immagine del “buon ebreo” pretesa dalla tradizione letteraria tedesca. Attraverso queste insolite e originali tematiche lo scrittore vuole rifiutare l’identità che la morale comune gli impone e dimostrare che egli esiste realmente come tedesco, come ebreo e come letterato. Il suo grido di protesta serve a far percepire la presenza dell’uomo, dell’ebreo e del letterato di lingua tedesca, che ha scelto di tornare in Germania per sconfiggere, attraverso l’arma delle scrittura, l’antisemitismo ancora imperante e impedire  che il passato venga dimenticato. L’editore Helmut Braun ricorda le minacce ricevute da parte dei neonazisti durante una lettura di Der Nazi & der Friseur e afferma:

“Für Edgar Hilsenrath waren diese und ähnliche Ereignisse zusätzliche Motivation, in Deutschland zu bleiben, dagegenzuhalten und mit seinen Mitteln des Schreibens dafür zu kämpfen, daß ein Vergessen unmöglich wird - als Garant für ein angstfreies Miteinander von Juden und Deutschen.” [23]


[1] C. Brecheisen, op. cit., p. 97.

[2] Ibidem.

[3] Cfr. ibidem.

[4] Cfr. E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., p. 222.

[5] Cfr. C. Brecheisen, op. cit., p. 99.

[6] Ivi, p. 101.

[7] Ivi. Pp. 102-103.

[8] A. Kupka, op. cit., p. 23.

[9] C. Brecheisen, op. cit., p. 28.

[10] E. Hilsenrath, Zuhause nur in der deutschen Sprach – eine biographische Selbstauskunft, op. cit., p. 15.

[11] E. Hilsenrath, Bronskys Geständnis, op. cit., p. 32.

[12] “»Du siehst wie 50 aus, Junge. Aber ich glaube, daß du jünger bist. Schätze, so um die 40.« »Ich bin jünger.« »das glaube ich nicht.« »Doch« »Wie jung?« »27.« »Wen willst du das einreden?« »Niemandem.« »Bist du ‘n Jude? « […]” ivi, p. 33.

[13] A. Kupka, op. cit., p. 23.

[14] A. Graf. Op. cit., pp. 147-148.

[15] T. Kraft, op. cit., pp. 202-203.

[16] A. Szczpiorski, Unsere Zeit braucht Tränen. Ein Brief and den Schrifsteller Edgar Hilsenrath, in A.A.V.V., Edgar Hilsenrath, das Unerzählbare erzählen, op. cit., pp. 233-234.

[17] E. Hilsenrath, Ich habe über jüdischen Holocaust geschriben, weil ich dabei war…, op. cit., pp. 219-220.

[18] S. Gilman, op. cit., pp. 120-121.

[19] Ivi, p. 121.

[20] H.O. Horch, Grauen und Groteske, in A.A.V.V., »Wir tragen den Zettelkasten mit den Steckbriefen unserer Freunde« Acta-band zum Symposium« Beiträge jüdischer Autorenzur deutschen Literatur seit 1945, Jens Stüben, Wienfried Woeselr in Zusammenarbeit mit Ernst Loewy, Darmstadt Häusser, 1994, p. 225.

[21] Cfr. S. Gilman, op. cit., p. 119.

[22] H.O.Horch, op.cit., p. 225.

[23] H. Braun, op. cit., p. 50.

 


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