Charles
Bukowski
Il santo bevitore, di Fernanda Pivano
BUKOWSKI
Ribelli. E' morto a 73 anni l'autore di "Storie di ordinaria
follia". Girovago, alcolista, rifiutato dalla società
americana, conobbe la gloria in Europa. E divenne una leggenda.
Charles Bukowski è morto l'altro ieri in un ospedale
di San Pedro (California), dov'era ricoverato per leucemia.
Aveva 73 anni. Dai suoi libri sono stati tratti due film famosi:
"Storie di ordinaria follia" di Marco Ferreri e "Barfly" di
Barbet Schroeder.
E' morto Charles-Henry-Hank Bukowski, sposato con la dolcissima
Linda Lee Beighale, padre di una figlia ormai adulta avuta
dalla prima moglie: è morto di leucemia o di polmonite
o delle orribili cose di cui si muore a conferma che la vita
non è così bella come cercavamo di fargli credere,
circondato dai fiori coltivati da Linda e dai tre gatti raccolti
qua e là perché non morissero di fame.
Ora arriveranno le cronache, i soliti pettegolezzi, li dovremo
anche raccontare ma c'è una cosa che vorrei dire per
prima: che Bukowski era un grandissimo scrittore, uno scrittore
nato, un narratore della levature forse di un Hemingway, certo
di Norman Mailer (e con l'ambizione di entrambi), uno scrittore
nato che si metteva lì, con gli occhi socchiusi da
animale braccato e quel sorriso alla Mickey Rourke, a rispondere
sottovoce, lentamente a una domanda finchè la risposta
non prendeva forma e diventava intensa.
Così, presto, ci accorgevamo di ascoltare un racconto,
di quelli che poteva benissimo pubblicare, intensi, disperati
come tutto quello che scriveva, senza futuro, sempre intrisi
di dolore, senza speranza e senza sorriso: solo in compagnia
del vuoto di chi ha conosciuto la sabbia portata dal vento
tra le immondizie e gli scarafaggi su pareti senza colore.
Passavo giornate intere con lui, dal tramonto quando tornava
dalle corse, felice se guadagnava 25 dollari molto più
se gli avevano stampato 500 mila copie di un libro. "Che cosa
racconterai ora che hai raccontato tutto anche della tua infanzia?",
gli chiedevo. "Non ti preoccupare", mi diceva sornione.
Avrà pubblicato anche la storia della sua morte? Da
mesi non riuscivo a parlargli; rispondeva al telefono una
voce femminile, forse era una governante, o un'infermiera,
mai quella di Linda. Quando fecero a Venice un manifesto per
la guerra del Golfo, Silvia Bizio, nostra comune amica, mi
disse che Bukowski non andò, ma per la prima volta
scrisse tre poesie contro la guerra. Le recapitò a
Linda e Linda le lesse forte per lui. "Non stava bene", disse;
e a Natale mandò a Silvia un biglietto di auguri, spiegando
che Hank non era ancora guarito.
Voleva essere chiamato Hank; Henry non lo voleva perché
glielo avevano dato i genitori, Charles era troppo solenne
e poi quello preferito dagli editori. Questi erano Barbara
e John Martin della Black Sparrow di Los Angeles, una piccolissima
casa editrice di Santa Barbara nata nel 1966 quando Martin,
allora capo di una ditta di forniture per uffici, vendette
la sua collezione di "prime edizioni" e pubblicò il
primo libro di un bevitore famoso, di quelli che bevono nei
bar dei marinai, si azzuffano con tutti e finiscono a bere
da soli distesi sul pavimento: era poesia esplicita e la prosa
ricordava lo stile di Henry Miller. Martin gli offrì
100 dollari al mese perché lasciasse il suo lavoro
di fattorino alle poste e lavorasse soltanto a un romanzo.
Bukowski lo ascoltò e abbandonò l'impiego: alla
fine di un gennaio telefonò dicendo che il romanzo
era finito.
Con quella telefonata iniziò la sua carrira di scrittore
e anche la fortuna dell'editore. John Martin così sintetizzò
il loro incontro: "Il signor Rolls incontra il signor Royce".
Intanto Bukowski si conquistò un pubblico facendo uscire
qua e là frammenti e racconti sulle riviste che allora
si chiamavano underground. La collaborazione più regolare
fu quella con Open city, dopo quella al Los e al Los Angeles
Free Press; su quel giornale tenne una rubrica chiamata Note
di un vecchio sporcaccione che segnò il suo ingresso
(1969) nella galleria di letterati della casa editrice di
Lawrence Ferlinghetti, la City Lights Books. Il libro fu accolto
con disprezzo dalla critica dell'establishment ma Bukowski
aveva ormai un suo pubblico che lo andava ad ascoltare ai
readings di poesia e non cercava soltanto in lui il "poeta"
ma il "poeta maledetto".
Nel 1971 uscì Post Office, il suo primo romanzo, scritto
in diciannove giorni, che racconta le sue avventure di postino
con donne per lo più mitomani incontrate nelle ore
di lavoro e rivela uno stile già molto scaltro nell'uso
sia del linguaggio vernacolare sia di un'autoironia non ancora
intrisa di cinismo ma già abbastanza densa da sfiorare
una personalissima denuncia sociale mescolata ad un forte
individualismo anarchico.
Nel 1980, quando facemmo un'intervista di 150 pagine, la
sua adolescenza, la sua infanzia, la sua giovinezza, risultarono
con una chiarezza ormai priva di dubbi; e intanto Bukowski
continuava a regalarci storie su storie e due film dei quali
chiacchieravamo nella sua stanza di soggiorno, dove un anno
gli riempirono il camino di 51 bottiglie di birra (una di
scorta) per festeggiare il cinquantesimo compleanno. Mi faceva
cucinare da Linda un minuscolo pesce arrosto e beveva a tavola
acqua di Perrier al sapore di cilegia. Poi ritornava a bere
nel suo studio del primo piano dove da grande ubriaco si metteva
a correggere con minuzia da stilista le pagine scritte la
notte precedente.
Quando uscivo mi baciava la mano come uno studente inglese
dell'800 e mi porgeva una rosa della sua siepe, lì
sulla porta d'ingresso. Un giornalista italiano non ci credette;
gli chiese se era vero. Bukowski insaccò il collo da
King Kong come faceva quando gli giravano le scatole e disse:
"Certo che è vero. Viene qui questa gentile signora
che ha passato la vita ad aiutare i nostri libri in Italia:
cosa volete che faccia, che la stupri?".
(dal "Corriere della Sera", venerdì
11 marzo 1994)
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