Il giorno della civetta, di Leonardo Sciascia


Il giorno della civetta, di Leonardo Sciascia
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Dicearchia, ovvero forma di governo basata sulla giustizia. Tra le tensioni della storia umana di un mondo migliore, meglio regolato nei suoi interni rapporti e nel suo interiore senso, quella alla giustizia è una delle costanti. Giustizia tra gli uomini, e nei confronti del "fato" o destino e degli dèi. Su quest'ultimo tema tutta la tregediografia greca classica ha avuto ampio dimenarsi. Nei tempi difficili dell'inizio del VI secolo è un trattato (Menae patricii cum Thoma referendario De Scientia politica dialogus) di cui accenna tra l'altro Fozios nella sua "Biblioteca" [Fozios dedica una breve scheda al trattato "Sulla politica", cfr. cod. XXXVII della "Biblioteca". Frammenti dei libri IV e V sono stati recuperati grazie al palinsesto del Vaticano greco 1298, di cui ha dato edizione C.M. Mazzucchi nel 1982]. Di contro alle tipologie "classiche" di costituzione, ovvero monarchia, aristocrazia, democrazia, come pure contro il tipo di Stato che Plato delinea, la dicearchia postula il trionfo della giustizia umana nel mondo umano. Tutto nasce ovviamente dalla coscienza della realtà come suo opposto, ovvero come "ingiustizia". "Giustizia volsemi al mio alto Fattore", dice Dante. "Giustizia non è di questa terra" pronunciano gli scettici e i denigratori del mondo mentre i potenti di sempre si sacrificano a governare nel proprio interesse dato che non c'è speranza di altrove. Di fronte alla assenza degli dèi di fronte all'ingiustizia, gli uomini manifestano il proprio sgomento (la domanda del Figlio al Padre-che-non-c'è del Cristo sulla croce, lo sgomento nel ventre dell'Olocausto da parte di 6 milioni di cristi ebrei...), tentano proiezioni utopiche o razionalistiche. Mentre i cuori senza "dèi nell'alto dei cieli" guardano alla terra e agli uomini. Scrivono, fabulano persino...

Il tema della giustizia è uno dei fili rossi della produzione letteraria e della tensione che una volta si diceva "civica" o "civile" degli scrittori di terra di Sicilia. Sciascia più di tutti, motivo non ultimo per cui vale la pena leggere Sciascia. Un racconto che è un "classico" come Il giorno della civetta, pubblicato nel 1961 [Da Einaudi, nella collana "Coralli". A partire dal 1972 nei "Nuovi coralli" e da allora innumerevoli volte ristampato. Leggiamo dalla XIV edizione, 1982, da quest'ultima collana] ma scritto tra il 1959 e il 1960, ha uno dei suoi cardini su questa tensione. Il racconto delinea la Sicilia come spazio degli attraversamenti: in cui si attraversano e si scontrano, concezioni diverse della giustizia tra gli uomini nell'assenza (indicativa) di qualsiasi forma di giustizia divina o extra-mondana. Cosa è giustizia/ingiustizia, come si comportano gli uomini di fronte a ciò che accade (e dunque, wittgensteianamente, esiste), quale "posizione" assumono e quali indicazioni è possibile dare? Soprattutto, cosa è "legge" in terra di Sicilia?

L'indagine del capitano Bellodi "emiliano di Parma" si configura come una serie di incontri e di confronti con i tanti aspetti della realtà della Sicilia occidentale. Ogni incontro, come la scena di una rappresentazione teatrale, serve a dare ulteriori elementi degli attraversamenti di cui dicevamo.

Si legga il con/fronto tra il confidente Calogero DiBella e il capitano: per il confidente, da una parte c'era la legge della morte e dall'altra quella della "giustizia" poliziesca. Occorreve dar conto alla seconda, ma tener presente soprattutto della prima e delle sue regole, per questo era confidente ambiguo della polizia. Anche quando la giustizia poliziesca si presentava sotto le forme (la spoglia) di un uomo "biondo e ben rasato, elegante nella divisa [...] che non alzava la voce e non gli faceva pesare disprezzo: e pure era la legge, quanto la morte paurosa" [Sciascia, cit., p. 28].

Quale tipo di "eroe" è il capitano Bellodi. Quale tipo di eroe Sciascia propone alla responsabilità individuale e collettiva del suo tempo. Non siamo davanti a una "formula" dell'utopia politica o sociale (More, Campanella): i personaggi di Sciascia rimandano a persone reali, o vogliono rimandare ad esse. Nella informatistica letteraria dell'epoca si è fatto il nome di Carlo Alberto Dalla Chiesa [ai primi anni Sessanta non ancora il "prefetto" sgominatore di gruppuscoli dell'estremismo armato della Sinistra, custode di segreti nell'ambito dell'uccisione di Aldo Moro e paventato debellatore moriesco della criminalità mafiosa e per questo puntio dallo Stato che proprio per questo ne aveva voluto il trasferimento]. Quello che importa è la tipologia dell'eroe. Non siamo davanti all'eroe aristocratico cui rimandano figure del mito letterario come Amleto, Alcesti, Andrej [A. Berardinelli, L'eroe che pensa, Einaudi 1997. Si legga l'ultimo capitolo intitolato appunto "L'eroe che pensa: Amleto, Alceste, Andrej", p. 173 e segg. Andrej è il principe Andrej Bolkonskij, personaggio di "Guerra e pace" di L.N. Tolstoj]. Sciascia delinea un "campione" proposto all'esemplarità, quale modello umano, campione di uno Stato democratico diverso da quello che fino ad allora si è mostrato in Sicilia, o meglio di un'idea di giustizia diversa che non necessariamente fa riferimento allo Stato dominante ma certamente a relazioni sociali e modi di essere, regole civili, che esistono.

Il mondo di cui il capitano Bellodi è portatore, è culturalmente "altro" rispetto a ciò cui sono abituati a aspettarsi i suoi interlocutori diretti o indiretti.

 "Sarebbe rimasto smarrito, il confidente, a sapere di avere di fronte un uomo, un carabiniere e per giunta ufficiale, che l'autorità di cui era investito considerava come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; che riteneva la legge scaturita dall'idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse" [Sciascia, cit., p. 29].

Smarrimento significa esercizio di incasellamento e classificatorio da parte di ognuno degli esemplari con cui il capitano Bellodi si confronta. Così il maresciallo di S., rappresentante della tradizione poliziesca in terra di Sicilia, che giudica servilmente il capitano alla luce del proprio goloso attaccamento culinario che sembra essere l'unico movente della sua esistenza (" 'Hai mangiato' pensò il maresciallo: e il suo rancore fu gelido come ormai il grasso intorno alle costolette di castrato" [Sciascia, cit., p. 37]). O l' "uomo bruno" che a Roma incontra in un caffè un onorevole "biondo" per segnalare le attività del "comunista" Bellodi [Sciascia, cit., p. 22-25] e farlo rimuovere. Fino a don Mariano Arena con cui avviene uno degli incontri più importanti del libro e della storia della letteratura europea di quegli anni, divenuto poi idiomatico ed estensivo per tutto un mondo e una mentalità (fornendo letteratura e ideologia alla stessa mafia, e comunque ai gieornalisti che di vademecum rapido e comodo per l'ideologia mafiosa avevano bisogno):

"- Io - proseguì poi don Mariano - ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo...

- Anche lei - disse il capitano con una certa emozione" [Sciascia, cit., p. 100]

Uno Stato che evidentemente esiste, non una utopia, nell'ideologia dell'attuale Stato repubblicano nato dalla Resistenza o in altre zone del territorio nazionale mentre "qui", in Sicilia e ovunque sia Sicilia (dunque anche nel Parlamento, a Roma, dove si tratta delle cose di Sicilia), ha demandato o si è lasciato distrarre? E' una faccenda complessa, ed è parte dell'analisi politica e sociale che si fa (ognuno di noi fa e dunque ognuno di noi detiene come certezza di strumento interpretativo) nei confronti della Sicilia e di ciò che viene chiamato "mafia". Uno Stato che esiste "accanto" all'Altro Stato che, per non si sa quale inspiegabile motivo è dominante più che quello che dovrebbe essere?

Ma Sciascia è scrittore che non può essere esaurito sulla base di un solo filo o tema (anche questo, motivo per cui vale la pena leggere Sciascia). C'è la scrittura e lo "stile" di Sciascia. Proprio l'analisi dello stile permette di chiarire l'equivoco di uno Sciascia "illuminista". Sciascia appartiene alla schiera degli scrittori della chiarezza gesuitica, alla Bartoli, ma dentro il bipolarismo barocchista. Attenzione e gusto per la parola, per il fonema pastoso e che rimanda alla civiltà e alle sue stratificazioni anche erudite. L'impasto linguistico di Sciascia non appartiene al realismo se non come reinvenzione dalla parte dotta e culturale - lontana dunque dalla reinvenzione di Verga. Per questa via Sciascia giunge a una forma di espressionismo linguistico a fondo narcisistico e di matrice dantesca (più che di rimando al filone petrarchesco): si legga fin dalla prima, cinematografica pagina, fatta tutta di cose che colpiscono occhio e orecchio: l'autobus che romba con improvvisi "raschi" [Sciascia, cit., p. 9], le "sfilacce" di nebbia ai campanili della Matrice; e ancora, lo "sconfinato antro di splendenti schisti e di candenti apparizioni" [Sciascia, cit., p. 56] nel viaggio dantesco del capitano verso S., tappa del viaggio nell'inferno che è tutto il racconto di iniziazione e di conoscenza sicula di un "continentale" in terra di Sicilia. L'inarcatura della frase, con gli improvvisi e inattesi spostamenti linguistici ("perché e come" [Sciascia, cit., p. 18] al posto del quotidiano "come e perché") oltre all'uso, sempre espressionistico della terminazione della frase con il verbo, a mimare (rimandare a, alludere, tradire) la lingua siciliana.

Vi è il tema della donna, o della sua assenza, o del particolare modo in cui è presente/assente la donna in Sciascia. Il desiderio maschile, animalesco, per la donna, di tipo brancatiano, nell'occhio avido con cui il siciliano guarda nel caffè romano alla guardarobiera ("una guardarobiera bruna e formosa, da sbucciare come un frutto di quel suo grembiule nero: 'non da farglielo levare' pensavano l'uomo bruno e l'uomo biondo 'da scucirglielo addosso' " [Sciascia, cit., p. 22] con cui i due uomini si identificano complici nello sguardo e non solo); unica figura di donna, quella della precoce vedova del potatore Nicolosi, appiattita da una parte nella pigra catalogazione psicologica del maresciallo di S., dall'altro nella strumentalità dell'interrogatorio dello stesso capitano Bellodi. Donne non protagoniste, donne di sfondo - ma d'altra parte, siamo all'inizio degli anni sessanta in una Sicilia particolarmente "tradizionalista": le donne cominceranno a contare come denuncianti e come manager della nuova mafia solo a partire dagli anni Ottanta (unica eccezione, le madri degli ammazzati, le Battaglia che inaugurano il "coro greco" delle offese fino a Rita Adria).


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