Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Iano Planco,
di Antonio Montanari
6. L'insegnamento filosofico di Planco
All’insegnamento filosofico di Planco c’è un richiamo
puntuale nella Rimostranza umile al trono Pontificio [1] che nel 1790 Amaduzzi inviò a Pio VI (1775-1799):
«Fatti gli studi delle belle lettere e delle scienze convenienti
ad un uomo ingenuo, cominciai tosto ad abbandonare quei sentimenti,
che appresi per veri, e per sicuri, e quindi con giovanile
ardore cozzai cogli ultimi avanzi dell’Aristotelico rancidume»
[2] .
Fra il 1776 (quando compone per l’Antologia romana
il ricordo del maestro defunto), ed il 1790 (quando scrive
la Rimostranza), intercorre tutta la fase della maturità
di Amaduzzi, caratterizzata soprattutto dai tre celebri discorsi
filosofici
[3] , molto importanti nella storia culturale settecentesca
italiana, che sono all’origine di tutti i suoi guai. Non so
se Amaduzzi nel 1790 avrebbe sottoscritto nuovamente il giudizio
espresso sul maestro nell’Antologia romana relativamente
a «qualche singolarità, o stravaganza che sia, la quale suole
per lo più andare congiunta ai grandi ingegni, acciò forse
non si trovino troppo al di sopra del resto della specie umana».
Per chiarire le sue intenzioni, Amaduzzi aveva aggiunto: «Se
non che potrebbe l’educazione, e la ragione agevolmente correggerla,
e tor loro un tale ostacolo a così speciosa maggioranza. Appunto
la Filosofia dovrebbe essere la medicina delle malatìe dell’anima,
e quindi chi non ne profitta è sempre un Filosofo imperfetto,
e solo il compenso dell’altre sue virtù, maggiori de’ suoi
vizj, può non ostante conservargli il diritto alla pubblica
estimazione». Il tono vagamente apodittico di questo passo
è un’eredità dell’insegnamento planchiano, con l’enunciazione,
o per meglio dire l’auspicio, che la cultura (anzi, più solennemente
«la Filosofia») possa servire per correggere quei difetti
naturali che, con un’eleganza retorica da non dimenticare,
Amaduzzi chiama «malatìe dell’anima».
Nel ricordo del 1776, Amaduzzi osserva che «le massime»
della «morale teoretica» di Bianchi «erano le più consone
a quelle de’ Padri della Chiesa, e chi ha l’onore di scrivere
queste poche righe dietro ai soli dettami della più sincera
verità, l’ha udito insegnare l’etica filosofica con quella
precisione, ed impegno, che si suole osservare in quelli,
che parlano coll’interna persuasione». Nel comportamento del
maestro, Amaduzzi trova conferma alla regola prima dell’educazione
ricevuta in famiglia: «serbare in ogni azione la verità e
la schiettezza» [4] . Alla scuola di
Bianchi egli, oltre ad apprendere molte preziose nozioni,
si era confermato nel proprio convincimento di poter evitare
le secche degli inganni nella navigazione della vita, seguendo
la stella polare degli insegnamenti morali impartitigli in
casa. Gli sviluppi successivi della sua vicenda personale,
lo avrebbero amaramente disilluso, pur confermandolo nella
«fermezza» ai suoi «interni sentimenti».
L’accenno alla «persuasione» dimostrata da Planco nell’insegnamento
dell’etica filosofica, chiude (non per mera esigenza letteraria,
bensì come doverosa testimonianza) il discorso sul maestro,
prima delle brevi notizie relative alla sua malattia e scomparsa.
Il passo, che quasi suggella simbolicamente il senso di una
biografia, ci suggerisce di non dimenticare come, nel descrivere
la vita altrui, si proiettino sempre le proprie idee ed esperienze.
Alla luce di questo dato, ad un tempo psicologico e letterario,
è da considerare con la massima attenzione uno scritto inedito
di Amaduzzi, in cui egli compone un altro elogio in memoria
di Planco scrivendo ad Aurelio Bertòla
[5] .
Amaduzzi qui si presenta come «il discepolo, e l’amico»
che ricorda i meriti di Bianchi «che furono molti, e grandi»,
non dimenticando però che l’«onorato defunto» non «andò esente
dai suoi difetti»: «Io veneratore della sola virtù non sarò
mai idolatra di quella viziosa penombra che talvolta l’eclissa
in un medesimo soggetto. L’adulazione, o la lode inconsiderata,
ed indistinta è il retaggio dell’anime vili, o poco illuminate».
Durante sei anni
[6] egli lo ha avuto «per Precettore di Filosofia,
Storia Naturale, e Lingua Greca», per quattordici ha tenuto
con lui un «continuato carteggio» dopo essersi trasferito
a Roma [7] . Questa duplice esperienza può
dargli «un dritto di parlare di lui con precisione, e di esigere
l’altrui credenza».
Circa la scuola planchiana, Amaduzzi osserva che i suoi
frequentatori «furono sempre molti, e di questi non pochi
quelli, che nella stessa patria, e fuori per cariche, e per
letteratura si distinguono». Con una punta di malizia, dopo
aver ricordato scritti, aggregazioni accademiche, studi anatomici
di Planco, Amaduzzi accenna pure ad Antonia Cavallucci: la
«severità filosofica» di Bianchi «patì un’interstizio di sei
mesi, quanti egli ne dedicò alla corte, che fece, ad una eccellente,
e spiritosa Comica Romana, nominata Antonia Cavallucci, la
quale seppe eccitarlo a far stampare in sua lode alcune poesie,
ed a comporre, e pubblicare nell’anno 1752. l’indicato Discorso,
il quale per un’eccezione di poco rilievo andò ad impinguare
l’Indice de Libri proibiti. La singolarità, e la brevità del
suo impegno fa vedere, che sì fatto mestiere non è per i letterati
bisognosi di quiete, e di tempo per le loro applicazioni».
Il buon filosofo Amaduzzi sembra un figlio geloso per
una galante avventura paterna. Nelle sue parole, pecca ingenerosamente
d’esagerazione nel descrivere una vicenda amorosa che in realtà
non ci fu. Bianchi, in una pagina inedita, ricorda il modo
in cui fece conoscenza della Cavallucci: un marchese forestiero
di nome Giambattista aveva affidato la giovane alla protezione
d’un cavaliere riminese il quale però mancò alla parola data.
Abbandonata dal cavaliere, e senza poter più ricorrere al
marchese morto nel frattempo, Antonia è confortata da Bianchi:
«presi a farle qualche assistenza, per la quale molto è stata
onorata dai principali Signori di questa Città, non senza
però una molta invidia de’ malevoli», confida al padre di
Giambattista
[8] . La giovane romana chiese poi per lettera
a Bianchi «una difesa sopra il fatto» del suo matrimonio,
«un discorso tanto, che lo possi imparare a memoria», e recitare
davanti ad un giudice ecclesiastico, per ottenere una pronuncia
contro le violenze del marito. Infine, bussò ad aiuti economici,
ridotta in miseria e con la madre a carico, invocando la bontà
di Bianchi chiamato «caro papà» e «mio Padre», con un affetto
d’altro tipo rispetto a quello immaginato da Amaduzzi
[9] .
[1] Il testo è in G. Gasperoni, Settecento italiano (Contributo
alla storia della cultura), I. L’ab. Giovanni Cristoforo
Amaduzzi, Padova 1941, pp. 319-343. Il brano cit. è
alle pp. 325-326.
[2] Il brano prosegue: «e mi trovai spesso anche nel caso
di dover vendicare il sistema Agostiniano per conto delle
dottrine teologiche dai ben noti contrari attacchi, giacché
incerto della futura mia sorte, premuroso di non mancare
di un presidio, che una volta mi potesse essere necessario,
e di cui ne mancano tanti, che dovrebbero pur possederlo,
e che nonostante giudicano su queste materie, e giudicano
coll’altrui sentimento, e mortificato sovente di non comprendere
tante clamorose questioni del secolo, che nella capitale
della religione specialmente si discutevano, riputai conveniente
cosa accingermi anche a que’ studi, quasi collo stato mio
tuttora profano non mi sono mai pentito d’aver congiunti».
[3] Si tratta di questi testi: Sul fine ed utilità dell’Accademie
(1776), La Filosofia alleata della Religione (1778),
e Dell’indole della Verità, e delle Opinioni (1786).
Nel saggio di M. Ceresa, Una
biblioteca nella Rivoluzione, «Due Papi per Cesena.
Pio VI e Pio VII nei documenti della Piancastelli e della
Malatestiana» (a cura di P.
Errani), Bologna 1999, p. 216, si legge
che Pio VI possedeva «una sola opera, un opuscolo, di Giovanni
Cristofano Amaduzzi», secondo quanto emerge da un Catalogo
conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Grazie
alla cortesia dello stesso dottor Massimo Ceresa, dell’Apostolica
Vaticana medesima, ho potuto apprendere che l’opuscolo cit.
è il Discorso dell’indole della Verità, e delle Opinioni.
[4] «Le insinuazioni domestiche a serbare in ogni azione la
verità e la schiettezza, qual patrimonio di casa, e qual
marca d’onore, trovarono la più volontaria accettazione
nel mio cuore quasi come loro sede» (cfr. Rimostranza,
nel cit. Gasperoni,
Settecento italiano, p. 325).
[5] Cfr. la cit. lettera del 3 gennaio 1776.
[7] Nella cit. cartella in FGMR, AGC, sono conservate dodici
lettere (1775-1778) di Amaduzzi al nipote di Planco, dottor
Girolamo Bianchi: alcune contengono, come leggiamo nella
prima (9 dicembre 1775), la richiesta di ricercare tutte
le sue missive inviate allo zio «quasi ogni settimana cominciando
dal Maggio dell’anno 1762» (quando lo stesso Amaduzzi si
recò a Roma), «sino al tempo presente». Nel FGLB, ad
vocem, di questo immenso carteggio, sono conservati
soltanto diciotto esemplari, contro le 984 epistole di Bianchi
ad Amaduzzi custodite in BFSA: cfr. G. Mazzatinti,
Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia,
I, Forlì 1890, p. 104. (Il 17 giugno 1773 Amaduzzi inviò
al maestro la «Benedizione in Articulo Mortis», come Bianchi
appuntò sopra l’indirizzo di quella missiva, FGLB, ad
vocem.)
[8] Cfr. G. Bianchi, Minute di lettere 1717-1770, SC-MS. 965, BGR,
c. 101r: la missiva è monca, senza data (ma febbraio 1752),
e senza destinatario (un’«Eccellenza» che era il padre di
Giambattista, forse di Bologna). Analoga minuta, c. 102r,
è una raccomandazione diretta a persona di quella stessa
città, dove Antonia fu spedita da Planco dopo lo scoppio
dello scandalo.
|
Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Iano Planco,
di Antonio Montanari
|