Il mestiere d'autore: Intervista a Wu Ming 1


Il mestiere d'autore
Intervista a Wu Ming 1 - Roberto Bui. - a cura di ugo giansiracusa

Leggendo la vostra dichiarazione d'intenti sembrerebbe che l'attività di narratore sia da associare ad un qualsiasi altro mestiere. E sembra anche che il progetto Wu Ming sia, di per se, una struttura "commerciale" sia pur di nicchia e sia pur diversa. E' realmente così?

Se per "commerciale" intendi dire che, in quanto artigiani, ci poniamo il problema di vendere i nostri manufatti, l'epiteto e' corretto anche se suona strano per via dell'uso che ne e' stato fatto in decenni di anatemi contro i "venduti" veri e presunti. Ad ogni modo, non definirei la nostra attivita' "di nicchia": siamo tra gli scrittori italiani che vendono di piu', in Italia e in giro per il mondo. Quanto al "diversa", e' senz'altro diversa la rappresentazione che abbiamo di noi stessi: rifiutiamo la proprieta' intellettuale, rifiutiamo le mitologie correnti sull'Autore, quindi siamo contrari a piu' o meno tutte le "normali" strategie di marketing. Pur accedendo di riffa o di raffa ai media ufficiali (ma senza apparire in tivù né posare per fotografie), tendiamo a costruire e mantenere reti alternative e il piu' possibile autonome, di rapporto diretto tra scrittori e lettori, fino a relativizzare questa distinzione, a instaurare dinamiche di interazione *comunitaria* tra gli uni e gli altri: moltissime persone partecipano alla nostra newsletter e al miglioramento/aggiornamento del nostro sito; insieme a diversi lettori abbiamo scritto il romanzo "Ti chiamerò Russell"...


Essere narratori di mestiere significa confrontarsi con il mercato culturale, che senza giri di parole, è sempre più il mercato tout court. Le posizioni che il progetto Wu Ming ha preso in proposito sono abbastanza chiare e radicali - ad esempio il rifiuto del copyright e della propietà intellettuale - eppure viene da chiedere se non sia già di per se una posizione di compromesso?

Senz'altro. Siamo contro la "purezza" inconcludente. Siamo per i compromessi onorevoli, quelli che *noi* imponiamo alla controparte, ogni volta guadagnando centimetri. Qui ci sarebbe da fare il famoso "discorso dei centimetri" di Al Pacino in "Ogni maledetta domenica", o quello di Gramsci sulla "egemonia" e la "guerra di posizione"... I nostri editori sono scesi a compromessi con noi accettando la dicitura copyleft, accettando la nostra partecipazione al processo produttivo dell'oggetto-libro (facciamo noi le copertine, Cinzia Di Celmo è a tutti gli effetti parte del collettivo), accettando le nostre strategia di marketing eterodosse... Se ci fossimo fatti dei problemi a, per così dire, "sporcarci le mani", tu non avresti mai potuto leggere niente di nostro.


Quali sono gli elementi dell'industria culturale che rifiutate categoricamente?

L'industria culturale come la intendiamo oggi ha già iniziato il proprio declino. Vista la rapidità degli eventi, se ti dicessi quali elementi vorremmo cambiare o riformare rischierei di fare considerazioni di retroguardia. Internet, la "pirateria", il copyleft, la formazione di comunità autogestionarie che si riappropriano delle tecnologie per la ri/produzione della cultura... Tutto questo sta già sconvolgendo il quadro. Si tratta di accompagnare questo processo, premendo dall'interno e dall'esterno, sburocratizzando, "disintermediando", degerarchizzando, *espropriando*.


Nella "Dichiarazione dei diritti (e doveri) del narratore" si citano i griot, i bardi e gli aedi come forme di quella necessità, di ogni società, di avere degli uomini (o donne) capaci di tramandare e raccontare storie, la necessità di avere nei narratori di sè stessi e della propria cultura. Eppure, nelle intenzioni del progetto Wu Ming, c'è il distacco da quell'aurea di sacralità e di unicità che queste figure hanno sempre rappresentato per i loro contemporanei e per gli altri membri della società. E' realmente possibile arrivare a considerare il narratore come un semplice artigiano o lo scontro con un sistema culturale profondamente radicato lo rende impossibile?

Sulla sacralità dei narratori e degli sciamani si aprirebbe un contenzioso di etnologia e antropologia comparata che in questa sede mi pare inaffrontabile. Basti dire che esistono diverse leggende in cui le comunità, insoddisfatte dell'operato dei loro sciamani, li "rimuovono dall'incarico". Ovviamente noi crediamo sia possibile considerare il narratore come un artigiano, a dire il vero diversi narratori si sono considerati o tuttora si considerano "onesti mestieranti" (moltissimi autori di narrativa di genere hanno usato locuzioni simili a questa per descriversi), diciamo che noi abbiamo fatto un passo in avanti, mettendo su una vera e propria bottega artigiana. Quanto all'aura dei prodotti culturali, come insegna Benjamin, non è nelle nostre "intenzioni", è già un dato di fatto da diverse decadi, per via delle tecnologia che hanno permesso la riproducibilità dell'opera d'arte.


In fondo, per molti, l'essere artisti non è che un grado alto dell'artigianato... che è sempre artigianato ma con un "valore aggiunto" che rende il simbiotico forma/contenuto un qualcosa di unico, grazie al lavoro che vi viene prodotto dall'individuo, artista o artigiano che si voglia chiamare.
Punto fondamentale del processo di elaborazione del progetto Wu Ming è la progressiva smaterializzazione del culto della personalità dell'artista. Tant'è che wu ming nel dialetto mandarino della lingua cinese significa proprio "nessun nome". Eppure sembra inconcepibile, date quelle che sono le nostre basi culturali, non pensare alla funzione dell'autore come ci è stata insegnata. Anche solo pensando al lavoro di elaborazione mentale che esso svolge. Di scelte di materiali, di stile, di forme, di contenuti etc etc
Il narratore non è comunque autore?

Certamente sì, ma il punto è che non è (non dovrebbe concepirsi in quanto) Autore. In quella maiuscola reverenziale (che c'è e pesa anche se non la si scrive e non la si può pronunciare) risiede il problema. E' la stessa maiuscola che stabilisce d'arbitrio la differenza tra le arti e l'Arte, tra l'artista e l'artigiano. Sostanzialmente, gli autori dovrebbero tirarsela di meno, e capire che non sono affatto esseri fuori del comune, anzi, sono "dentro il comune", nel regno di ciò che è condiviso da una società. Come ha scritto Stewart Home: "Si comincia con l'Autore, e si finisce con l'Autorità". Noi pensiamo che partendo dagli autori (al plurale e senza la maiuscola) si arrivi tutt'al più all'autorevolezza, quel punto in cui esiste sì un "valore aggiunto" (quello di un lavoro fatto bene) ma non c'è alcun tipo di imposizione né di coercizione.


Ho sempre pensato che uno degli impulsi fondamentali dello scrivere/narrare fosse la necessità della comunicazione. Avere voglia di dire qualcosa a qualcuno. A chi parla Wu Ming e cosa sta dicendo? Da dove nasce, in voi, questo bisogno di comunicare?

E' lo stesso bisogno di comunicare di qualunque altro essere umano, non esiste umanità senza il racconto e la condivisione di storie. Abbiamo la smisurata ambizione di voler parlare all'elemento umano che delle storie si nutre, quindi non abbiamo un target preciso. Il nostro lavoro ha come riferimento la comunita' umana che, come ha scritto Wu Ming 5, "è il nostro ghetto di riferimento". Quanto a quello che diciamo, direi che tutte le nostre storie hanno un comune denominatore: la lotta per affermare la dignità (individuale e collettiva).


C'è la tentazione di credere che le possibilità di comunicare, con i nuovi mezzi, siano pressochè illimitate. Eppure al dato pratico ci si scontra con un sistema dove la comunicazione (e la narrazione come processo comunicativo) sono molto difficili, almeno su larga scala. Una situazione in cui i fatti vengono spesso mistificati, elaborati, trasformati o, paradossalmente, in cui la proliferazione esponenziale delle informazioni le rende quasi inutilizzabili. Una situazione in cui l'esperienza della narrazione sarebbe fondamentale per la sua funzione di svelamento del reale e delle sue dinamiche. Il progetto Wu Ming è una risposta praticabile a questa realtà?

Il progetto Wu Ming da solo certamente no, la risposta praticabile - anzi, praticata - è in quello a cui il progetto Wu Ming allude costantemente: la mitopoiesi, quel processo in cui un'intera comunità si fa carico dell'elaborazione e dell'imposizione dal basso di un immaginario (fatto anche e soprattutto di storie) che cambia lo stato di cose presenti. Assistiamo già allo scontro di due universi, da un lato c'è l'universo della comunicazione piramidale e di massa, dall'altra c'è quello delle comunità che si federano in networks alternativi capillari. E' in questa "capillarità" il segreto dell'inestirpabilità di certe pratiche, come appunto la "pirateria". Puoi ostruire una grossa arteria ma coi capillari c'è poco da fare, sono completamente innervati nella carne del mondo, e portano sangue fresco ai tessuti culturali.


Che ruolo hanno, in generale, i mezzi comunicazione nella formazione di una "coscienza" e qual'è, a vostro avviso, questo ruolo nella situazione italiana attuale?

La "coscienza" dipende *interamente* dai mezzi di comunicazione, in ogni senso, ma i mezzi di comunicazione non sono solo i media elettronici, la definizione include tutta la sfera del linguaggio e dei segni in generale: il corpo è un mezzo di comunicazione (anzi, è *tanti* mezzi di comunicazione, che vengono studiati dalla neurofisiologia e dalla biologia dei comportamenti); lo spazio intorno a noi è un mezzo di comunicazione; i mezzi di trasporto sono mezzi di comunicazione; la velocità stessa è un mezzo di comunicazione (sul contenuto di quest'ultima frase Paul Virilio ha costruito la nuova scienza che definisce "dromologia")... Tutto questo, non solo la TV e i giornali, influisce sulla formazione della "coscienza" (che poi, come diceva Henri Laborit, è l'insieme dei nostri automatismi culturali, quindi in realtà è "inconscia"). Ma la "coscienza" non viene affatto condizionata in maniera univoca, bensì in maniera contraddittoria, polisemica, caotica... Si creano continuamente nuovi spazi e nuove occasioni per la lotta contro il nemico o per la fuga creatrice.


Dichiarate che Wu Ming è una "impresa politica autonoma". Di conseguenza, in quanto politici, non vi astraete dal reale ma cercate di lavorarlo anche con interventi che esulano la pura narrazione per incanalarsi verso processi di divulgazione di tematiche non direttamente collegate al vostro lavoro di narratori. Dunque una coabitazione del "cittadino" come membro della comunità e del "narratore" come portavoce delle istanze della comunità stessa?

Non c'è niente che esuli dalla narrazione, e non esiste narrazione "pura". Tutte le posizioni che prendiamo, tutto ciò di cui ci occupiamo è direttamente collegato al nostro lavoro di narrazione, che è sempre "spuria" perché si nutre di tutto, attinge alle fonti più disparate, cerca di realizzare sintesi - per quanto precarie - tra le varie suggestioni che troviamo nell'aria. Abbiamo più volte descritto noi stessi come "spugne", assorbiamo ciò che ci circonda e in qualche modo lo utilizziamo per le nostre narrazioni. Anche il nostro essere "cittadini" finisce nelle nostre narrazioni.


Per concludere, come usa dire una delle icone dell'immaginario collettivo: si faccia una domanda e si dia una risposta...

Che ore sono? Più o meno l'una e trenta.

 

Contesto: Da Luther Blisset a Wu Ming 1


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