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Giovanni Raboni o della guerra perduta

Ricchi di riferimenti letterari, da Eliot ai francesi dei primi del XX secolo, a Montale, i testi di Giovanni Raboni rimandano a una 'linea lombarda' caratterizzata da una pluralità di registri linguistici che si attenuano e si dissimulano a vicenda. La sua direzione è quella di una poetica dell'incertezza e della precarietà esistenziale. Più che la desolazione, in lui è la stanchezza: quella che sopravviene quando si svuota la trama delle relazioni, in cui tutto si sopisce, non si ha nulla di conflittuale o di apparentemente drammatico, nulla da annunciare e nulla da concludere (il "non chiederci la parola che mondi possa aprirti" di Montale). Nel percorso di Raboni sono presenti, come costanti, il tema della città, la cronaca del privato e dell'esistenza, il richiamo ossessivo dei morti.

Scrive *Maurizio Cucchi [1], come ne "Le case di Veltra":

Lavorando molto sul parlato, creando una specie di “parlato mentale”, usando toni nettamente prosastici, Raboni inventa una sorta di efficacissimo stile sempre a ridosso della prosa e sempre impeccabilmente controllato. Il registro volutamente basso dello stile corrisponde a una materia tematica legata al quotidiano, a una realtà umile e spesso minima o misera, a sprazzi di narrato o ad articolazioni narrative vere e proprie, come avverrà anche e soprattutto nel successivo Economia della paura (1970). [1]

In "Cadenza d’inganno" (1975)

risulta evidente anche un’ inquietudine sperimentale, che non impedisce a Raboni di misurarsi con tematiche civili ma anche con l’emozione del ricordo, con il senso della perdita e della morte, come nell’esemplare sequenza Parti di Requiem, dedicata alla madre da tempo scomparsa. [1]

"Nel grave sogno" (1982)

è libro che prosegue, con maggiore omogeneità di temi e registri, il lavoro precedente, nell’elaborazione di una fitta trama in cui vengono a sovrapporsi quotidiana esperienza, sogno e mediazione culturale. Segue poi un canzoniere d’amore, Canzonette mortali (1986), che fa in qualche modo da cerniera tra il primo Raboni e quello della stagione successiva, anticipato da una raccolta di versi scritti (e spesso riscritti per l’occasione) tra esordi e primi anni Ottanta: A tanto caro sangue. A partire da Versi guerrieri e amorosi (1990), Raboni abbraccia la forma chiusa, recupera la metrica tradizionale e la rima, alla ricerca di un’identità formale del testo poetico riconoscibile come tale anche dal lettore. In altri due libri (Ogni terzo pensiero e Quare tristis), si rafforza questa tendenza, che si interrompe nel più recente Barlumi di storia (2002), dove Raboni, meditando attraverso il ricordo della guerra vissuta da bambino, ma anche ragionando di eventi storici che vanno dall’assassinio di Kennedy a un presente visto con dolore e insofferenza, torna alla forma libera dei suoi primi libri. [1]


Sull'atteggiamento esistenziale e esistenzialista di Raboni, possono essere indicativi i versi presenti in "A tanto caro sangue":
«Una povera guerra, piana e vile, | mi dico, la mia, così povera | d'ostinazione, d'obbedienza. E prego | che lascino perdere, che non per me | gli venga voglia di pregare».
Si tratta della percezione dell'esistenza propria e altrui come marchiata dalla mancanza, dallo scacco. Paragonata a una piccola guerra perduta, o combattuta solo a metà. Il soggetto in gioco nell'opera di Raboni sceglie di parlare della vita come se non gli appartenesse mai fino in fondo: "per non essere complice della realtà, il poeta adotta un'ottica mortuaria" ha scritto di lui *Bellocchio.
Nei testi presenti in "Ogni terzo pensiero" fin dalla lirica d'esordio («ombra ferita, anima che vieni») domina questo senso del disincanto e della dissoluzione, il presagio innaturale del «bianco», la presenza estraniante di una «neve» senza visione. Così "In exitu" è il finale di «quella sorta di luce» che lentamente va formandosi nelle prime ore del giorno, mentre il cadavere del giovane viene accompagnato fuori dalla stazione. La sua è una Milano irriconoscibile, dove già si muore e dove è già «un'altra primavera, un'altra neve». E in un'altra lirica, sempre della stessa raccolta, leggiamo:
«Il vuoto non manca, | lo attesta il sapiente | d'Irlanda alla mente | che si sfiata e stanca | in cerca del niente | per finire bianca | di paura e stanca | da morire in niente»,
con l'uso ironico della rima e della ripetizione delle parole.
Raboni esprime nella raccolta la presa di coscienza dell'indegnità del morire:
«Eppure, se ci pensi, in poche cose | c'è meno dignità che nella morte, | meno bellezza. Scendi a pianterreno | come ti pare, porta o tubo, infì lati | dove capita, scatola di scarpe | o cassa d'imballaggio, orizzontale | o verticale, sola o in compagnia, | liberaci dall'estetica e così sia».
La sezione "Sonetti di infermità e convalescenza" rappresenta forse il momento più toccante della raccolta. La malattia è lo scenario di uno stato di abbandono dell'essere, fenomenologia della sofferenza inutile che insinua nel cuore dell'esistenza la verità incancellabile della sua insensatezza, esperienza della passività estrema ma anche della pazienza e della passione. Il corpo giace come un sasso «raccolto al mare», come la cera «di un santo in un buio basso | lividamente a giacere | sotto vetro fra preghiere». Ma parla anche con amara ironia delle «navicelle inermi» che pretendono di combattere le corazzate del capitale mentre la «festa si farà | senza di noi, poveri untori senza | pestilenza, solchi senza semenza».

Note:

[1] Giovanni Raboni / a cura di Maurizio Cucchi, in: Dizionario, pubblicato su La Stampa web, 3 ottobre 2003.

Contesto

Giovanni Raboni

 


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