Giulio 
              Cesare Croce 
            
             
             
               
                
                  Giulio Cesare Croce 
                
                Nato a San-Giovanni-in-Persiceto [Bologna] 
                nel 1550 da una famiglia di fabbri ferrai, compì studi 
                irregolari, protetto dalla famiglia Fantuzzi di Medicina. Alternò 
                il mestiere di fabbro a quello di cantastorie a Bologna, finché 
                nel 1575 si dedicò com pletamente al mestiere di cantastorie 
                girando di mercato in mercato, sempre povero nonostante il successo 
                popolare e presso i divertiti benestanti. Morì a Bologna 
                nel 1609. 
                 
                 Le storie della letteratura e la tradizione 
                gli attribuiscono più di 400 opere, alcune delle quali 
                ancora inedite, altre pubblicate in modesti opuscoli a basso costo. 
                Scritti in italiano o in bolognese, gli opuscoli contengono sapide 
                descrizioni del mondo dei poveri, burle, casi strani, facezie, 
                proverbi, narrazioni di feste e calamità pubbliche. Sue 
                qualità migliori furono il dialogo plebeo, le battute feroci, 
                la capacità di non curvarsi mai davanti ai ricchi e potenti. 
                 
                Tra le cose migliori, non guastate dalla fretta, sono alcune commedie: 
                Il tesoro, Sandrone astuto, La Farinella. Il dialogo del Banchetto 
                de' malcibati (1591) è una bizzarra rappresentazione della 
                grande fama patita dal popolo nella carestia del 1590. Dedicate 
                alla veneziana Berenice Gozzadina Gozadini sono Le ventisette 
                mascherate piacevolissime (1603) stampate dal tipografo veneziano 
                Nicolò Polo. Soprattutto importanti sono due opere.  
                Le sottilissime astuzie di Bertoldo la cui prima edizione 
                è del 1606, stampata a Milano da Pandolfo Malatesta e dedicata 
                a Filippo Contarini che Croce aveva conosciuto a Venezia: per 
                lungo tempo se ne conosceva una sola copia, andata distrutta durante 
                un bombardamento nel 1943 (era custodita all'Ambrosiana di Milano); 
                nel 1993 ne fu ritrovata un'altra di cui è stata data edizione 
                critica. L'opera reca come sottotitolo-riassunto: «Dove si scorge 
                un Villano accorto e sagace il quale | dopo vari e strani accidenti 
                a lui intervenuti, | alla fine per il suo ingegno raro e acuto 
                | vien fatto huomo di Corte e Regio | Consigliero. || Opera nuova 
                e di gratissimo gusto». E  Le piacevoli e ridicolose simplicità 
                di Bertoldino, figlio del già astuto Bertoldo (1608). 
                Si tratta di libere rielaborazioni della leggenda del "Dialogus 
                Salomonis et Marcolphi". I due testi sono conosciuti nelle edizioni 
                moderne con il titolo di "Bertoldo e Bertoldino". In tempi successivi 
                l'abate  Adriano Banchieri  aggiunse 
                una scialba "Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino" 
                sulle vicende del figlio di Bertoldino. I tre testi furono pubblicati 
                assieme nel 1620 (se ne dà il titolo tradizionale di "Bertoldo, 
                Bertoldino e Cacasenno"). 
                 
                 Il primo racconto narra le avventure del 
                bruttissimo e saggio contadino Bertoldo alla corte longobarda 
                di Alboino. Benvoluto dal re per l'arguzia delle sue risposte, 
                Bertoldo è costretto a subì re l'àstio della 
                regina, contrariata dalla sua franchezza. Vari episodi illustrano 
                la sapienza di Bertoldo. In uno di essi, Alboino condanna Bertoldo 
                all'impiccaggione, ma Bertoldo, che ha ottenuto la grazia di scegliersi 
                da solo l'albero adatto, non trova nulla che gli convenga. Alboino 
                lo richiama a corte, ma Bertoldo muore poco dopo a causa del vitto 
                troppo delicato.  
                Nel secondo racconto sono la savia Marcolfa, moglie di Bertoldo, 
                e il figlio Bertoldino, sempliciotto quanto il padre era acuto. 
                Chiamati a corte, Marcolfa sentenzia, mentre tutti si divertono 
                per le innocue sciocchezze di Bertoldino. Alla fine Marcolfa chiede 
                licenza al re di tornare nella sua capanna, non potendo sopportare 
                l'artificiosità della vita di corte. 
                 
                 Il "Bertoldo e Bertoldino" è uno dei 
                pochissimi testi di autentica vena popolaresca italica. Dialogo 
                rapido, linguaggio diretto, descrizioni argute e colorite, battute 
                comiche e feroci si adattano al corposo villano Bertoldo, intento 
                a rivendicare, di fronte ai potenti e ai ricchi, la dignità 
                del ceto contadino sottoposto a millenarie umiliazioni. Un esempio 
                della rapidità di battuta presente nel "Bertoldo" è 
                nel dialogo tra Bertoldo e il re, con la necessaria premessa: 
                
                 «Passò dunque Bertoldo 
                  per mezo a tutti quei signori e baroni ch'erano inanzi al Re, 
                  senza cavarsi il capello né fare atto lacuno di riverenza, 
                  e andò di posta a seder appresso il Re. Il quale, come 
                  quello ch'era benigno di natura e che ancora si dilettava di 
                  facezie, s'imaginò che costui fusse qualche stravante 
                  umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in 
                  simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non 
                  è così larga donatrice. Onde, senza punto alterarsi, 
                  lo cominciò piacevolmente ad interrogare dicendo:  
                  Re: Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei? 
                  Bertoldo: Io sono un uomo. Nacqui quando mia madre mi fece e 
                  'l mio paese è in questo mondo.  
                  Re: Chi sono gli ascendenti e discendenti tuoi? 
                  Bertoldo: I fagiuoli, i quali bollendo nel fuoco vanno ascendendo 
                  e descendendo su e giù per la pignatta.  
                  Re: Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle? 
                  Bertoldo: Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti 
                  morti. 
                  Re: Come gli hai tu se sono tutti morti?  
                  Bertoldo: Quando mi partì da casa, io gli lasciai che 
                  tutti dormivano, e per questo io dico a te che tutti sono morti, 
                  perché da uno che dorma a uno che sia morto io faccio 
                  poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della 
                  morte. 
                  Re: Qual è la più veloce cosa che sia?  
                  Bertoldo: Il pensiero.  
                  Re: Qual è il miglior vino che sia? 
                  Bertoldo: Quello che si beve a casa d'altri.  
                  Re: Qual è quel mare che non s'empie mai?  
                  Bertoldo: L'ingordigia dell'uomo avaro. [...]  
                  Re: Qual è il più gran pazzo che sia?  
                  Bertoldo: Colui che si tiene il più savio.  
                  Re: Quali sono le infirmità incurabili?  
                  Bertoldo: La pazzia, il cancaro e i debiti.  
                  Re: Qual è quel figlio che brugia la lingua a sua madre? 
                   
                  Bertoldo: Lo stoppino della lucerna. [...]  
                  Re: Tu hai un buon cervello, s'ei si vedesse.  
                  Bertoldo: E tu saresti un bell'umore, se non mangiasti.  
                  Re: Orsù , addimandami ciò che vuoi, ch'io son 
                  qui pronto per far tutto quello che tu mi chiederai.  
                  Bertoldo: Chi non ha del suo non può darne ad altri. 
                   
                  Re: Perché non ti poss'io dare tutto quello che tu brami? 
                   
                  Bertoldo: Io vado cercando felicità e tu non l'hai: e 
                  però non puoi darla a me.  
                  Re: Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio 
                  come io faccio?  
                  Bertoldo: Colui che più in alto siede sta più 
                  in pericolo di cadere al basso e di precipitarsi.  
                  Re: Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubbidirmi 
                  e onorarmi. 
                  Bertoldo: Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono 
                  la scorza. [...]  
                  Re: Orsù , vuoi tu diventare uomo di corte?  
                  Bertoldo: Non deve cercare di legarsi colui che si trova in 
                  libertà.  
                  Re: Chi t'ha mosso dunque a venir qua?  
                  Bertoldo: Il creder io ch'un Re fusse più grande di statura 
                  degli altri uomini dieci o dodeci piedi e che esso avanzasse 
                  sopra tutti gli altri come avanzano i campanili sopra tutte 
                  le case. Ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli 
                  altri, se ben sei Re. [...]».  
                In Bertoldo esiste questo spunto polemico; 
                in Bertoldino, suo sciocco orfano assistito dalla madre Marcolfa, 
                il rapporto ritorna a un fatalistico servaggio, il personaggio 
                è solo lo zimbello della leggendaria corte di re Alboino. 
                
                 
                 Complessivamente la struttura del "Bertoldo" 
                e del suo seguito è piuttosto disordinata, possiede un 
                organismo centonico, accatastato. Il ritmo farsesco, con il susseguirsi 
                di rapide battute e esilaranti sketch, alternati a inserti narrativi 
                piuttosto opachi. La brevità dei capitoletti sembrano siparietti. 
                La rapidità è accentuata dal fraseggiare telegrafico, 
                condotto a colpi di proverbi, aforismi, 'detti', stoccate verbali 
                tra duellanti (Bertoldo e la sua spalla Alboino). La tecnica compositiva 
                del "Bertoldo" rimanda a quella dei cantimbanchi, che narravano 
                le loro storie raffigurate in cartelloni o stendardi, abbreviate 
                in quadri e episodi disposti a scala. La fascinazione del pubblico 
                sca turiva dal vedere e dall'udire, con la voce recitante che 
                aveva un ruolo di importanza primaria. 
                 
                 Classico imbonimento da ciarlatano è 
                il proemio del "Bertoldo". E non dobbiamo dimenticare che almeno 
                dal 1583 Croce si esercitava su schemi della tradizione canterina. 
                Il richiamo al «benigno lettore» ha tutta l'aria di una inserzione 
                posteriore, al momento della stampa. Il "Bertoldo" è il 
                frutto di un montaggio a posteriori di un insieme di elementi 
                di repertorio. Croce riciclava tutto, rimescolava, riadattava. 
                Quando scrisse il "Bertoldo", ormai avanti negli anni e dopo un 
                lungo tirocinio di sfruttamento dei «fonti», compensò la 
                logorata inventività con una regia accorta dei materiali. 
                Rimpolpò la vecchia saga dell'onnivoro letterato-cantastorie 
                Marcolfo con tutta una serie di materiali provenienti dalla tradizione 
                orale e scritta: dal medioevo ma anche dai contemporanei. Trovò 
                spunti in Antonio de Guevara , Fioravanti, Segni, ma anche in 
                Giambattista Della Porta ecc. oltre che nelle opere diffuse a 
                stampa da anonimi o attribuiti, del repertorio giocoso e della 
                commedia-dell'arte.  
                Nella vicenda di Bertoldo divenuto «huomo di corte e regio consigliero», 
                Croce vedeva attuato anche il proprio segreto desiderio di salire 
                in alto socialmente, con un colpo di fortuna. Poeta di servizio 
                e giullare di palazzo oltre che di piazza, aveva passato una vita 
                «cantando all'improvviso, suonando e cianciando» alle tavole dei 
                gentiluomini, nelle ville e nei palazzi bolognesi ferraresi mantovani 
                e veneziani. Bertoldo è un Croce travestito da rozzo villano, 
                e tramite la sua maschera egli può divertire e satireggiare 
                ma anche sperare una vita alternativa.  
                 
                
                
              
              
             
            
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