Aree 
              extraeuropee tra il VII e il X secolo 
            
             
             
                
                
                   Aree extraeuropee tra il VII e il X secolo 
                
                 
                
                  [Ebraismo] [Mondo arabo] 
                  [Kurdistan] [Cina] 
                  [Giappone] [India] 
                  [Gli inni degli alvar] [Giava] 
                
                 
                 
                Ebraismo
                All'VIII secolo risale, in Palestina, l'opera 
                di El'azar ha-Qalir, il massimo rappresentante della poesia profana, 
                che deriva dal pijjù t, la poesia liturgica post-talmudica. 
                 
                 
                 
                Mondo arabo 
                Testo della nuova religione è il Corano 
                (al-Qur'an, recitazione) considerato dai musulmani modello ineguagliabile 
                e inimitabile, dettato direttamente da dio (Allah) al suo profeta 
                Muhammad "in chiara lingua araba" tramite l'angelo Gabriele. Il 
                Corano fissò nei secoli i canoni linguistici e stilistici 
                della lingua araba. Il Corano si compone di circa 6200 versetti, 
                divisi in 114 capitoli (sure) in prosa rimata, varie nell'intonazione 
                e nel contenuto, e accostate disorganicamente (discorsi ai credenti 
                e ammonimenti, precetti di culto, norme giuridiche, racconti biblici, 
                visioni escatologiche, invettive e polemiche con i non credenti, 
                allusioni di carattere storico e autobiografico). Peculiarità 
                dell'opera è il fatto di essere stata composta non per 
                la lettura ma per la recitazione. L'islam ha sviluppato una vera 
                e propria arte della recitazione del testo sacro, intesa a sprigionare, 
                attraverso la sapiente dosatura delle pause e l'abile salmodiatura 
                delle rime e delle assonanze, tutta la capacità espressiva 
                e suggestiva del testo.  
                 
                 Secondo la tradizione, la prima raccolta 
                delle sure fu voluta pochi mesi dopo la morte di Muhammad, dal 
                primo califfo Abu Bakr. Quella definitiva e ufficiale risale a 
                Othman, terzo califfo, e fu portata a termine dal segretario del 
                profeta, Zaid ibn Thabit, affiancato da altri dotti, nel 650. 
                Gli antichi raccoglitori, che lavoravano in buona parte su testimonianze 
                mnemoniche, non si basarono né sulla cronologia dell'esperienza 
                di Muhammad né sulla logica interna del suo discorso, ma 
                sul criterio estrinseco della lunghezza delle sure, che ordinarono 
                in senso decrescente: le più lunghe prima e le più 
                brevi poi. Il risultato fu l'inversione del reale ordine cronologico 
                dei due periodi di composizione: quello meccano (610-622, con 
                le sure più brevi) e quello medinese (622-632, con le sure 
                più lunghe). Le sure meccane, nate nel momento della folgorazione 
                e della primitiva e impetuosa predicazione di Muhammad, sono le 
                più ricche di slancio mistico, hanno un linguaggio oscuro 
                e immaginoso, un ritmo intenso: nell'insieme hanno maggiore forza 
                espressiva e valore letterario. Quelle medinesi rispecchiano la 
                nuova dimensione politica del messaggio di Muhammad dopo la fuga 
                dalla città, sono caratterizzate da una pesante e realistica 
                normatività, uno stile e un ritmo sciatti e dimessi.  
                La lingua del Corano è l'arabo dotto dell'epoca di Muhammad. 
                 
                 
                 Periodo di espansione culturale conosce la 
                letteratura araba tramite l'islam. Se il Corano è il testo 
                canonico per eccellenza, nel periodo omayyade (661- 750) i temi 
                dell'amore e della politica assumono particolare importanza; la 
                qasida si libera dalla fissità degli schemi tradizionali; 
                nelle ricche città di Mecca e Medina sorge un nuovo genere 
                di poesia amorosa, il ghazal, forse ispirato alla tradizione dei 
                cantori greci e persiani. Maggiore rappresentante del ghazal è 
                'Omar Ibn Abi Rabi'a (morto nel c.720), lirico dolce e appassionato, 
                i cui carmi di intonazione erotico-galante secondo la tendenza 
                dominante della poesia d'amore cittadina del periodo omayyade, 
                sono esemplari per la naturalezza dello stile e l'immediatezza 
                delle descrizioni; molto popolare è anche Gamil (morto 
                nel c.701) che canta un amore ideale, languido e senza speranza, 
                secondo una tipologia destinata a molta fortuna nei secoli futuri. 
                 
                Appare inoltre la prosa, sotto forma di raccolte di fatti o detti 
                della vita del profeta Maometto.  
                 
                 Nel 750 la bianca bandiera degli Omayyadi 
                cade di fronte a quella nera degli Abbasidi; sotto la nuova dinastia 
                l'islam raggiunge il massimo splendore nelle scienze e nelle arti; 
                centri culturale oltre che politico del califfato è Baghdad. 
                La produzione letteraria acquista un nuovo carattere: composta 
                per una società urbana, è rivolta per la prima volta 
                a popolazioni di stirpe non araba. La qasida acquista un carattere 
                più cerimoniale, si arricchisce di tecnicismi e artificiosità, 
                insegue la bellezza della metafora e della similitudine: è 
                il "nuovo stile" (al-badi), adottato per la prima volta con successo 
                da Bashshar ibn Burd (m. 784). Esponente principale ne fu Abu 
                Nuwas (747-762\813-815), nato in territorio iranico da madre persiana 
                e pa- dre arabo, educato alla scuola di Basra [=Bassora] dove 
                fu condotto fanciullo, e vissuto alla corte califfale di Harun 
                al-Rashid, a Baghdad, dopo un breve soggiorno a Kufa. Visse a 
                Baghdad il resto della vita, tranne un breve soggiorno in Egitto. 
                Abu Nuwas ("quello dal ciuffo") fu il soprannome che si scelse: 
                in realtà si chiamava al-Hasan ibn Hani. Gaio e cinico, 
                cantore del vino e delle taverne, delle danzatrici e degli efebi, 
                dei giardini e della acque chiare, fonde il senso persiano del 
                dolore cosmico con l'indole passionale dei beduini; in tarda età 
                si volse alla mistica componendo poemi ascetici. Egli si colloca 
                in pieno nel quadro del vasto movimento di rinnovamento della 
                poesia araba iniziatosi già in età omayyade ma giunto 
                a maturazione sotto i primi califfi abbasidi. Di tale rinnovamento, 
                che concepiva la poesia come libera immediata espressione, e non 
                più come ripetizione di schemi e moduli linguistici della 
                poesia classica del deserto, Abu Nuwas fu il maggior artefice. 
                I temi principali della sua vasta opera, raccolta in un canzoniere 
                (diwan) sono quelli erotici e bacchici, trattati ora con delicata 
                e malinconica sensibilità, ora con spregiudicato realismo, 
                ora con tagliente ironia. Non mancano qaside alla vecchia maniera 
                araba, satire, panegirici, poesie ascetiche. Abu Nuwas ebbe grandissima 
                fama nel mondo arabo, come testimonia la sua presenza nelle "Mille 
                e una notte" accanto al califfo Harun ar-Rashid.  
                Diverso è il contemporaneo Abu al-'Atahiya (748\c.825), 
                personalità ascetica, poeta in una lingua semplice e accessibile 
                al popolo. Habib ibn 'Aws Abu Tammam (800\c.845), siriano di origine 
                cristiana ma ritenuto della tribù dei Tayyi', autore di 
                elaborate poesie e raccoglitore della tradizione araba classica; 
                fu precursore, insieme al conterraneo al-Buhturi, del neoclassico 
                Mutanabbi; deve la sua fama alla Hamasa, raffinata antologia di 
                poesie antiche. La sua produzione personale ha uno stile carico 
                di immagini artificiose e di retorica sentenziosità, ma 
                è utile per lo storico giacché celebra importanti 
                eventi dell'epoca.  
                 
                 Abu al-'Abbas 'Abd Allah Ibn al-Mu'tazz, 
                fu califfo per un giorno. Nato a Samarra nell'861, membro della 
                dinastia abbaside, nel 908, dopo la morte del califfo al-Muktafi, 
                fu coinvolto negli intrighi di corte e nominato, pare contro la 
                sua volontà, califfo: il giorno dopo scoppiava una rivolta 
                di palazzo e veniva strangolato. Fu però soprattutto poeta 
                e antologista geniale, autore di versi di grande forza evocativa: 
                la nostalgia dei giorni gloriosi del passato, la gioia per la 
                vita che scorre quotidianamente, l'amore e l'ebbrezza del vino 
                sono cantati con stile limpido e suggestivo. E' autore anche di 
                un celebre manuale di retorica e poetica, il Libro del nuovo stile 
                (Kitab al-badi), la più antica opera del genere in arabo, 
                dove egli esamina e classifica scientificamente i mezzi espressivi 
                della poesia araba riscontrandone la continuità attraverso 
                i secoli. E' stato autore anche di un poema storico.  
                 
                 Singolare figura di poeta e emiro guerriero 
                fu quella di Abu Firas al- Hamdani. Appartenente alla dinastia 
                degli Hamdanidi, fu un combattente della gihad contro i bizantini. 
                Al suo tempo, nel X secolo, la guerra santa non era più 
                condotta direttamente dal decadente califfato di Baghdad, ma, 
                sotto la sua guida nominale, da emiri di frontiera, come appunto 
                gli Hamdanidi di Aleppo. Abu Firas era cugino di uno dei più 
                celebri emiri combattenti, Ghazi Saif ad-Dawla: con lui combattè 
                in Siria e in Anatolia. Catturato dai bizantini, attese quattro 
                anni il riscatto che da Costantinopoli lo restituisse alla sua 
                patria. Prigioniero, espresse nei suoi versi la tristezza della 
                sua condizione: sono la parte più patetica del suo diwan, 
                con toni che ricordano le "Cose tristi" di Ovidius e i versi di 
                Charles d'Orlé ans prigioniero dopo Azincour: tra gli altri 
                scrisse alcuni quadretti polemici riflettenti dispute teologiche 
                con i suoi carcerieri (tra essi, lo stesso imperatore Niceforo 
                Foca), e la toccante apostrofe a una colomba. Già prima 
                della sua disavventura bizantina Abu Firas aveva cantato le proprie 
                gesta guerriere, la gioia del vivere cavalleresco, tra cacce e 
                amori: oltre a carmi sulla sua guerra anti- bizantina anche un 
                lungo poemetto cinegetico. Dopo quattro anni tornò in patria, 
                ma non trovò più la madre, da lui rimpianta con 
                sinceri accenti. Nel frattempo morì il cugino emiro, e 
                Abu Firas tentò di contendere l'eredità al legittimo 
                erede: perse la vita nel fallito tentativo, nel 968. Partendo 
                per la sua ultima battaglia pare scrisse alla sua figlioletta 
                questo presago addio: «il fiore di giovinezza, Abu Firas, non 
                potè godere intera la sua giovinezza».  
                 
                 Nel campo della prosa si impone quella d'adab 
                o elegante, con la traduzione dal persiano delle favole indiane 
                del "Pañcatantra" (760) fatta da una versione pehlevica 
                da Ibn al-Muqaffa'.  
                 
                 Un compilatore, ma importantissimo per il 
                cumulo di notizie e informazioni che raccoglie e che grazie a 
                lui ci sono conservati, è Abu Giafar Muhammad ibn Giarir 
                at-Tàbari. Nato nell'839 (morì nel 923) nella regione 
                del Tabarì stàn [Persia nord-ovest], deve la sua 
                fama alla monumentale opera Il libro delle notizie dei profeti 
                (o: Storia dei Profeti e dei Re), che espone annalisticamente 
                la storia del popolo arabo dalle origini leggendarie al 914. Tàbari 
                visse soprattutto a Baghdad, in epoca abbàside, ebbe interessi 
                soprattutto giuridico-religiosi, fondò anche una piccola 
                scuola; scrisse anche un voluminoso Commento (Tafsì r) 
                al Corano, che divenne un classico dell'esegesi coranica ortodossa. 
                 
                Il suo "Libro" raccoglie la più antica storia dell'Islam 
                che possediamo, sotto la forma tradizionale dei hadì th 
                (racconti, eventi) introdotti ognuno dalla catena (isnàd) 
                dei suoi trasmettitori nominati in elenco. Sotto tale forma è 
                giunta fino a noi la più antica biografia di Mohammed, 
                e la successiva storia del califfato degli Ommàyyadi e 
                degli abbàsidi, delle conquiste arabe e delle lotte interne. 
                Tàbari non si limita alla cronaca araba, ma parla anche 
                delle civiltà limitrofe e che influenzarono l'islam, soprattutto 
                della storia ebraica e persiana, con accenni a quella greco-romana. 
                Tàbari fece una scelta accurata del materiale, mosso da 
                interessi prevalentemente religiosi, e da una posi- zione ideologica 
                favorevole agli abbàsidi (contro i predecessori e rivali 
                omàyyadi). La sua opera fu largamente usata dalla storiografia 
                araba successiva (si pensi a Ibn al-Athir, nel XIII secolo), e 
                nello stesso X secolo fu ridotta e adattata in persiano dal visir 
                Bàl'ami.  
                 
                 
                Kurdistan
                Anche il Kurdistan, come le altre regioni 
                del medio-oriente, viene conquistato dagli eserciti e dalla cultura 
                islamica. Nonostante l'islamizzazione, riesce a mantenere una 
                sua individualità. Soprattutto dal punto di vista linguistico, 
                i dialetti kurdi rimangono, anche se contaminati e arricchiti 
                dalle nuove conquiste, sostanzialmente la lingua dell'"Avesta". 
                La distruzione a opera di Alessandro il Macedone della biblioteca 
                meda di Ecbatana ci ha privato di importanti documenti sulla produzione 
                culturale di queste popolazioni. In kurdo erano le "Ghata", gli 
                inni sacri di Zardasht (Zarathustra), di cui rimasero pochi frammenti. 
                 
                 
                 Risalente forse alla conquista islamica, 
                al VII-VIII secolo, è il frammento trovato in una grotta 
                di Sharazur, scritto su un pezzo di cuoio e segnalato dallo storico 
                *Alauddin Sajadi nel 1952. Si tratta di un lamento, che documenta 
                l'avvento della nuova era:  
                 «Distrutti sono i luoghi di preghiera, 
                  | i fuochi sono spenti. | I più grandi tra i grandi si 
                  sono nascosti. | Gli arabi crudeli abbattevano | i villaggi 
                  dei contadini fino a Sharazur . | Prendevano come schiave le 
                  loro mogli, le loro figlie. | Uomini valorosi si rotolavano 
                  nel sangue. | I riti di Zarathustra non si compiono più 
                  . | Ahura Mazda non ha pietà di noi».  
                Dalla regione ormai islamizzata del Kurdistan 
                proviene nel X secolo Baba Tahir. Nato a Hamadan nel c.935 (morì 
                nel 1010), fu autore di raffinate quartine. Ebbe una vita tormentata, 
                che si riflette nella sua poesia scritta in Lumi, idioma del gruppo 
                iranico sud-occidentale. Scrisse Baba Tahir in una delle sue quartine: 
                 
                 «Sono l'aquila che vive sulle 
                  vette | dall'alto osservo i pascoli. | Senza famiglia, senza 
                  casa e terra | come sudario avrò solo le mie ali. || 
                  Tutto quello che desidero è di avere accanto | un volto 
                  splendente come il tulipano. | Se alle montagne narrassi il 
                  mio soffrire | sui pendii non crescerebbero più fiori. 
                  || E' pieno di dolore il mio cuore, Signore, | soffre e trema 
                  d'angoscia | anela alla patria, piange l'esilio. | E questo 
                  fuoco mi brucia».  
                I suoi versi rimasero popolari nella regione 
                kurda ancora nel XX secolo.  
                 
                 
                Cina 
                Tra VII e X secolo è in Cina la dinastia 
                T'ang. Già con la precedente dinastia Sui (581-618) era 
                avvenuta la riunificazione; ora grazie ai T'ang (618-906) si ha 
                l'apogeo della potenza imperiale.  
                Gli elementi elaborati nel periodo precedente concorrono alla 
                formazione di una cultura tra le più ricche del mondo. 
                Trionfa il buddhismo grazie soprattutto all'opera di alcuni pellegrini 
                che tornano dall'India portando i testi della Legge e della tradizione 
                antica, rapidamente assimilati nella vita quotidiana, nell'iconografia 
                e nel simbolismo locale: tra questi religiosi- pellegrini il più 
                famoso è Hsüan-tsang (ovvero Tripitaka, 602\664). 
                Alla diffusione del buddhismo come religione di massa è 
                legato anche un fattore tecnologico, che imprimerà un potente 
                acceleratore alla civiltà cinese: l'invenzione della stampa 
                xilografica, usata all'inizio per la riproduzione di immaginette 
                sacre e preghiere votive, poi per la stampa dei testi canonici. 
                Di tale produzione è rimasto come testo più antico 
                esistente il "Sutra di Diamante" dell'869. La stampa xilografica 
                si diffuse rapidamente in tutta l'asia orientale, dal Giappone 
                alla Corea, contribuendo anche tra l'altro alla diffusione della 
                cultura e della conoscenza dei grandi nomi della letteratura cinese. 
                 
                Ma trionfa anche la critica, ispirata all'antico rigore confuciano. 
                All'ideale dell'equilibrio impersonale e dell'integrazione in 
                un ordine sociale universalistico, fa riscontro l'individualismo 
                taoista. Accanto al letterato confuciano convive il cavaliere 
                errante.  
                 
                 Grandi letterati come Han Yüe Liu Tsung-yüan 
                promuovono la riforma della prosa come "ritorno ai classici", 
                contrapponendo lo stile all'antica (ku- wen), già in voga 
                in epoca Han (206-/220+) più semplice e vicino al parlato, 
                ai preziosismi del p'ien-wen che si era imposto a partire dal 
                IV secolo e che si contraddistingueva per l'uso della rima e del 
                parallelismo tra gruppi di frasi, e ai contenuti buddhisti. Lo 
                stile imposto dai riformatori, diede luogo a una prosa completamente 
                nuova, con l'alibi del 'ritorno' all'antico. Han Yü, nato 
                nel 768 (morto nell'824), scrisse nello stile della riforma, il 
                ku-wen, dissertazioni etico-religiose e saggi filosofici di stretta 
                osservanza confuciana; alcune delle sue composizioni figurano 
                nella famosa antologia che raccoglie le 300 migliori poesie dell'epoca 
                T'ang.  
                Liu Tsung-yüan nacque nel 773 (morì nell'819). In 
                una serie di saggi trasse spunto dalla descrizione del paesaggio 
                per considerazioni filosofiche e sociali. E' considerato il miglior 
                prosatore della letteratura cinese. Coltivò con eleganza 
                anche il genere minore del hsiao-shuo (= piccolo parlare, cioè 
                l'aneddoto, la novella), e quello delle favole allegoriche in 
                cui per la prima volta nella letteratura cinese intervengono animali 
                parlanti. Fu poeta raffinato e calligrafo di fama. Nelle liriche 
                più ispirate rivela un profondo legame con il buddhismo. 
                 
                 
                 Nel 606 sono ripristinati (sotto la dinastia 
                Sui), e riordinati, gli esami di stato; nel 742 viene introdotta 
                la prova di composizione poetica per concorrere al titolo di chin-shih: 
                gli esami saranno soppressi e poi parzialmente ripristinati dai 
                mongoli, mentre saranno restaurati sotto la dinastia Ming.  
                Fiorisce una letteratura religiosa. Numerose le traduzioni di 
                testi buddhisti, ad opera ad esempio di Hsüan-tsang, fino 
                alla produzione originale delle varie scuole e sette: è 
                questo il periodo classico della scuola del Dhyana (in cinese 
                Ch'an; in giapponese Zen).  
                L'influenza buddhista è determinante nella nascita della 
                narrativa in lingua parlata. Dall'agiografia si libera a poco 
                a poco il racconto orale, ad opera di narratori professionisti. 
                Di qui si svilupperà in seguito la prosa narrativa in volgare, 
                e, in parte, il teatro.  
                 
                 La produzione di maggior rilievo dell'epoca 
                è però la poesia. Nel XVIII secolo fu composta un'ampia 
                raccolta delle poesie dell'epoca: una raccolta che comprende 48.900 
                poesie, opera di circa 2000 autori. I maggiori poeti del tempo 
                furono: Meng Hao-jan, Wang Wei, e soprattutto Li Po, Tu Fu, e 
                Po chü-i.  
                 
                 E' una produzione poetica che si serve di 
                una lingua poetica canonica. Elevata a punto di arrivo di ogni 
                esperienza di scrittura, la poesia cinese nel momento in cui ha 
                potuto accantonare il problema della questione della lingua, si 
                è proiettata verso un cammino ideale, dove anche i personaggi 
                scomodi o devianti, come nel cvaso di Li Po, sono stati di volta 
                in volta incasellati o riporoposti come archetipi. Nei mille anni 
                che dividono la prima forma di poesia scritta dall'epoca T'ang, 
                la poesia cinese ha subito profonde evoluzioni formali, a livello 
                metrico, in stretto collegamento con l'elemento musicale da cui 
                trae la sua orgine, collegamento ancora evidenziato nel corso 
                dei secoli dalla presenza dei toni, di cui la lingua cinese comincia 
                a prendere coscienza a partire dal V secolo (+) quando si intensificano 
                i rapporti con il sanscrito, la lingua del buddhismo. Dal verso 
                arcaico, prevalentemente di quattro sillabe, con complessi schemi 
                di rime, si è passati al verso antico (ku- shih) di cinque 
                o sette sillabe, con numero di versi che può essere indefinito, 
                segnate da rime al secondo verso, considerando come unità 
                di misura se- mantica oltre che metrica il distico, in cui il 
                primo dei due versi spesso crea una attesa di senso nei confronti 
                del secondo. Questa cellula poetica del ku- shih che è 
                il distico, evidenziato anche dalla compiutezza semantica, fa 
                sì che il numero di versi sia quasi sempre pari, a cominciare 
                dalla quartina che Li Po in particolare porta a grande capacità 
                espressiva, dilatando oltre gli angusti limiti lessicali gli effetti 
                di senso alla cui attuazione concorre l'articolatissima struttura 
                metrica, la combinazione fonica e il simbolismo grafico. A partire 
                dal VII secolo (+), l'uso sempre più consapevole delle 
                figure ritmiche (l'alternanza tonale) si traduce in strutture 
                metriche sempre più rigide, sottoposte a regole precise. 
                E' il verso regolato (lü-shih) la cui complessa struttura 
                si può riassumere nelle caratteristiche di base: cinque 
                o sette sillabe, otto versi che si possono contrarre a quattro 
                o aumentare al centro all'infinito, figure ritmiche o sistema 
                tonale obbligati, e sul piano sintattico l'alternanza di versi 
                paralleli e non paralleli.  
                Più tardi la musica prenderà il sopravvento con 
                la comparsa, verso la fine del VII secolo, del tz'u che, accanto 
                al yüeh-fu, passato dalla tradizione popolare alla tradizione 
                colta, porta una più libera economia stilistica e una più 
                stretta interdipendenza sintattica con la lingua parlata.  
                 
                 Meng Hao-jan (689\740) che, respinto nel 
                737 agli esami imperiali si ritirò a vivere sul monte Lu-men, 
                vicino alla sua città natale Hsian-yang, dedicandosi unicamente 
                alla poesia: la critica lo considera uno dei maggiori poeti del 
                suo tempo, amico di Wang Wei di cui condivise la squisita sensibilità 
                e l'amore per la natura.  
                Wang Wei (che era nato a Taiyüan nel 699, morì nel 
                759) superò invece con successo gli esami imperiali a soli 
                18 anni, e si dedicò poi allo studio della medicina, fu 
                eccellente musicista, ricoprì la carica di segretario di 
                stato per la musica. All'epoca della ribellione di An Lu-shan 
                si mantenne fedele alla dinastia legittima. Le sue opere mancano 
                di riferimenti biografici, i suoi versi offrono un'immagine preziosa 
                della natura non contaminata dalle passioni, ne fanno uno dei 
                maggiori esponenti dell'epoca d'oro della poesia cinese fiorita 
                proprio in questo periodo.  
                 
                 Li Po (701\762), o Li T'ai-po, viaggiò 
                di continuo con soste ora nella capitale, presso la corte, ora 
                presso amici e protettori. Nacque in Asia centrale, in una località 
                sconosciuta, dove il padre, discendente di una nobile famiglia, 
                era stato mandato in esilio. Sappiamo che trascorse la prima infanzia 
                a Ch'ang-ming [Szechwan]. Iniziò a viaggiare presto e a 
                scrivere poesie, cercando di procurarsi la notorietà. Si 
                stabilì a An-lu [odierno Hupei] dove sposò la figlia 
                di un piccolo notabile locale. Dopo la morte precoce della moglie 
                si sposerà altre tre volte. Dalla terza moglie avrà 
                due figli. Fu l'unico dei grandi poeti del tempo a non partecipare 
                agli esami letterari di stato. La presentazione di uno scrittore 
                taoista lo introdusse a corte dove si fece ap- prezzare dall'imperatore 
                Hsüan-tsung, grande mecenate. Fu poi assunto nell'Accademia 
                di Han-lin, istituzione statale che accoglieva letterati artisti 
                attori maghi e ciarlatani che godevano della fiducia imperiale. 
                Non sappiamo se sia caduto in disgrazia o se si sia allontanato 
                volontariamente: sappiamo che dal 744 inizia un periodo di viaggi. 
                Fu nel decennio successivo che in- contrerà il futuro poeta 
                Tu Fu, ancora giovane e sconosciuto. Dopo la rivolta di An Lu-shan 
                (755-6) fu esiliato per un po' nello Yünnan, per comportamento 
                sleale verso la dinastia: quando il generale sogdiano An Lu- shan 
                aveva marciato contro gli eserciti imperiali autoproclamandosi 
                imperatore, Li Po pare sia stato coinvolto nel tradimento di uno 
                dei fratelli di Hsüan-tsung passato ai ribelli. Trascorse 
                probabilmente anche un periodo in prigione. Passò gli ultimi 
                anni alla ricerca di una soluzione ai suoi perenni problemi economici. 
                Morì nel 762 a casa del calligrafo Li Yang-ping, al quale 
                aveva affidato la cura dei suoi scritti. 
                Li Po aveva spirito profondo, libero ed eccentrico, amava il vino, 
                fu amico di insigni monaci taoisti e ne ricevette una iniziazione. 
                Pur senza uffici né ricchezze, non sembra abbia sofferto 
                di eccessive privazioni materiali. La leggenda vuole che, ubriaco, 
                sia morto annegato cercando di afferrare nell'acqua il riflesso 
                della luna.  
                Restano di lui una sessantina di composizioni in prosa e una vasta 
                opera poetica, che comprende ballate (yüeh-fu), versi liberi 
                detti 'in stile antico' (ku t'i), e componimenti di otto versi 
                nei metri rigidi di 5 o 7 piedi, regolati da un complesso sistema 
                di rime e di strofe, codificato appunto in quel periodo (lü- 
                shih). Li Po eccelse nella poesia in verso libero, e nelle brevi 
                quartine dette 'verso interrotto' (chüeh-ch'ü). In un'epoca 
                di classicismo, dove il riferimento agli antichi significa la 
                riconquista dell'espressione diretta e semplice, la sua disciplina 
                interiore sfugge al rigore della morale e a quello dei metri obbli- 
                gati. Egli aveva un senso drammatico della natura e delle cose. 
                L'autocontrollo esclude la moderazione: Li Po è la negazione 
                del modello confuciano di letterato.  
                 
                 Tu Fu (nato a Tuling [Shensi] nel 712, morì 
                a Leiyang [Hunan] nel 770) nato da famiglia povera, dopo viaggi 
                e soggiorni in diverse città si stabilì nel 747 
                nella capitale Ch'ang-an. Falliti gli esami letterari nel 736 
                cui si era presentato come candidato ufficiale della sua provincia. 
                Fa vari mestieri, torna nel 745 nella capitale, trovandovi un 
                deterioramento dei costumi e una corruzione dilagante, ma non 
                riesce a affermarsi. Solo in seguito l'imperatore, colpito dai 
                suoi scritti in prosa e in verso, gli farà ripetere gli 
                esami: stavolta li supererà e potrà inserirsi. A 
                40 anni ottenne un impiego minore come 'registratore' di corte. 
                Si sposa, tormentato daio problemi economici. La rivolta di An 
                Lu-shan sconvolse la sua vita. Nel tentativo di raggiungere la 
                corte in esilio a Ma-wei, dove la favorita Yang Kuei-fei viene 
                accusata di tradimento e condannata a morte, Tu Fu viene catturato 
                dai ribelli. Solo quando la rivolta fu domata Tu Fu riuscirà 
                a trovare un breve periodo di pace. Cadde in disgrazia per il 
                suo atteggiamento intransigente. Andò errando da un luogo 
                a un altro, separato dalla famiglia, in condizioni misere. Per 
                qualche anno si rifugiò presso Ch'eng-tu nel Ssu-ch'uan 
                dove visse coltivando la terra. Rinuncerà per sempre al 
                suo sogno di poter dare un valido contributo al sovrano come consigliere 
                o commentatore politico. Contrastanti sono le versioni sulla sua 
                morte, avvenuta nel 770. Secondo una versione morì solo, 
                in barca, nel tentativo di raggiungere per l'ennesima volta la 
                capitale; secondo un'altra versione, per un banchetto abbondante 
                dopo un prolungato digiuno. Notissimi i versi in cui si lamenta 
                della capanna scoperchiata dal vento e sogna una casa che accolga 
                tutti i letterati poveri del mondo. Di Tu Fu ci restano circa 
                25 brani in prosa e più di 1400 testi poetici: versi nel 
                vecchio stile (ku t'i), ballate (yüeh-fu), versi quinari 
                e settenari nelle nuove forme codificate (lü-shih), quartine 
                di settenari 'interrotti' (chüeh-ch'ü). Se si escludono 
                le composizioni minori, d'occasione e di repertorio, i suoi testi 
                hanno per tema gli orrori della guerra e lo sfruttamento del popolo: 
                essi appartengono alla grande poesia e fanno di lui uno dei maggiori 
                poeti cinesi. La rinascita letteraria T'ang implicava il rifiuto 
                delle forme sofisticate e decadenti precedenti, il ritorno all'espressione 
                pertinente e rigorosa: era il trionfo del classicismo nel senso 
                più positivo. E la poesia di Tu Fu segna forse la massima 
                vetta in questo contesto. L'autocontrollo è portato al 
                limite, mentre calcolo e freddezza apparente sono la corrispondenza 
                estrema della forma con l'oggetto. 
                Più giovane di Li Po, legato a questi da una profonda amicizia, 
                Tu Fu ebbe una biografia simile, segnata dal girovagare, dalla 
                ricerca di una sistemazione onorevole, dallo sconvolgimento per 
                la rivolta di An Lu-shan. In realtà li divide una concezione 
                diametralmente opposta della funzione storica del letterato, oltre 
                che lo stile di vita che il messaggio biografico propone dall'interno 
                della sua opera. Il carpe diem taoista e l'impegno confuciano 
                del letterato al servizio dello Stato danno esiti diversissimi 
                nel discorso poetico, differenziandolo anche nelle scelte metriche 
                ritmiche e semantiche.  
                 
                 Po chü-i (772\846), nacque nello Shensi. 
                Dopo l'esame letterario di stato percorse brillantemente la carriera 
                di funzionario nonostante le crisi le rivolte e i disordini che 
                agitavano il paese. Fu governatore di importanti città 
                come Hang-chou e Su-chou. Cadde in disgrazia nell'815 e venne 
                retrocesso a maresciallo, inviato in una località a sud 
                dello Yang-tze, Chiang-chou. Con la protezione di influenti amici 
                rientrò nelle sue cariche e, dopo la morte dell'imperatore 
                Hsien-tsung venne richiamato a corte. 
                Ricca la sua produzione in prosa: memoriali al trono, raccolte 
                di saggi (tra cui saggi-modello per gli esami), lettere, una enciclopedia 
                letteraria in 30 volumi e usata a lungo come repertorio. La sua 
                opera maggiore è però quella in versi, sia politici 
                che di "meditazione", in metro libero di stile antico (ku t'i), 
                sia "leggeri", in stile moderno codificato (lü-shih). Egli 
                ha voluto lasciare la sua opera poetica divisa in quattro sezioni: 
                le prime tre secondo grandi temi (la funzione didattica della 
                poesia, la funzione edonistica e la funzione consolatoria), la 
                quarta secondo i metri.  
                Caratteristiche delle poesie di Po chü-i sono la grande semplicità 
                e chiarezza e, in quelle politiche, il contenuto morale confuciano, 
                l'interesse partecipe alla sorte del popolo. Egli divenne presto 
                famosissimo: era ancora in vita e i suoi versi erano già 
                sulla bocca di gente d'ogni condizione e venivano trascritti sui 
                muri. Universalmente noti il Canto dell'eterno rimorso, sull'amore 
                tragico dell'imperatore Hsüan-tsung e della favorita Yang 
                Kuei-fei, e il Canto del p'i-p'a, storia di una donna bella e 
                infelice. Anche in Giappone Po chü-i divenne un modello insuperato 
                di scrittura poetica, grazie alla diffusione delle sue opere avvenuta 
                in stampa xilografica a partire dalla dinastia Sung (960-1279). 
                 
                Po chü-i visse quasi un secolo più tardi rispetto 
                ai due grandi predecessori Li Po e Tu Fu. Un periodo contrassegnato 
                dal declino della vita culturale. Una nuova consapevolezza del 
                poeta nei confronti della sua opera sembra contendere il rpimato 
                alla funzione pubblica della creazione letteraria. Po chü-i 
                è il primo che ha lasciato una sistemazione organica della 
                sua vastissima attività erudita, in prosa e in versi, oltre 
                che una vera e propria poetica, i «princì pi fondamentali 
                dell'arte», frutto di una intensa frequentazione epistolare con 
                il poeta Yüan Chen con cui ebbe una amicizia divenuta proverbiale 
                nella storia delle lettere cinesi.  
                La ricchissima mole dei suoi scritti testimonia e sottolinea le 
                varie fasi della sua carriera politica, il suo rapporto con gli 
                altri, sia pubblici che privati, il senso profondo di umanità 
                che gli deriva dalla religione buddista, con cui assolve i suoi 
                compiti di amministratore. E il suo rapporto con la scrittura, 
                rivolta a un pubblico più vasto e universale che non la 
                ristretta classe dei letterati. La popolarità di cui godette 
                fu una cosa voluta, attraverso una ricerca metrico-sintattica 
                e lo studio accurato dello strumento linguistico. Secondo un aneddoto, 
                Po chü-i era solito leggere i suoi versi a una vecchia analfabeta 
                per controllare il grado di comprensibilità del suo linguaggio 
                poetico.  
                 
                 Altri poeti: Yüan Chen (779\831), Li 
                Shang-yin (813\858). La poesia si definisce nei generi, nelle 
                forme, nella metrica. Non mancano però motivi eterodossi 
                e popolari.  
                Nella seconda parte della dinastia (An Lu-shan, 756-763) ribellioni 
                e disordini sono l'indizio di una crisi profonda, che segna anche 
                poeti e letterati.  
                 
                 
                Giappone 
                Dall'VIII secolo ci provengono le più 
                antiche opere giapponesi pervenute. Le prime a noi pervenute sono 
                le Memorie degli eventi antichi (Kojiki, 711- 712) la cui scrittura 
                ideografica risente dell'influenza linguistica cinese, e gli Annali 
                del Giappone (Nihongi, o: Nihon-shoki, 720), scritti in cinese. 
                Cinese è anche l'ispirazione e l'uso di compilare storie 
                dinastiche. 
                Le "Memorie degli eventi antichi" è il più antico 
                libro di mitologia e storia giapponese. E' costituito da 3 libri, 
                composti per ordine dell'imperatore Genmei nel 711-712, probabilmente 
                da O-no-Yasumaro, sulla base di più antichi racconti orali 
                e dei documenti privati delle famiglie aristocratiche. Nel primo 
                libro che ha anche il maggior interesse letterario, è narrata 
                in chiave mitologica l'origine divina della famiglia imperiale; 
                il II e III libro riportano invece biografie dei primi imperatori, 
                leggendari e storici, fino a quella dell'imperatrice Suiko (593-628). 
                Il testo contiene anche poesie e vari canti popolari, tra i più 
                antichi del Giappone.  
                Gli "Annali del Giappone" è una storia in 30 libri, in 
                cinese, scritta a più mani e conclusa nel 720. L'opera 
                ricalca i grandi modelli della storiografia cinese, esponendo 
                in ordine cronologico i fatti del Giappone dalle origini al 697. 
                Fra gli autori furono il principe Toneri (675\735) figlio del 
                celebre imperatore Teumu, e O-no-Yasumaro. Assai particolareggiato, 
                questi "Annali" completano le notizie presenti nelle "Memorie 
                degli eventi antichi". All'inizio dunque la cultura giapponese 
                è profondamente influenzata da quella cinese; e il Giappone 
                è tributario della Cina per vari aspetti: il sistema ideografico 
                di scrittura, la forma di governo centralizzata, il buddhismo 
                e il neoconfucianesimo, le tecniche artistiche. Salvo poi che 
                con il tempo il Giappone ha saputo esprimere un'arte originale. 
                 
                 
                 La prima vera pietra miliare della letteratura 
                giapponese è la Raccolta di diecimila foglie (Man'yoshu, 
                c.760) comprendente circa 4500 poesie e canti popolari. In questa 
                raccolta si riscontra già l'originalità della poesia 
                giapponese rispetto a quella cinese: la poesia cinese è 
                generalmente lunga e fa ricorso alla rima; quella giapponese è 
                breve, con versi di 5 e 7 sillabe alternati. La "Raccolta" rappresenta 
                tutta la produzione poetica dell'epoca di Nara, distribuiti in 
                20 libri secondo il genere e l'argomento. Più di un migliaio 
                sono anonime, le altre sono attribuite a 561 autori. Tra questi, 
                sono cinque grandi poeti: Otomo-no-Yakamochi (718\785) consigliere 
                imperiale, poeta lirico estremamente raffinato, forse il principale 
                curatore della raccolta; Kakinomoto-no-Hitomaro (c.662\c.710), 
                funzionario al servizio di imperatori e prì ncipi al cui 
                seguito visitò numerose province (morì durante uno 
                di questi viaggi), considerato per le sue poesie ricche per lessico 
                e forza dei sentimenti il 'genio ispiratore della poesia' (kasen) 
                giapponese, insieme a Yamabe-no- Akahito (vissuto nel VIII secolo) 
                la cui poesia, particolarmente felice nel genere tanka, scaturisce 
                da uno spirito limpido e amante della natura; Otomo-no-Tabito 
                (665\731) padre di Yakamochi, i cui componimenti ri- flettono 
                la dimestichezza di un nobiluomo con la cultura classica cinese; 
                Yamanoue-no-Okura (660\c.733) assai colto, di modesta origine 
                sociale, i cui temi hanno per sfondo la religiosità buddhista 
                e sono ispirati alle sofferenze della gente più umile. 
                 
                Nel complesso l'ideale estetico rispecchiato nella "Raccolta" 
                è definito dalla tradizione giapponese come makoto, sincerità, 
                immediata genuinità e potenza di emozione e di espressione. 
                 
                Già in questo periodo fiorisce il tanka, di 31 sillabe, 
                che sarà per secoli la forma poetica principale. Le sillabe 
                sono divise in 5 versi settenari e quinari disposti secondo lo 
                schema 5,7,5,7,7. Congeniale alla brevità dello schema 
                metrico è il contenuto lirico: non vi si trova esplosioni 
                di sentimenti né de- scrizione insistita di situazioni 
                o stati d'animo: la poesia si esprime in poche sillabe, è 
                suggerita, fa appena intravedere i sentimenti. Di qui l'importanza 
                della breve introduzione esplicativa in prosa, che il poeta anteponeva 
                al componimento per renderlo più comprensibile. Il genere 
                tanka, detto anche mijika-uta (poesia breve), soppiantò 
                altri generi poetici tradizionali e precedenti, come la choka 
                (o naga-uta: poesia lunga), la uta (poesia per antonomasia), e 
                la waka (poesia giapponese in senso stretto). 
                Altre forme della poesia giapponese sono le makura-kotoba (parole 
                cuscino) e le kake-kotoba (parole premio). Le prime sono parole 
                o frasi di 5 sillabe, che ricordano gli epiteti degli epici e 
                lirici greci; le seconde sono parole che, pur avendo una sola 
                pronuncia, hanno diversi significati e quindi sono impiegate nel 
                loro valore semantico plurimo.  
                Il più noto e affascinante genere letterario giapponese, 
                il monogatari (racconto breve o lungo), contribuì notevolmente 
                a imporre l'uso della lingua scritta, soprattutto grazie alla 
                vena narrativa delle dame di corte. Intorno al IX secolo il bonzo 
                Kobo Daishi inventò, secondo la tradizione, due alfabeti 
                sillabici, i kana, di facile lettura e usati generalmente dalle 
                donne. Quando il monogatari si impose per la sua genuina ispirazione 
                e per la purezza dei sentimenti descritti, impose a sua volta 
                il modo di scrivere con i kana. All'origine del monogatari sono 
                due filoni: uno composto di brevi racconti mitici o epici, funzione 
                che la poesia per la sua brevità non poteva assolvere; 
                un altro derivato dalle introduzioni alle tanka.  
                 
                 
                India
                Nel 647, con la morte di Harsavardhana, il 
                re indiano che aveva unificato gran parte dell'India settentrionale, 
                iniziò un periodo di smembramento politico e di differenziazione 
                culturale; il sanscrito iniziò a perdere d'importanza, 
                restò lingua colta per i pandit e i sacerdoti, diede forma 
                grammaticale, retorica e sistema prosodico, modi e temi letterari 
                alle nuove lingue che si vennero man mano differenziando salendo 
                di ruolo.  
                 
                 All'inizio del VII secolo risale il poeta 
                epico Bharavi. Bharavi fu autore del poema intitolato Kiratarjuniya, 
                che sviluppa in 18 canti un episodio del "Mahabharata", cioè 
                il combattimento di Arjuna con il cacciatore selvaggio Kirata, 
                che si rivelerà alla fine per il dio Siva e donerà 
                all'eroe un'arma soprannaturale. Il racconto è il pretesto 
                per lo sfoggio del virtuosismo stili- stico e lessicale tipico 
                dei poeti kavya. Non manca tuttavia in Bharavi, considerato dalla 
                tradizione indiana uno dei migliori poeti epici dopo Kalidasa, 
                una vena di autentica poesia soprattutto nelle descrizioni della 
                natura.  
                Nel VII secolo dovrebbe essere vissuto Bhartrhari, poeta gnomico, 
                della cui vita ci restano solo poche notizie leggendarie. Secondo 
                la tradizione si fece per ben sette volte monaco buddhista e altrettante 
                volte abbandonò il convento. L'unica opera attribuitagli 
                solo Le tre centurie (Satakatraya) in cui si illustrano i tre 
                fini che la saggezza indiana assegna alle età dell'uomo: 
                amore alla gioventù , azione pratica all'età adulta, 
                rinuncia ascetica alla vecchiaia. L'opera è tra le più 
                note tra le raccolte di strofe sentenziose, genere molto diffuso 
                nella letteratura indiana. Personalità singolare, oscillante 
                tra la gioia di vivere e l'ascetismo più rigoroso, Bhartrhari 
                si riallaccia per raffinatezza formale a Kalidasa e in genere 
                allo stile kavya. "Le tre centurie" fu la prima opera indiana 
                conosciuta in occidente, nella traduzione olandese di *A. Roger 
                (1651).  
                 
                 All'VIII secolo (+) dovrebbe risalire il 
                Trattato di drammaturgia (Natyasastra), il primo trattato di retorica 
                e poetica che possediamo della tradizione indiana. Un testo composto 
                in gran parte con materiali anche molto più antichi. Il 
                "Natyasastra" è dedicato in particolare al teatro, di cui 
                cataloga e illustra anche gli aspetti esclusivamente letterari. 
                Nel "Natyasastra" è enunciata anche la teoria del rasa 
                che avrà grande sviluppo nei secoli successivi, costituendo 
                il cuore della concezione estetica indiana antica (vedi Abhinavagupta, 
                nel X-XI secolo).  
                Nello stesso VIII secolo viene assegnato il drammaturgo Bhavabhuti. 
                Discendente da una grande famiglia brahmanica, studioso anche 
                di materie scientifiche, visse presso la corte del re Yasovarman 
                di Kanauj. E' autore di tre drammi: Le gesta del grande eroe (Mahaviracarita), 
                Le ultime avventure di Rama (Uttaramacarita), e Malati e Madhava 
                (Malatimadhava). I primi due traggono argomenti da episodi del 
                "Ramayana": l'incontro di Rama giovane con la futura sposa Sita, 
                e il ripudio di Sita da parte dell'eroe seguito dalla loro riconciliazione. 
                Il terzo dramma, "Malati e Madhava", è il capolavoro di 
                Bhavabhuti. Senza rifarsi, per quanto ne sappiamo, a fonti precedenti, 
                vi narra l'amore nato fin dalla fanciullezza, di Malati e Madhava. 
                Attraverso alterne vicende, durante le quali Malati è promessa 
                sposa per motivi politici a un altro e rischia poi di essere sacrificata 
                alla crudele dea Camunda, i due giovani riescono alla fine a sposarsi. 
                Sono drammi che sembrano essere stati composti sia per la rappresentazione 
                che per la lettura (per la presenza di lunghi brani narrativi). 
                Spiccano in Bhavabhuti la capacità di risvegliare il sentimento 
                dello spettatore e/o del lettore, e la visione profondamente morale 
                della vita. Con lui e con Kalidasa, il teatro indiano antico raggiunge 
                le espressioni più alte.  
                 
                 
                Gli inni degli alvar 
                Tra il VI e il X secolo, vissero nell'India 
                meridionale gli alvar, cantori del dio Visnu cui dedicarono una 
                serie di scritti innici raccolti ne La divina composizione in 
                4000 strofe (Nalayirativviyappirapantam). Si tratta di una raccolta 
                di poemi distribuiti in quattro libri di 1000 strofe ciascuno. 
                Gli alvar erano mistici, cantori appassionati e fantasiosi del 
                dio Visnu contemplato in ogni suo aspetto, incarnazione e immagine. 
                La tradizione ha fissato in 12 il numero degli alvar, a ciascuno 
                dei quali vennero attribuiti diversi poemi. Attorno a questi alvar, 
                fiorirono diverse leggende biografiche. Capaci di nascere da un 
                loto d'oro o da una ninfea rossa in uno stagno sacro o anche da 
                un bocciolo di kurukkati (un rampicante a fiori bianchi): a simboleggiare 
                la purezza e il simbolo divino. Altre volte capaci di avere splendide 
                carriere spirituali e artistiche nonostante le loro origini di 
                trovatelli. Capaci di vivere 4700 o anche solo 35 anni. Possono 
                nascere anche deformi, come accadde a uno di loro che uscì 
                da una gravidanza di 12 mesi ridotto a una massa di carne informe 
                tanto da essere abbandonato con ribbrezzo dai suoi stessi genitori 
                e raccolto da un tagliatore di bambù . Ma possono anche 
                uscire dal grembo materno già votati alla meditazione, 
                con bocca occhi e orecchie sigillati ai rumori e al vaniloquio 
                del mondo, come fu per uno di loro divenuto cantore solo di Visnu. 
                Tra di loro ci fu anche una donna, Antal (= la sovrana, la signora) 
                che introduce negli inni, solenni e un po' barocchi degli alvar, 
                un tocco di gaiezza e femminilità. Antal secondo l'agiografia, 
                fin da piccola dichiarava un amore esclusivo e appassionato per 
                il dio Visnu; amava indossare all'insaputa del padre le ghirlande 
                di fiori destinate alla statua divina. Fu una ciocca di capelli 
                impigliata in uno di quei serti a tradirla, suscitando la reazione 
                atterrita del padre di fronte a tanto sacrilegio, ma anche la 
                risposta gioiosa del dio che scelse Antal (il cui nome era Kotai, 
                cioè "ghirlanda") in sposa.  
                Gli alvar sono circondati da un'aura agiografica così spessa 
                da essere quasi invalicabile a ogni ricerca storiografica, se 
                non forse nelle allusioni presenti nei loro versi. 
                L'inno più breve consta di 11 strofe e ha per titolo quello 
                di Cordicella dai mille nodi. Si racconta che inizialmente fu 
                consigliato di recitarlo 12 mila volte.  
                Quello degli alvar è un oceano letterario e spirituale 
                immenso, anche se a volte ripetitivo. Questi testi, come i "Veda", 
                furono considerati "ispirati": è Visnu stesso il vero autore 
                che parla per bocca degli alvar. Alcuni poemi sono stati considerati 
                dalla tradizione visnuita come scritture sacre al pari dei "Veda". 
                Per noi è soprattutto un corpus letterario di enorme valore. 
                Si legga l'inizio di uno di questi poemi:  
                 «La terra era la lampada, il 
                  vasto mare era l'olio, il sole infuocato era la fiamma. Io ho 
                  posto una ghirlanda di parole ai piedi del Signore dal rosso 
                  disco fulgente, dicendo: Si allontana l'oceano della sofferenza!». 
                   
                E' come muoversi in un labirinto dalle pareti 
                colme di tesori. Si è invitati a sdraiarsi sul «soffice 
                letto del serpente cobra dai molti cappucci» o di assistere allo 
                spettacolo di «grossi pavoni che danzano al dolce canto dei calabroni». 
                Dietro il simbolo si scopre il volto divino incarnato nei tratti 
                nuziali e persino erotici dell'uomo. Si legge in un altro di questi 
                poemi:  
                 «Rosso frutto maturo, la bocca 
                  del Signore che si è fuso in me è un lto rosso. 
                  Gli occhi, i piedi e le mani di Lui - montagna di balenante 
                  fulgore - sono rossi loti. Tutti e sette i saldi mondi sono 
                  stati all'interno della sua pancia».  
                Canta una fanciulla innamorata del dio Visnu 
                in un altro poema:  
                 «O stormi di buoni aironi che 
                  vivete nelle risaie, che importanza ha che ormai vociate? Sono 
                  andata a raggiungere il nostro Sovrano del cielo e mi sono unita 
                  a Lui, e il mio bel corpo ingioiellato a poco a poco ha perso 
                  il colore, mentre una magnifica, straripante felicità 
                  è giunta e fiorisce dapertutto!».  
                Altre volte il volto di Visnu è quello 
                di un re o di un eroe:  
                 «O eroe che hai mozzato con l'ascia 
                  mille braccia terrorizzando i re! Tu stai qui nel mio cuore, 
                  e d'ora in poi non ti permetterò di andartene».  
                Ma è l'amore a dominare: «Egli ha cancellato 
                il pesante fardello dei miei antichi peccati, mi ha innamorato 
                di sé e poi mi è entrato nel cuore». I misteri gaudiosi 
                e gloriosi cantati litanicamente, cancellano quelli dolorosi del 
                silenzio divino. Si ripete che «Egli si è fuso in me senza 
                lasciare il minimo spazio vuoto». Una unione che è frutto 
                di grazia:  
                 «Di mia iniziativa, io non pensavo 
                  di porlo in me. Ma Lui, di sua propria iniziativa, è 
                  venuto e ha imbrigliato il mio cuore solitario, si è 
                  attaccato tenace alla mia carne, si è conglutinato con 
                  la mia vita: di tanto è stato capace!».  
                Ritroviamo negli alvar gli accenti mistici 
                che si possono riscontrare anche in altri testi, europei e occidentali 
                e provenienti dalla mistica umana di sempre.  
                 
                 
                Giava
                Dal IX secolo ha inizio la letteratura giavanese, 
                la lingua più antica della regione Maleso-Indonesiana. 
                Fortemente influenzata dall'epos indiano (rifacimenti del Ramayana, 
                del Mahabharata e di altri complessi leggendari indiani), la letteratura 
                giavanese è rimasta nei secoli successivi aristocratica 
                e cerimoniale. Fondamentale contributo alla cultura più 
                vastamente indonesiana è stato il teatro (wayang), sia 
                nella forma di teatro delle ombre, con marionette di cuoio piatte 
                e colorate mosse dietro una fonte di luce dal dalang (burattinaio 
                e dicitore) in spettacoli di soggetto epico, sia in forma di veri 
                burattini. Sharazur è la pianura che si trova tra Sulaimania 
                e Halabja, nel Kurdistan del sud [Irak]. Ahura Mazda è 
                il Signore Saggio, il dio unico dello zoroastrismo.  
                 
                Il VII-X secolo in europa 
              
             
            
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