Aree
extraeuropee tra il VII e il X secolo
Aree extraeuropee tra il VII e il X secolo
[Ebraismo] [Mondo arabo]
[Kurdistan] [Cina]
[Giappone] [India]
[Gli inni degli alvar] [Giava]
Ebraismo
All'VIII secolo risale, in Palestina, l'opera
di El'azar ha-Qalir, il massimo rappresentante della poesia profana,
che deriva dal pijjù t, la poesia liturgica post-talmudica.
Mondo arabo
Testo della nuova religione è il Corano
(al-Qur'an, recitazione) considerato dai musulmani modello ineguagliabile
e inimitabile, dettato direttamente da dio (Allah) al suo profeta
Muhammad "in chiara lingua araba" tramite l'angelo Gabriele. Il
Corano fissò nei secoli i canoni linguistici e stilistici
della lingua araba. Il Corano si compone di circa 6200 versetti,
divisi in 114 capitoli (sure) in prosa rimata, varie nell'intonazione
e nel contenuto, e accostate disorganicamente (discorsi ai credenti
e ammonimenti, precetti di culto, norme giuridiche, racconti biblici,
visioni escatologiche, invettive e polemiche con i non credenti,
allusioni di carattere storico e autobiografico). Peculiarità
dell'opera è il fatto di essere stata composta non per
la lettura ma per la recitazione. L'islam ha sviluppato una vera
e propria arte della recitazione del testo sacro, intesa a sprigionare,
attraverso la sapiente dosatura delle pause e l'abile salmodiatura
delle rime e delle assonanze, tutta la capacità espressiva
e suggestiva del testo.
Secondo la tradizione, la prima raccolta
delle sure fu voluta pochi mesi dopo la morte di Muhammad, dal
primo califfo Abu Bakr. Quella definitiva e ufficiale risale a
Othman, terzo califfo, e fu portata a termine dal segretario del
profeta, Zaid ibn Thabit, affiancato da altri dotti, nel 650.
Gli antichi raccoglitori, che lavoravano in buona parte su testimonianze
mnemoniche, non si basarono né sulla cronologia dell'esperienza
di Muhammad né sulla logica interna del suo discorso, ma
sul criterio estrinseco della lunghezza delle sure, che ordinarono
in senso decrescente: le più lunghe prima e le più
brevi poi. Il risultato fu l'inversione del reale ordine cronologico
dei due periodi di composizione: quello meccano (610-622, con
le sure più brevi) e quello medinese (622-632, con le sure
più lunghe). Le sure meccane, nate nel momento della folgorazione
e della primitiva e impetuosa predicazione di Muhammad, sono le
più ricche di slancio mistico, hanno un linguaggio oscuro
e immaginoso, un ritmo intenso: nell'insieme hanno maggiore forza
espressiva e valore letterario. Quelle medinesi rispecchiano la
nuova dimensione politica del messaggio di Muhammad dopo la fuga
dalla città, sono caratterizzate da una pesante e realistica
normatività, uno stile e un ritmo sciatti e dimessi.
La lingua del Corano è l'arabo dotto dell'epoca di Muhammad.
Periodo di espansione culturale conosce la
letteratura araba tramite l'islam. Se il Corano è il testo
canonico per eccellenza, nel periodo omayyade (661- 750) i temi
dell'amore e della politica assumono particolare importanza; la
qasida si libera dalla fissità degli schemi tradizionali;
nelle ricche città di Mecca e Medina sorge un nuovo genere
di poesia amorosa, il ghazal, forse ispirato alla tradizione dei
cantori greci e persiani. Maggiore rappresentante del ghazal è
'Omar Ibn Abi Rabi'a (morto nel c.720), lirico dolce e appassionato,
i cui carmi di intonazione erotico-galante secondo la tendenza
dominante della poesia d'amore cittadina del periodo omayyade,
sono esemplari per la naturalezza dello stile e l'immediatezza
delle descrizioni; molto popolare è anche Gamil (morto
nel c.701) che canta un amore ideale, languido e senza speranza,
secondo una tipologia destinata a molta fortuna nei secoli futuri.
Appare inoltre la prosa, sotto forma di raccolte di fatti o detti
della vita del profeta Maometto.
Nel 750 la bianca bandiera degli Omayyadi
cade di fronte a quella nera degli Abbasidi; sotto la nuova dinastia
l'islam raggiunge il massimo splendore nelle scienze e nelle arti;
centri culturale oltre che politico del califfato è Baghdad.
La produzione letteraria acquista un nuovo carattere: composta
per una società urbana, è rivolta per la prima volta
a popolazioni di stirpe non araba. La qasida acquista un carattere
più cerimoniale, si arricchisce di tecnicismi e artificiosità,
insegue la bellezza della metafora e della similitudine: è
il "nuovo stile" (al-badi), adottato per la prima volta con successo
da Bashshar ibn Burd (m. 784). Esponente principale ne fu Abu
Nuwas (747-762\813-815), nato in territorio iranico da madre persiana
e pa- dre arabo, educato alla scuola di Basra [=Bassora] dove
fu condotto fanciullo, e vissuto alla corte califfale di Harun
al-Rashid, a Baghdad, dopo un breve soggiorno a Kufa. Visse a
Baghdad il resto della vita, tranne un breve soggiorno in Egitto.
Abu Nuwas ("quello dal ciuffo") fu il soprannome che si scelse:
in realtà si chiamava al-Hasan ibn Hani. Gaio e cinico,
cantore del vino e delle taverne, delle danzatrici e degli efebi,
dei giardini e della acque chiare, fonde il senso persiano del
dolore cosmico con l'indole passionale dei beduini; in tarda età
si volse alla mistica componendo poemi ascetici. Egli si colloca
in pieno nel quadro del vasto movimento di rinnovamento della
poesia araba iniziatosi già in età omayyade ma giunto
a maturazione sotto i primi califfi abbasidi. Di tale rinnovamento,
che concepiva la poesia come libera immediata espressione, e non
più come ripetizione di schemi e moduli linguistici della
poesia classica del deserto, Abu Nuwas fu il maggior artefice.
I temi principali della sua vasta opera, raccolta in un canzoniere
(diwan) sono quelli erotici e bacchici, trattati ora con delicata
e malinconica sensibilità, ora con spregiudicato realismo,
ora con tagliente ironia. Non mancano qaside alla vecchia maniera
araba, satire, panegirici, poesie ascetiche. Abu Nuwas ebbe grandissima
fama nel mondo arabo, come testimonia la sua presenza nelle "Mille
e una notte" accanto al califfo Harun ar-Rashid.
Diverso è il contemporaneo Abu al-'Atahiya (748\c.825),
personalità ascetica, poeta in una lingua semplice e accessibile
al popolo. Habib ibn 'Aws Abu Tammam (800\c.845), siriano di origine
cristiana ma ritenuto della tribù dei Tayyi', autore di
elaborate poesie e raccoglitore della tradizione araba classica;
fu precursore, insieme al conterraneo al-Buhturi, del neoclassico
Mutanabbi; deve la sua fama alla Hamasa, raffinata antologia di
poesie antiche. La sua produzione personale ha uno stile carico
di immagini artificiose e di retorica sentenziosità, ma
è utile per lo storico giacché celebra importanti
eventi dell'epoca.
Abu al-'Abbas 'Abd Allah Ibn al-Mu'tazz,
fu califfo per un giorno. Nato a Samarra nell'861, membro della
dinastia abbaside, nel 908, dopo la morte del califfo al-Muktafi,
fu coinvolto negli intrighi di corte e nominato, pare contro la
sua volontà, califfo: il giorno dopo scoppiava una rivolta
di palazzo e veniva strangolato. Fu però soprattutto poeta
e antologista geniale, autore di versi di grande forza evocativa:
la nostalgia dei giorni gloriosi del passato, la gioia per la
vita che scorre quotidianamente, l'amore e l'ebbrezza del vino
sono cantati con stile limpido e suggestivo. E' autore anche di
un celebre manuale di retorica e poetica, il Libro del nuovo stile
(Kitab al-badi), la più antica opera del genere in arabo,
dove egli esamina e classifica scientificamente i mezzi espressivi
della poesia araba riscontrandone la continuità attraverso
i secoli. E' stato autore anche di un poema storico.
Singolare figura di poeta e emiro guerriero
fu quella di Abu Firas al- Hamdani. Appartenente alla dinastia
degli Hamdanidi, fu un combattente della gihad contro i bizantini.
Al suo tempo, nel X secolo, la guerra santa non era più
condotta direttamente dal decadente califfato di Baghdad, ma,
sotto la sua guida nominale, da emiri di frontiera, come appunto
gli Hamdanidi di Aleppo. Abu Firas era cugino di uno dei più
celebri emiri combattenti, Ghazi Saif ad-Dawla: con lui combattè
in Siria e in Anatolia. Catturato dai bizantini, attese quattro
anni il riscatto che da Costantinopoli lo restituisse alla sua
patria. Prigioniero, espresse nei suoi versi la tristezza della
sua condizione: sono la parte più patetica del suo diwan,
con toni che ricordano le "Cose tristi" di Ovidius e i versi di
Charles d'Orlé ans prigioniero dopo Azincour: tra gli altri
scrisse alcuni quadretti polemici riflettenti dispute teologiche
con i suoi carcerieri (tra essi, lo stesso imperatore Niceforo
Foca), e la toccante apostrofe a una colomba. Già prima
della sua disavventura bizantina Abu Firas aveva cantato le proprie
gesta guerriere, la gioia del vivere cavalleresco, tra cacce e
amori: oltre a carmi sulla sua guerra anti- bizantina anche un
lungo poemetto cinegetico. Dopo quattro anni tornò in patria,
ma non trovò più la madre, da lui rimpianta con
sinceri accenti. Nel frattempo morì il cugino emiro, e
Abu Firas tentò di contendere l'eredità al legittimo
erede: perse la vita nel fallito tentativo, nel 968. Partendo
per la sua ultima battaglia pare scrisse alla sua figlioletta
questo presago addio: «il fiore di giovinezza, Abu Firas, non
potè godere intera la sua giovinezza».
Nel campo della prosa si impone quella d'adab
o elegante, con la traduzione dal persiano delle favole indiane
del "Pañcatantra" (760) fatta da una versione pehlevica
da Ibn al-Muqaffa'.
Un compilatore, ma importantissimo per il
cumulo di notizie e informazioni che raccoglie e che grazie a
lui ci sono conservati, è Abu Giafar Muhammad ibn Giarir
at-Tàbari. Nato nell'839 (morì nel 923) nella regione
del Tabarì stàn [Persia nord-ovest], deve la sua
fama alla monumentale opera Il libro delle notizie dei profeti
(o: Storia dei Profeti e dei Re), che espone annalisticamente
la storia del popolo arabo dalle origini leggendarie al 914. Tàbari
visse soprattutto a Baghdad, in epoca abbàside, ebbe interessi
soprattutto giuridico-religiosi, fondò anche una piccola
scuola; scrisse anche un voluminoso Commento (Tafsì r)
al Corano, che divenne un classico dell'esegesi coranica ortodossa.
Il suo "Libro" raccoglie la più antica storia dell'Islam
che possediamo, sotto la forma tradizionale dei hadì th
(racconti, eventi) introdotti ognuno dalla catena (isnàd)
dei suoi trasmettitori nominati in elenco. Sotto tale forma è
giunta fino a noi la più antica biografia di Mohammed,
e la successiva storia del califfato degli Ommàyyadi e
degli abbàsidi, delle conquiste arabe e delle lotte interne.
Tàbari non si limita alla cronaca araba, ma parla anche
delle civiltà limitrofe e che influenzarono l'islam, soprattutto
della storia ebraica e persiana, con accenni a quella greco-romana.
Tàbari fece una scelta accurata del materiale, mosso da
interessi prevalentemente religiosi, e da una posi- zione ideologica
favorevole agli abbàsidi (contro i predecessori e rivali
omàyyadi). La sua opera fu largamente usata dalla storiografia
araba successiva (si pensi a Ibn al-Athir, nel XIII secolo), e
nello stesso X secolo fu ridotta e adattata in persiano dal visir
Bàl'ami.
Kurdistan
Anche il Kurdistan, come le altre regioni
del medio-oriente, viene conquistato dagli eserciti e dalla cultura
islamica. Nonostante l'islamizzazione, riesce a mantenere una
sua individualità. Soprattutto dal punto di vista linguistico,
i dialetti kurdi rimangono, anche se contaminati e arricchiti
dalle nuove conquiste, sostanzialmente la lingua dell'"Avesta".
La distruzione a opera di Alessandro il Macedone della biblioteca
meda di Ecbatana ci ha privato di importanti documenti sulla produzione
culturale di queste popolazioni. In kurdo erano le "Ghata", gli
inni sacri di Zardasht (Zarathustra), di cui rimasero pochi frammenti.
Risalente forse alla conquista islamica,
al VII-VIII secolo, è il frammento trovato in una grotta
di Sharazur, scritto su un pezzo di cuoio e segnalato dallo storico
*Alauddin Sajadi nel 1952. Si tratta di un lamento, che documenta
l'avvento della nuova era:
«Distrutti sono i luoghi di preghiera,
| i fuochi sono spenti. | I più grandi tra i grandi si
sono nascosti. | Gli arabi crudeli abbattevano | i villaggi
dei contadini fino a Sharazur . | Prendevano come schiave le
loro mogli, le loro figlie. | Uomini valorosi si rotolavano
nel sangue. | I riti di Zarathustra non si compiono più
. | Ahura Mazda non ha pietà di noi».
Dalla regione ormai islamizzata del Kurdistan
proviene nel X secolo Baba Tahir. Nato a Hamadan nel c.935 (morì
nel 1010), fu autore di raffinate quartine. Ebbe una vita tormentata,
che si riflette nella sua poesia scritta in Lumi, idioma del gruppo
iranico sud-occidentale. Scrisse Baba Tahir in una delle sue quartine:
«Sono l'aquila che vive sulle
vette | dall'alto osservo i pascoli. | Senza famiglia, senza
casa e terra | come sudario avrò solo le mie ali. ||
Tutto quello che desidero è di avere accanto | un volto
splendente come il tulipano. | Se alle montagne narrassi il
mio soffrire | sui pendii non crescerebbero più fiori.
|| E' pieno di dolore il mio cuore, Signore, | soffre e trema
d'angoscia | anela alla patria, piange l'esilio. | E questo
fuoco mi brucia».
I suoi versi rimasero popolari nella regione
kurda ancora nel XX secolo.
Cina
Tra VII e X secolo è in Cina la dinastia
T'ang. Già con la precedente dinastia Sui (581-618) era
avvenuta la riunificazione; ora grazie ai T'ang (618-906) si ha
l'apogeo della potenza imperiale.
Gli elementi elaborati nel periodo precedente concorrono alla
formazione di una cultura tra le più ricche del mondo.
Trionfa il buddhismo grazie soprattutto all'opera di alcuni pellegrini
che tornano dall'India portando i testi della Legge e della tradizione
antica, rapidamente assimilati nella vita quotidiana, nell'iconografia
e nel simbolismo locale: tra questi religiosi- pellegrini il più
famoso è Hsüan-tsang (ovvero Tripitaka, 602\664).
Alla diffusione del buddhismo come religione di massa è
legato anche un fattore tecnologico, che imprimerà un potente
acceleratore alla civiltà cinese: l'invenzione della stampa
xilografica, usata all'inizio per la riproduzione di immaginette
sacre e preghiere votive, poi per la stampa dei testi canonici.
Di tale produzione è rimasto come testo più antico
esistente il "Sutra di Diamante" dell'869. La stampa xilografica
si diffuse rapidamente in tutta l'asia orientale, dal Giappone
alla Corea, contribuendo anche tra l'altro alla diffusione della
cultura e della conoscenza dei grandi nomi della letteratura cinese.
Ma trionfa anche la critica, ispirata all'antico rigore confuciano.
All'ideale dell'equilibrio impersonale e dell'integrazione in
un ordine sociale universalistico, fa riscontro l'individualismo
taoista. Accanto al letterato confuciano convive il cavaliere
errante.
Grandi letterati come Han Yüe Liu Tsung-yüan
promuovono la riforma della prosa come "ritorno ai classici",
contrapponendo lo stile all'antica (ku- wen), già in voga
in epoca Han (206-/220+) più semplice e vicino al parlato,
ai preziosismi del p'ien-wen che si era imposto a partire dal
IV secolo e che si contraddistingueva per l'uso della rima e del
parallelismo tra gruppi di frasi, e ai contenuti buddhisti. Lo
stile imposto dai riformatori, diede luogo a una prosa completamente
nuova, con l'alibi del 'ritorno' all'antico. Han Yü, nato
nel 768 (morto nell'824), scrisse nello stile della riforma, il
ku-wen, dissertazioni etico-religiose e saggi filosofici di stretta
osservanza confuciana; alcune delle sue composizioni figurano
nella famosa antologia che raccoglie le 300 migliori poesie dell'epoca
T'ang.
Liu Tsung-yüan nacque nel 773 (morì nell'819). In
una serie di saggi trasse spunto dalla descrizione del paesaggio
per considerazioni filosofiche e sociali. E' considerato il miglior
prosatore della letteratura cinese. Coltivò con eleganza
anche il genere minore del hsiao-shuo (= piccolo parlare, cioè
l'aneddoto, la novella), e quello delle favole allegoriche in
cui per la prima volta nella letteratura cinese intervengono animali
parlanti. Fu poeta raffinato e calligrafo di fama. Nelle liriche
più ispirate rivela un profondo legame con il buddhismo.
Nel 606 sono ripristinati (sotto la dinastia
Sui), e riordinati, gli esami di stato; nel 742 viene introdotta
la prova di composizione poetica per concorrere al titolo di chin-shih:
gli esami saranno soppressi e poi parzialmente ripristinati dai
mongoli, mentre saranno restaurati sotto la dinastia Ming.
Fiorisce una letteratura religiosa. Numerose le traduzioni di
testi buddhisti, ad opera ad esempio di Hsüan-tsang, fino
alla produzione originale delle varie scuole e sette: è
questo il periodo classico della scuola del Dhyana (in cinese
Ch'an; in giapponese Zen).
L'influenza buddhista è determinante nella nascita della
narrativa in lingua parlata. Dall'agiografia si libera a poco
a poco il racconto orale, ad opera di narratori professionisti.
Di qui si svilupperà in seguito la prosa narrativa in volgare,
e, in parte, il teatro.
La produzione di maggior rilievo dell'epoca
è però la poesia. Nel XVIII secolo fu composta un'ampia
raccolta delle poesie dell'epoca: una raccolta che comprende 48.900
poesie, opera di circa 2000 autori. I maggiori poeti del tempo
furono: Meng Hao-jan, Wang Wei, e soprattutto Li Po, Tu Fu, e
Po chü-i.
E' una produzione poetica che si serve di
una lingua poetica canonica. Elevata a punto di arrivo di ogni
esperienza di scrittura, la poesia cinese nel momento in cui ha
potuto accantonare il problema della questione della lingua, si
è proiettata verso un cammino ideale, dove anche i personaggi
scomodi o devianti, come nel cvaso di Li Po, sono stati di volta
in volta incasellati o riporoposti come archetipi. Nei mille anni
che dividono la prima forma di poesia scritta dall'epoca T'ang,
la poesia cinese ha subito profonde evoluzioni formali, a livello
metrico, in stretto collegamento con l'elemento musicale da cui
trae la sua orgine, collegamento ancora evidenziato nel corso
dei secoli dalla presenza dei toni, di cui la lingua cinese comincia
a prendere coscienza a partire dal V secolo (+) quando si intensificano
i rapporti con il sanscrito, la lingua del buddhismo. Dal verso
arcaico, prevalentemente di quattro sillabe, con complessi schemi
di rime, si è passati al verso antico (ku- shih) di cinque
o sette sillabe, con numero di versi che può essere indefinito,
segnate da rime al secondo verso, considerando come unità
di misura se- mantica oltre che metrica il distico, in cui il
primo dei due versi spesso crea una attesa di senso nei confronti
del secondo. Questa cellula poetica del ku- shih che è
il distico, evidenziato anche dalla compiutezza semantica, fa
sì che il numero di versi sia quasi sempre pari, a cominciare
dalla quartina che Li Po in particolare porta a grande capacità
espressiva, dilatando oltre gli angusti limiti lessicali gli effetti
di senso alla cui attuazione concorre l'articolatissima struttura
metrica, la combinazione fonica e il simbolismo grafico. A partire
dal VII secolo (+), l'uso sempre più consapevole delle
figure ritmiche (l'alternanza tonale) si traduce in strutture
metriche sempre più rigide, sottoposte a regole precise.
E' il verso regolato (lü-shih) la cui complessa struttura
si può riassumere nelle caratteristiche di base: cinque
o sette sillabe, otto versi che si possono contrarre a quattro
o aumentare al centro all'infinito, figure ritmiche o sistema
tonale obbligati, e sul piano sintattico l'alternanza di versi
paralleli e non paralleli.
Più tardi la musica prenderà il sopravvento con
la comparsa, verso la fine del VII secolo, del tz'u che, accanto
al yüeh-fu, passato dalla tradizione popolare alla tradizione
colta, porta una più libera economia stilistica e una più
stretta interdipendenza sintattica con la lingua parlata.
Meng Hao-jan (689\740) che, respinto nel
737 agli esami imperiali si ritirò a vivere sul monte Lu-men,
vicino alla sua città natale Hsian-yang, dedicandosi unicamente
alla poesia: la critica lo considera uno dei maggiori poeti del
suo tempo, amico di Wang Wei di cui condivise la squisita sensibilità
e l'amore per la natura.
Wang Wei (che era nato a Taiyüan nel 699, morì nel
759) superò invece con successo gli esami imperiali a soli
18 anni, e si dedicò poi allo studio della medicina, fu
eccellente musicista, ricoprì la carica di segretario di
stato per la musica. All'epoca della ribellione di An Lu-shan
si mantenne fedele alla dinastia legittima. Le sue opere mancano
di riferimenti biografici, i suoi versi offrono un'immagine preziosa
della natura non contaminata dalle passioni, ne fanno uno dei
maggiori esponenti dell'epoca d'oro della poesia cinese fiorita
proprio in questo periodo.
Li Po (701\762), o Li T'ai-po, viaggiò
di continuo con soste ora nella capitale, presso la corte, ora
presso amici e protettori. Nacque in Asia centrale, in una località
sconosciuta, dove il padre, discendente di una nobile famiglia,
era stato mandato in esilio. Sappiamo che trascorse la prima infanzia
a Ch'ang-ming [Szechwan]. Iniziò a viaggiare presto e a
scrivere poesie, cercando di procurarsi la notorietà. Si
stabilì a An-lu [odierno Hupei] dove sposò la figlia
di un piccolo notabile locale. Dopo la morte precoce della moglie
si sposerà altre tre volte. Dalla terza moglie avrà
due figli. Fu l'unico dei grandi poeti del tempo a non partecipare
agli esami letterari di stato. La presentazione di uno scrittore
taoista lo introdusse a corte dove si fece ap- prezzare dall'imperatore
Hsüan-tsung, grande mecenate. Fu poi assunto nell'Accademia
di Han-lin, istituzione statale che accoglieva letterati artisti
attori maghi e ciarlatani che godevano della fiducia imperiale.
Non sappiamo se sia caduto in disgrazia o se si sia allontanato
volontariamente: sappiamo che dal 744 inizia un periodo di viaggi.
Fu nel decennio successivo che in- contrerà il futuro poeta
Tu Fu, ancora giovane e sconosciuto. Dopo la rivolta di An Lu-shan
(755-6) fu esiliato per un po' nello Yünnan, per comportamento
sleale verso la dinastia: quando il generale sogdiano An Lu- shan
aveva marciato contro gli eserciti imperiali autoproclamandosi
imperatore, Li Po pare sia stato coinvolto nel tradimento di uno
dei fratelli di Hsüan-tsung passato ai ribelli. Trascorse
probabilmente anche un periodo in prigione. Passò gli ultimi
anni alla ricerca di una soluzione ai suoi perenni problemi economici.
Morì nel 762 a casa del calligrafo Li Yang-ping, al quale
aveva affidato la cura dei suoi scritti.
Li Po aveva spirito profondo, libero ed eccentrico, amava il vino,
fu amico di insigni monaci taoisti e ne ricevette una iniziazione.
Pur senza uffici né ricchezze, non sembra abbia sofferto
di eccessive privazioni materiali. La leggenda vuole che, ubriaco,
sia morto annegato cercando di afferrare nell'acqua il riflesso
della luna.
Restano di lui una sessantina di composizioni in prosa e una vasta
opera poetica, che comprende ballate (yüeh-fu), versi liberi
detti 'in stile antico' (ku t'i), e componimenti di otto versi
nei metri rigidi di 5 o 7 piedi, regolati da un complesso sistema
di rime e di strofe, codificato appunto in quel periodo (lü-
shih). Li Po eccelse nella poesia in verso libero, e nelle brevi
quartine dette 'verso interrotto' (chüeh-ch'ü). In un'epoca
di classicismo, dove il riferimento agli antichi significa la
riconquista dell'espressione diretta e semplice, la sua disciplina
interiore sfugge al rigore della morale e a quello dei metri obbli-
gati. Egli aveva un senso drammatico della natura e delle cose.
L'autocontrollo esclude la moderazione: Li Po è la negazione
del modello confuciano di letterato.
Tu Fu (nato a Tuling [Shensi] nel 712, morì
a Leiyang [Hunan] nel 770) nato da famiglia povera, dopo viaggi
e soggiorni in diverse città si stabilì nel 747
nella capitale Ch'ang-an. Falliti gli esami letterari nel 736
cui si era presentato come candidato ufficiale della sua provincia.
Fa vari mestieri, torna nel 745 nella capitale, trovandovi un
deterioramento dei costumi e una corruzione dilagante, ma non
riesce a affermarsi. Solo in seguito l'imperatore, colpito dai
suoi scritti in prosa e in verso, gli farà ripetere gli
esami: stavolta li supererà e potrà inserirsi. A
40 anni ottenne un impiego minore come 'registratore' di corte.
Si sposa, tormentato daio problemi economici. La rivolta di An
Lu-shan sconvolse la sua vita. Nel tentativo di raggiungere la
corte in esilio a Ma-wei, dove la favorita Yang Kuei-fei viene
accusata di tradimento e condannata a morte, Tu Fu viene catturato
dai ribelli. Solo quando la rivolta fu domata Tu Fu riuscirà
a trovare un breve periodo di pace. Cadde in disgrazia per il
suo atteggiamento intransigente. Andò errando da un luogo
a un altro, separato dalla famiglia, in condizioni misere. Per
qualche anno si rifugiò presso Ch'eng-tu nel Ssu-ch'uan
dove visse coltivando la terra. Rinuncerà per sempre al
suo sogno di poter dare un valido contributo al sovrano come consigliere
o commentatore politico. Contrastanti sono le versioni sulla sua
morte, avvenuta nel 770. Secondo una versione morì solo,
in barca, nel tentativo di raggiungere per l'ennesima volta la
capitale; secondo un'altra versione, per un banchetto abbondante
dopo un prolungato digiuno. Notissimi i versi in cui si lamenta
della capanna scoperchiata dal vento e sogna una casa che accolga
tutti i letterati poveri del mondo. Di Tu Fu ci restano circa
25 brani in prosa e più di 1400 testi poetici: versi nel
vecchio stile (ku t'i), ballate (yüeh-fu), versi quinari
e settenari nelle nuove forme codificate (lü-shih), quartine
di settenari 'interrotti' (chüeh-ch'ü). Se si escludono
le composizioni minori, d'occasione e di repertorio, i suoi testi
hanno per tema gli orrori della guerra e lo sfruttamento del popolo:
essi appartengono alla grande poesia e fanno di lui uno dei maggiori
poeti cinesi. La rinascita letteraria T'ang implicava il rifiuto
delle forme sofisticate e decadenti precedenti, il ritorno all'espressione
pertinente e rigorosa: era il trionfo del classicismo nel senso
più positivo. E la poesia di Tu Fu segna forse la massima
vetta in questo contesto. L'autocontrollo è portato al
limite, mentre calcolo e freddezza apparente sono la corrispondenza
estrema della forma con l'oggetto.
Più giovane di Li Po, legato a questi da una profonda amicizia,
Tu Fu ebbe una biografia simile, segnata dal girovagare, dalla
ricerca di una sistemazione onorevole, dallo sconvolgimento per
la rivolta di An Lu-shan. In realtà li divide una concezione
diametralmente opposta della funzione storica del letterato, oltre
che lo stile di vita che il messaggio biografico propone dall'interno
della sua opera. Il carpe diem taoista e l'impegno confuciano
del letterato al servizio dello Stato danno esiti diversissimi
nel discorso poetico, differenziandolo anche nelle scelte metriche
ritmiche e semantiche.
Po chü-i (772\846), nacque nello Shensi.
Dopo l'esame letterario di stato percorse brillantemente la carriera
di funzionario nonostante le crisi le rivolte e i disordini che
agitavano il paese. Fu governatore di importanti città
come Hang-chou e Su-chou. Cadde in disgrazia nell'815 e venne
retrocesso a maresciallo, inviato in una località a sud
dello Yang-tze, Chiang-chou. Con la protezione di influenti amici
rientrò nelle sue cariche e, dopo la morte dell'imperatore
Hsien-tsung venne richiamato a corte.
Ricca la sua produzione in prosa: memoriali al trono, raccolte
di saggi (tra cui saggi-modello per gli esami), lettere, una enciclopedia
letteraria in 30 volumi e usata a lungo come repertorio. La sua
opera maggiore è però quella in versi, sia politici
che di "meditazione", in metro libero di stile antico (ku t'i),
sia "leggeri", in stile moderno codificato (lü-shih). Egli
ha voluto lasciare la sua opera poetica divisa in quattro sezioni:
le prime tre secondo grandi temi (la funzione didattica della
poesia, la funzione edonistica e la funzione consolatoria), la
quarta secondo i metri.
Caratteristiche delle poesie di Po chü-i sono la grande semplicità
e chiarezza e, in quelle politiche, il contenuto morale confuciano,
l'interesse partecipe alla sorte del popolo. Egli divenne presto
famosissimo: era ancora in vita e i suoi versi erano già
sulla bocca di gente d'ogni condizione e venivano trascritti sui
muri. Universalmente noti il Canto dell'eterno rimorso, sull'amore
tragico dell'imperatore Hsüan-tsung e della favorita Yang
Kuei-fei, e il Canto del p'i-p'a, storia di una donna bella e
infelice. Anche in Giappone Po chü-i divenne un modello insuperato
di scrittura poetica, grazie alla diffusione delle sue opere avvenuta
in stampa xilografica a partire dalla dinastia Sung (960-1279).
Po chü-i visse quasi un secolo più tardi rispetto
ai due grandi predecessori Li Po e Tu Fu. Un periodo contrassegnato
dal declino della vita culturale. Una nuova consapevolezza del
poeta nei confronti della sua opera sembra contendere il rpimato
alla funzione pubblica della creazione letteraria. Po chü-i
è il primo che ha lasciato una sistemazione organica della
sua vastissima attività erudita, in prosa e in versi, oltre
che una vera e propria poetica, i «princì pi fondamentali
dell'arte», frutto di una intensa frequentazione epistolare con
il poeta Yüan Chen con cui ebbe una amicizia divenuta proverbiale
nella storia delle lettere cinesi.
La ricchissima mole dei suoi scritti testimonia e sottolinea le
varie fasi della sua carriera politica, il suo rapporto con gli
altri, sia pubblici che privati, il senso profondo di umanità
che gli deriva dalla religione buddista, con cui assolve i suoi
compiti di amministratore. E il suo rapporto con la scrittura,
rivolta a un pubblico più vasto e universale che non la
ristretta classe dei letterati. La popolarità di cui godette
fu una cosa voluta, attraverso una ricerca metrico-sintattica
e lo studio accurato dello strumento linguistico. Secondo un aneddoto,
Po chü-i era solito leggere i suoi versi a una vecchia analfabeta
per controllare il grado di comprensibilità del suo linguaggio
poetico.
Altri poeti: Yüan Chen (779\831), Li
Shang-yin (813\858). La poesia si definisce nei generi, nelle
forme, nella metrica. Non mancano però motivi eterodossi
e popolari.
Nella seconda parte della dinastia (An Lu-shan, 756-763) ribellioni
e disordini sono l'indizio di una crisi profonda, che segna anche
poeti e letterati.
Giappone
Dall'VIII secolo ci provengono le più
antiche opere giapponesi pervenute. Le prime a noi pervenute sono
le Memorie degli eventi antichi (Kojiki, 711- 712) la cui scrittura
ideografica risente dell'influenza linguistica cinese, e gli Annali
del Giappone (Nihongi, o: Nihon-shoki, 720), scritti in cinese.
Cinese è anche l'ispirazione e l'uso di compilare storie
dinastiche.
Le "Memorie degli eventi antichi" è il più antico
libro di mitologia e storia giapponese. E' costituito da 3 libri,
composti per ordine dell'imperatore Genmei nel 711-712, probabilmente
da O-no-Yasumaro, sulla base di più antichi racconti orali
e dei documenti privati delle famiglie aristocratiche. Nel primo
libro che ha anche il maggior interesse letterario, è narrata
in chiave mitologica l'origine divina della famiglia imperiale;
il II e III libro riportano invece biografie dei primi imperatori,
leggendari e storici, fino a quella dell'imperatrice Suiko (593-628).
Il testo contiene anche poesie e vari canti popolari, tra i più
antichi del Giappone.
Gli "Annali del Giappone" è una storia in 30 libri, in
cinese, scritta a più mani e conclusa nel 720. L'opera
ricalca i grandi modelli della storiografia cinese, esponendo
in ordine cronologico i fatti del Giappone dalle origini al 697.
Fra gli autori furono il principe Toneri (675\735) figlio del
celebre imperatore Teumu, e O-no-Yasumaro. Assai particolareggiato,
questi "Annali" completano le notizie presenti nelle "Memorie
degli eventi antichi". All'inizio dunque la cultura giapponese
è profondamente influenzata da quella cinese; e il Giappone
è tributario della Cina per vari aspetti: il sistema ideografico
di scrittura, la forma di governo centralizzata, il buddhismo
e il neoconfucianesimo, le tecniche artistiche. Salvo poi che
con il tempo il Giappone ha saputo esprimere un'arte originale.
La prima vera pietra miliare della letteratura
giapponese è la Raccolta di diecimila foglie (Man'yoshu,
c.760) comprendente circa 4500 poesie e canti popolari. In questa
raccolta si riscontra già l'originalità della poesia
giapponese rispetto a quella cinese: la poesia cinese è
generalmente lunga e fa ricorso alla rima; quella giapponese è
breve, con versi di 5 e 7 sillabe alternati. La "Raccolta" rappresenta
tutta la produzione poetica dell'epoca di Nara, distribuiti in
20 libri secondo il genere e l'argomento. Più di un migliaio
sono anonime, le altre sono attribuite a 561 autori. Tra questi,
sono cinque grandi poeti: Otomo-no-Yakamochi (718\785) consigliere
imperiale, poeta lirico estremamente raffinato, forse il principale
curatore della raccolta; Kakinomoto-no-Hitomaro (c.662\c.710),
funzionario al servizio di imperatori e prì ncipi al cui
seguito visitò numerose province (morì durante uno
di questi viaggi), considerato per le sue poesie ricche per lessico
e forza dei sentimenti il 'genio ispiratore della poesia' (kasen)
giapponese, insieme a Yamabe-no- Akahito (vissuto nel VIII secolo)
la cui poesia, particolarmente felice nel genere tanka, scaturisce
da uno spirito limpido e amante della natura; Otomo-no-Tabito
(665\731) padre di Yakamochi, i cui componimenti ri- flettono
la dimestichezza di un nobiluomo con la cultura classica cinese;
Yamanoue-no-Okura (660\c.733) assai colto, di modesta origine
sociale, i cui temi hanno per sfondo la religiosità buddhista
e sono ispirati alle sofferenze della gente più umile.
Nel complesso l'ideale estetico rispecchiato nella "Raccolta"
è definito dalla tradizione giapponese come makoto, sincerità,
immediata genuinità e potenza di emozione e di espressione.
Già in questo periodo fiorisce il tanka, di 31 sillabe,
che sarà per secoli la forma poetica principale. Le sillabe
sono divise in 5 versi settenari e quinari disposti secondo lo
schema 5,7,5,7,7. Congeniale alla brevità dello schema
metrico è il contenuto lirico: non vi si trova esplosioni
di sentimenti né de- scrizione insistita di situazioni
o stati d'animo: la poesia si esprime in poche sillabe, è
suggerita, fa appena intravedere i sentimenti. Di qui l'importanza
della breve introduzione esplicativa in prosa, che il poeta anteponeva
al componimento per renderlo più comprensibile. Il genere
tanka, detto anche mijika-uta (poesia breve), soppiantò
altri generi poetici tradizionali e precedenti, come la choka
(o naga-uta: poesia lunga), la uta (poesia per antonomasia), e
la waka (poesia giapponese in senso stretto).
Altre forme della poesia giapponese sono le makura-kotoba (parole
cuscino) e le kake-kotoba (parole premio). Le prime sono parole
o frasi di 5 sillabe, che ricordano gli epiteti degli epici e
lirici greci; le seconde sono parole che, pur avendo una sola
pronuncia, hanno diversi significati e quindi sono impiegate nel
loro valore semantico plurimo.
Il più noto e affascinante genere letterario giapponese,
il monogatari (racconto breve o lungo), contribuì notevolmente
a imporre l'uso della lingua scritta, soprattutto grazie alla
vena narrativa delle dame di corte. Intorno al IX secolo il bonzo
Kobo Daishi inventò, secondo la tradizione, due alfabeti
sillabici, i kana, di facile lettura e usati generalmente dalle
donne. Quando il monogatari si impose per la sua genuina ispirazione
e per la purezza dei sentimenti descritti, impose a sua volta
il modo di scrivere con i kana. All'origine del monogatari sono
due filoni: uno composto di brevi racconti mitici o epici, funzione
che la poesia per la sua brevità non poteva assolvere;
un altro derivato dalle introduzioni alle tanka.
India
Nel 647, con la morte di Harsavardhana, il
re indiano che aveva unificato gran parte dell'India settentrionale,
iniziò un periodo di smembramento politico e di differenziazione
culturale; il sanscrito iniziò a perdere d'importanza,
restò lingua colta per i pandit e i sacerdoti, diede forma
grammaticale, retorica e sistema prosodico, modi e temi letterari
alle nuove lingue che si vennero man mano differenziando salendo
di ruolo.
All'inizio del VII secolo risale il poeta
epico Bharavi. Bharavi fu autore del poema intitolato Kiratarjuniya,
che sviluppa in 18 canti un episodio del "Mahabharata", cioè
il combattimento di Arjuna con il cacciatore selvaggio Kirata,
che si rivelerà alla fine per il dio Siva e donerà
all'eroe un'arma soprannaturale. Il racconto è il pretesto
per lo sfoggio del virtuosismo stili- stico e lessicale tipico
dei poeti kavya. Non manca tuttavia in Bharavi, considerato dalla
tradizione indiana uno dei migliori poeti epici dopo Kalidasa,
una vena di autentica poesia soprattutto nelle descrizioni della
natura.
Nel VII secolo dovrebbe essere vissuto Bhartrhari, poeta gnomico,
della cui vita ci restano solo poche notizie leggendarie. Secondo
la tradizione si fece per ben sette volte monaco buddhista e altrettante
volte abbandonò il convento. L'unica opera attribuitagli
solo Le tre centurie (Satakatraya) in cui si illustrano i tre
fini che la saggezza indiana assegna alle età dell'uomo:
amore alla gioventù , azione pratica all'età adulta,
rinuncia ascetica alla vecchiaia. L'opera è tra le più
note tra le raccolte di strofe sentenziose, genere molto diffuso
nella letteratura indiana. Personalità singolare, oscillante
tra la gioia di vivere e l'ascetismo più rigoroso, Bhartrhari
si riallaccia per raffinatezza formale a Kalidasa e in genere
allo stile kavya. "Le tre centurie" fu la prima opera indiana
conosciuta in occidente, nella traduzione olandese di *A. Roger
(1651).
All'VIII secolo (+) dovrebbe risalire il
Trattato di drammaturgia (Natyasastra), il primo trattato di retorica
e poetica che possediamo della tradizione indiana. Un testo composto
in gran parte con materiali anche molto più antichi. Il
"Natyasastra" è dedicato in particolare al teatro, di cui
cataloga e illustra anche gli aspetti esclusivamente letterari.
Nel "Natyasastra" è enunciata anche la teoria del rasa
che avrà grande sviluppo nei secoli successivi, costituendo
il cuore della concezione estetica indiana antica (vedi Abhinavagupta,
nel X-XI secolo).
Nello stesso VIII secolo viene assegnato il drammaturgo Bhavabhuti.
Discendente da una grande famiglia brahmanica, studioso anche
di materie scientifiche, visse presso la corte del re Yasovarman
di Kanauj. E' autore di tre drammi: Le gesta del grande eroe (Mahaviracarita),
Le ultime avventure di Rama (Uttaramacarita), e Malati e Madhava
(Malatimadhava). I primi due traggono argomenti da episodi del
"Ramayana": l'incontro di Rama giovane con la futura sposa Sita,
e il ripudio di Sita da parte dell'eroe seguito dalla loro riconciliazione.
Il terzo dramma, "Malati e Madhava", è il capolavoro di
Bhavabhuti. Senza rifarsi, per quanto ne sappiamo, a fonti precedenti,
vi narra l'amore nato fin dalla fanciullezza, di Malati e Madhava.
Attraverso alterne vicende, durante le quali Malati è promessa
sposa per motivi politici a un altro e rischia poi di essere sacrificata
alla crudele dea Camunda, i due giovani riescono alla fine a sposarsi.
Sono drammi che sembrano essere stati composti sia per la rappresentazione
che per la lettura (per la presenza di lunghi brani narrativi).
Spiccano in Bhavabhuti la capacità di risvegliare il sentimento
dello spettatore e/o del lettore, e la visione profondamente morale
della vita. Con lui e con Kalidasa, il teatro indiano antico raggiunge
le espressioni più alte.
Gli inni degli alvar
Tra il VI e il X secolo, vissero nell'India
meridionale gli alvar, cantori del dio Visnu cui dedicarono una
serie di scritti innici raccolti ne La divina composizione in
4000 strofe (Nalayirativviyappirapantam). Si tratta di una raccolta
di poemi distribuiti in quattro libri di 1000 strofe ciascuno.
Gli alvar erano mistici, cantori appassionati e fantasiosi del
dio Visnu contemplato in ogni suo aspetto, incarnazione e immagine.
La tradizione ha fissato in 12 il numero degli alvar, a ciascuno
dei quali vennero attribuiti diversi poemi. Attorno a questi alvar,
fiorirono diverse leggende biografiche. Capaci di nascere da un
loto d'oro o da una ninfea rossa in uno stagno sacro o anche da
un bocciolo di kurukkati (un rampicante a fiori bianchi): a simboleggiare
la purezza e il simbolo divino. Altre volte capaci di avere splendide
carriere spirituali e artistiche nonostante le loro origini di
trovatelli. Capaci di vivere 4700 o anche solo 35 anni. Possono
nascere anche deformi, come accadde a uno di loro che uscì
da una gravidanza di 12 mesi ridotto a una massa di carne informe
tanto da essere abbandonato con ribbrezzo dai suoi stessi genitori
e raccolto da un tagliatore di bambù . Ma possono anche
uscire dal grembo materno già votati alla meditazione,
con bocca occhi e orecchie sigillati ai rumori e al vaniloquio
del mondo, come fu per uno di loro divenuto cantore solo di Visnu.
Tra di loro ci fu anche una donna, Antal (= la sovrana, la signora)
che introduce negli inni, solenni e un po' barocchi degli alvar,
un tocco di gaiezza e femminilità. Antal secondo l'agiografia,
fin da piccola dichiarava un amore esclusivo e appassionato per
il dio Visnu; amava indossare all'insaputa del padre le ghirlande
di fiori destinate alla statua divina. Fu una ciocca di capelli
impigliata in uno di quei serti a tradirla, suscitando la reazione
atterrita del padre di fronte a tanto sacrilegio, ma anche la
risposta gioiosa del dio che scelse Antal (il cui nome era Kotai,
cioè "ghirlanda") in sposa.
Gli alvar sono circondati da un'aura agiografica così spessa
da essere quasi invalicabile a ogni ricerca storiografica, se
non forse nelle allusioni presenti nei loro versi.
L'inno più breve consta di 11 strofe e ha per titolo quello
di Cordicella dai mille nodi. Si racconta che inizialmente fu
consigliato di recitarlo 12 mila volte.
Quello degli alvar è un oceano letterario e spirituale
immenso, anche se a volte ripetitivo. Questi testi, come i "Veda",
furono considerati "ispirati": è Visnu stesso il vero autore
che parla per bocca degli alvar. Alcuni poemi sono stati considerati
dalla tradizione visnuita come scritture sacre al pari dei "Veda".
Per noi è soprattutto un corpus letterario di enorme valore.
Si legga l'inizio di uno di questi poemi:
«La terra era la lampada, il
vasto mare era l'olio, il sole infuocato era la fiamma. Io ho
posto una ghirlanda di parole ai piedi del Signore dal rosso
disco fulgente, dicendo: Si allontana l'oceano della sofferenza!».
E' come muoversi in un labirinto dalle pareti
colme di tesori. Si è invitati a sdraiarsi sul «soffice
letto del serpente cobra dai molti cappucci» o di assistere allo
spettacolo di «grossi pavoni che danzano al dolce canto dei calabroni».
Dietro il simbolo si scopre il volto divino incarnato nei tratti
nuziali e persino erotici dell'uomo. Si legge in un altro di questi
poemi:
«Rosso frutto maturo, la bocca
del Signore che si è fuso in me è un lto rosso.
Gli occhi, i piedi e le mani di Lui - montagna di balenante
fulgore - sono rossi loti. Tutti e sette i saldi mondi sono
stati all'interno della sua pancia».
Canta una fanciulla innamorata del dio Visnu
in un altro poema:
«O stormi di buoni aironi che
vivete nelle risaie, che importanza ha che ormai vociate? Sono
andata a raggiungere il nostro Sovrano del cielo e mi sono unita
a Lui, e il mio bel corpo ingioiellato a poco a poco ha perso
il colore, mentre una magnifica, straripante felicità
è giunta e fiorisce dapertutto!».
Altre volte il volto di Visnu è quello
di un re o di un eroe:
«O eroe che hai mozzato con l'ascia
mille braccia terrorizzando i re! Tu stai qui nel mio cuore,
e d'ora in poi non ti permetterò di andartene».
Ma è l'amore a dominare: «Egli ha cancellato
il pesante fardello dei miei antichi peccati, mi ha innamorato
di sé e poi mi è entrato nel cuore». I misteri gaudiosi
e gloriosi cantati litanicamente, cancellano quelli dolorosi del
silenzio divino. Si ripete che «Egli si è fuso in me senza
lasciare il minimo spazio vuoto». Una unione che è frutto
di grazia:
«Di mia iniziativa, io non pensavo
di porlo in me. Ma Lui, di sua propria iniziativa, è
venuto e ha imbrigliato il mio cuore solitario, si è
attaccato tenace alla mia carne, si è conglutinato con
la mia vita: di tanto è stato capace!».
Ritroviamo negli alvar gli accenti mistici
che si possono riscontrare anche in altri testi, europei e occidentali
e provenienti dalla mistica umana di sempre.
Giava
Dal IX secolo ha inizio la letteratura giavanese,
la lingua più antica della regione Maleso-Indonesiana.
Fortemente influenzata dall'epos indiano (rifacimenti del Ramayana,
del Mahabharata e di altri complessi leggendari indiani), la letteratura
giavanese è rimasta nei secoli successivi aristocratica
e cerimoniale. Fondamentale contributo alla cultura più
vastamente indonesiana è stato il teatro (wayang), sia
nella forma di teatro delle ombre, con marionette di cuoio piatte
e colorate mosse dietro una fonte di luce dal dalang (burattinaio
e dicitore) in spettacoli di soggetto epico, sia in forma di veri
burattini. Sharazur è la pianura che si trova tra Sulaimania
e Halabja, nel Kurdistan del sud [Irak]. Ahura Mazda è
il Signore Saggio, il dio unico dello zoroastrismo.
Il VII-X secolo in europa
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