Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Iano Planco,
di Antonio Montanari
5. Amaduzzi e i Lincei
Nelle carte di Bianchi non ho trovato
nessuna traccia relativa alla partecipazione di Amaduzzi all’attività
dei Lincei. Questo non significa però che essa non sia avvenuta.
Ad un certo punto della sua vita, Planco è tanto preso da
impegni scientifici e culturali, da non aver più il tempo
necessario per segnalare con precisione tutto quanto avviene
nei Lincei e tra i suoi studenti. Troppo grande è la stima
che Bianchi dimostra per Amaduzzi, per farci pensare che egli
non lo abbia mai utilizzato in qualche pubblica occasione,
così come era avvenuto in precedenza con gli altri suoi allievi.
I dati relativi all’ambiente scolastico planchiano,
sono utili per precisare meglio i contorni dell’esperienza
vissuta da Amaduzzi nei sette anni trascorsi a Rimini. Bianchi,
in quel tempo, ha raggiunto una sicura maturità scientifica
che però non gli impedisce di continuare ad adottare certi
atteggiamenti che gli saranno (con elegante, rispettosa fermezza)
rimproverati dall’Amaduzzi adulto, proprio quando Planco muore,
nell’articolo pubblicato sull’Antologia romana
[1] : «Fu egli uomo dotato di un vasto talento»,
scrisse il savignanese, «di memoria sorprendente, e di una
somma diligenza. Mancò d’un certo criterio, per il che fu
soggetto talvolta a qualche paralogismo. Fu tenace della sua
opinione, alla quale di rado rinunciava. In mezzo a quella
caparbietà peccava talvolta di volubilità sul punto di favorire
ora un partito, ed ora un altro. Tutte quelle cose erano qualità
inerenti alla sua natura, ma non già vizj surrogati dalla
malizia. Fu prono alla colera, ma breve nell’aderire ai trasporti
della medesima. Fu ardente co’ suoi nemici, ma ogni piccolo
officio era capace a farlo dimenticare delle ingiurie. Quanto
fu amante della lode, che gli veniva dagli altri, e che non
si risparmiava neppure da se stesso, altrettanto era parco
nel compatirla agli altri» (p. 236).
La delicatezza del tono usato da Amaduzzi si manifesta appieno
quando, per offrire una testimonianza veritiera della sua
esperienza umana e culturale alla scuola di Bianchi, egli
scrive che «tutte quelle cose erano qualità inerenti alla
sua natura», non già frutto di una precisa volontà. E’ un’assoluzione
che non trascura però un aspetto particolare della psicologia
di Planco, che si proiettava negativamente anche sulle scelte
culturali di ogni giorno: «Fu tenace della sua opinione, alla
quale di rado rinunciava».
Ho già ricordato che Planco si oppose alla cultura peripatetica.
Ma lo scontro tra Aristotelismo e Nuova Scienza resta, in
maniera diretta ed in forma non risolta, anzi con il senso
di un’insanabile contraddizione, proprio nelle leggi lincee
elaborate da Bianchi
[2] , laddove si sostiene che prima vengono i pareri
dei «dottissimi filosofi», poi «l’investigazione della stessa
natura». Si accantona così, nella maniera più semplice ed
evidente, il metodo della «sensata esperienza», originando
un’altra divergenza totale, tra la pratica scientifica ed
un modus operandi intellettuale il quale nega i presupposti
della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui Bianchi
parla nelle leggi accademiche, è più tolemaico che copernicano;
più incatenato all’ipse dixit del moderno Aristotelismo,
che aperto ai temi pre-illuministici.
Per Planco ciò significa conflitto tra la sua funzione di
scienziato (che, in quanto tale, deve attribuire all’osservazione
diretta un primato assoluto), e quella di reggitore di un’Accademia
la quale, come detta la sua prima legge, vuole essere «aristocratica».
Dietro quest’enunciazione, c’è un particolare modo d’intendere
la cultura come riservato dominio dell’uomo dotto, il quale
sentenzia soltanto grazie al suo ruolo di maestro, ed indipendentemente
dalla validità scientifica ‘galileiana’ dei risultati a cui
perviene. Ed in ciò sta quel modo tenuto da Bianchi, che Amaduzzi
definisce l’essere «tenace» nel sostenere la propria «opinione».
Molti anni prima, nel 1735, Bianchi aveva suggerito
ad un suo corrispondente, lo studioso naturalista ravennate
Giuseppe Zinanni (o Ginanni, 1692-1753), di «non perdersi
in esperienze, ma di proseguire con celerità l’opera promessa
al Pubblico», cioè il trattato Delle uova e dei nidi degli
uccelli che appare a Venezia due anni dopo. Zinanni rispose
a Bianchi con disarmante candore: «se non usassi questa diligenza,
moltissimi sbagli farei» [3] . Aurelio Bertòla, in un polemico
necrologio per Planco, che fu causa di tanti vivaci contrasti,
sottolineò come Bianchi fosse stato «osservatore giudizioso
della Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun
esperimento dee farsi una sol volta»
[4] .
[1] Si tratta del già cit. Elogio di Monsig. G. Bianchi.
[2] Cfr. Lynceorum Restitutorum Codex, SC-MS.
1183, BGR, c.
2r.
[3] Cfr. A. Montanari, «Giuseppe di Prospero Zinanni», accademico dei
Lincei planchiani, «Ravenna studi e ricerche, Società
di Studi ravennati», VIII/1-2, 2001, pp. 109-128.
[4] Cfr. Fabi, op. cit., p. 7. Il testo di Bertòla apparve sulla
Gazzetta Universale di Firenze, n. 101, 19 dicembre
1775, pp. 807-808. A Bertòla lo scrittore riminese F. Ferrari
(nell’anonimo Giudizio libero d’una lettera di giovinetto
autore), fece osservare che «se poco amico fu Planco
di quella massima legge», non poteva essere «giudizioso
osservatore della Natura»: cfr. in Fabi,
op. cit., p. 16, nota 28. Bertòla fu difeso da A.
M. Borgognini,
Riflessioni..., Lucca 1776, p. 9, che rincarò la
dose contro lo scienziato riminese: «In fatti Giano fu Filosofo,
ed osservò con giudizio la Natura, ma poi all’incontro,
non poté mai soggettare il suo fervido ingegno a ripetere
più, e più volte gli esperimenti, poiché egli amava per
carattere la varietà, quindi ne nacque, che quelle cose,
che potevano osservarsi con sollecitudine erano dal Signor
Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per
rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non
era questo lavoro per lui, e ne abbandonava l’impresa, o
se pure voleva seguirla il facea con lentezza, ed il più
delle volte con infelice successo». Bertòla scrisse ad Amaduzzi
il 26 dicembre 1775, inviandogli «l’elogio di Planco vostro»:
«Ho detto delle verità alquanto dure. La vostra dolce e
assai più umana filosofia renderà a Planco quello che io
gli ho potuto torre colla mia forse soverchia schiettezza.
[...] Ricordatevi che io ho qualche poco di immaginazione
poetica, e in conseguenza una buona dose di amabile pazzia.»
(Manoscritti n. 4, BFSA). Di Bertòla, Bianchi il
primo dicembre 1774 aveva scritto ad Amaduzzi che era un
«Giovane di molta abilità, e talento» (Manoscritti
n. 5c, tomo IV, BFSA)
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Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Iano Planco,
di Antonio Montanari
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