Il salotto di Margherita Sarfatti, di Simona Urso
In molte ricerche spesso quando si parla
di salotti si allude ad una dimensione della sociabilità borghese, e ad una
nuova funzione femminile, a modelli e rituali che attraversano i decenni e
mutano. In altri casi studiare i salotti significa studiare quanti li frequentarono,
i cenacoli culturali e intellettuali che vi si formarono, i reticolati di
saperi e conoscenze che vi si attivarono: in generale, come è noto, il salotto
risponde ad una triplice funzione: informativa, formativa e legittimante.
Se questo è vero per i salotti ottocenteschi
[1] , che sono parte di un processo di costruzione dell’identità
borghese, con l’inizio del secolo successivo in realtà tale “modello” muta,
non solo nelle forme, ma sicuramente nei contenuti veicolati, e nella personalità
delle padrone di casa [2] .
Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, il
nuovo impegno delle donne istruite e arbitre dei salotti era rivolto alle
opere di assistenza e beneficenza o orientato politicamente in senso emancipazionista,
o, come nel caso della Kuliscioff, era quasi il sostituto di una sede di partito.
Si è soliti affermare che, proprio per questo, i salotti cominciarono a perdere
quel carattere di sociabilità borghese che li aveva contraddistinti fino ad
allora; sembra così, in apparenza, tramontare anche il ruolo delle dame salonnières,
che aveva trovato espressione nelle conversazioni letterarie o nei dibattiti
patriottici.
Se questo è in parte vero per alcuni dei salotti primo
novecenteschi, non è così in tutti i casi: il salotto Sarfatti, ad esempio
rivela una nuova forma di sociabilità e probabilmente anche una salonnière
di tipo nuovo.
A creare questo
tipo nuovo di “padrona di casa”, è soprattutto la comparsa, in età giolittiana,
di una élite intellettuale nuova, fatta di giornalisti, operatori culturali,
costruttori di opinione, che ha nuovamente bisogno, come l’élite borghese
del secolo precedente, di luoghi in cui trovarsi e riconoscersi: il salotto
diventa così anche luogo di costruzione identitaria di questa nuova élite.
E il salotto Sarfatti fu centrale, nel dare a questa nuova élite un luogo
anche mentale in cui riconoscersi. Se esso possiede una propria unicità, essa
dipende dal fatto che, solitamente, la stessa nuova élite aveva altri luoghi
in cui incontrarsi: le case editrici, le librerie, le redazioni dei giornali.
Ma il salotto
Sarfatti fa eccezione, perchè, grazie alla padrona di casa, esso seppe esercitare,
in più occasioni, la stessa funzione di quei luoghi “neutri”, in cui la società
degli uomini (ché la maggior parte di questi nuovi intellettuali della penna
erano uomini) si ritrovava. Ciò essenzialmente per due motivi: la padrona
di casa, donna, voleva entrare in quell’ambiente, essere riconosciuta come
un intellettuale alla pari con quella nuova società intellettuale soprattutto
maschile, e ci riuscì: prima di poter avere accesso a quelle sedi (giornali,
cenacoli, caffè mostre d’arte), e per poter in seguito avere accesso a quelle
sedi, ne fece entrare i protagonisti in casa propria.
Il salotto di Margherita Sarfatti fu così il modo in cui la donna riuscì
a trovare un proprio spazio a Milano, ove si era trasferita da Venezia, nel
1902, per seguire il marito, dirigente socialista. Questo mondo accolse i
Sarfatti, che avevano scelto di abbandonare Venezia perché troppo stretta
per le loro ambizioni politiche [3] , in particolare
quelle di Cesare, avvocato brillante e buon politicante, anche se non troppo
fortunato [4] .
I due erano socialisti e israeliti, e la città in cui scelsero di traslocare
era non solo il centro propulsivo del socialismo italiano, ma
era animata anche da una comunità ebraica forte, impegnata
in parte nel partito socialista, in parte nelle imprese filantropiche.
Spesso in entrambe contemporaneamente. Ma l’approdo fu una delusione.
Quando i coniugi Sarfatti si trasferirono a Milano la città stava attraversando
l'ultimo decennio di una vitalità intellettuale e politica che
ancora la legava alla cultura di fine secolo, e cui fa invece
da contrappeso una vitalità economica in espansione. I Sarfatti
assistettero così, da protagonisti, al passaggio di consegne
che stava segnando definitivamente il tramonto della Milano
scapigliata, cavallottiana, e anche turatiana.
Questo passaggio era la risposta milanese
alla crisi di fine secolo, la risposta della sua borghesia,
che riusciva a produrre, con il nuovo secolo, una forte industria
editoriale e un numero consistente di letterati "di consumo",
ma che perdeva terreno nel dibattito culturale, recuperandolo
parzialmente solo dopo il 1910. Alla capitale morale ed intellettuale
si stavano sostituendo così altri centri di irradiazione.
Tutto ciò avviene contemporaneamente alla crisi del giolittismo
e della cultura positiva, di cui rimanevano però ancora salde
le esperienze pratiche della filantropia borghese, della Società
Umanitaria e del riformismo socialista.
Proprio questo mondo, che fu l’inevitabile
primo approdo della nuova arrivata, però, non la riconosceva come individuo
separato dal marito o dall’ambiente che ruotava attorno alle tematiche femministe:
il salotto fu il modo in cui riuscì ad affrancarsi da un contesto politico
e culturale che in una donna accettava l’attività filantropa o suffragista [5] , ma che nella stessa
donna faticava a riconoscere una intellettuale e una giornalista di cultura,
per altro ben lontana, come impostazione culturale, dallo stantio orizzonte
che il partito e i luoghi ad esso vicini rappresentavano.
Il suo salotto fu così il risultato di un processo di autonomizzazione intellettuale
da un partito, quello socialista, cui apparteneva, ma che intellettualmente
era insoddisfacente e alieno alla sua formazione. Lo dimostrano le difficoltà
che incontrò, appena giunta in città, per farsi largo in quanto intellettuale
e critico d’arte, attività in cui si era cimentata a Venezia, e con successo,
fin dai primi anni del matrimonio: ma a Milano trovare spazio fu difficile.
Nei suoi primi anni rimase in contatto con giornali veneziani, su cui comincia
a scrivere d’arte, la materia che più sente congeniale: collaborò a «Il Secolo
nuovo», che aveva contribuito a fondare con il marito e Elia Musatti,
a «La Gazzetta degli Artisti», in cui dominava la personalità di Mario Morasso,
ove si occupa delle Biennali d’arte, dirette fino al 1920 dal suo maestro
Antonio Fradeletto. Trovò spazio per breve tempo anche su La Patria
di Roma, ove recensì ancora le mostre veneziane. [6]
A Milano inserirsi fu ben più arduo: accreditarsi presso i socialisti milanesi
non solo come una intelligente attivista ma come una intellettuale e scrittrice
d’arte non le sarebbe stato facile. [7]
Frequentò le emancipazioniste milanesi, ma senza grandi fervori, e solo
perché le permettevano di inserirsi in città: in quanto donna era obbligata
ad accedere prima ai luoghi del’emanicipazionismo, per poi conoscere coloro
che l’avrebbero condotta verso quegli spazi che in realtà le interessavano,
e che sono maschili: le redazioni culturali dei giornali, le gallerie d’arte.
Capì immediatamente che, da giovane donna e moglie di esponente socialista,
era difficile trovare spazio nella politica degli uomini e che nel giornalismo
intellettuale l’impresa era anche più ardua. La sola possibilità era forse
quella invece di avvicinare intellettuali più ancora politici e artisti (
non dimentichiamo che era critico d'arte) nei salotti degli altri, anzi, delle
altre. In particolare nel salotto Kuliscioff nel salotto Ravizza e in quello
di Ersilia Maino.
La Milano delle attività “pratiche” della società Umanitaria, dell’Unione
Femminile e delle iniziative ad essa collegate, come l’Asilo Mariuccia, fu
infatti, per i due Sarfatti, di più facile accesso : il marito tiene
corsi all’Università Popolare ed entra nel Consiglio della medesima. Entrambi
frequentarono casa Ravizza, il salotto dei Majno [8] , e Margherita cominciò, dal 1902, a
collaborare all’ «Unione Femminile», periodico della omonima associazione
emancipazionista presieduta da Ersilia Majno. [9]
Questo le fornì l’occasione per far nuove
conoscenze, conoscenze che le servirono anche per poter entrare nell’unico
mondo che le interessava, quello del giornalismo colto e della critica d’arte,
per potersi ritagliare anche un ruolo di operatrice culturale e organizzatrice
di mostre: doveva uscire da un anonimato che non le era congeniale a cui a
Venezia non era abituata [10] . Si
era spostata a Milano proprio per ampliare le proprie ambizioni.
Comprese subito che solo gestendo in prima
persona il traffico degli inviti avrebbe potuto ottenere veramente di gestire
le conoscenze attivate in casa altrui, e controllarle, farle fruttare, diventando
a propria volta un tramite per altri: agevolata anche dalla posizione del
marito aprì così anch’essa un proprio salotto, (d’altra parte a Venezia ne
aveva frequentati e considerava questa pratica quasi naturale per una esponente
dell’alta borghesia ebraica). Fu quindi “apprendista salottista” a casa delle
tre straordinarie donne che abbiamo citato, ma non le emulò mai perché il
solo interesse che aveva, a parte conquistarsi un pezzetto di nomea cittadina
era promuovere se stessa e dimostrare che il suo non sarebbe stato un salotto
della buona borghesia ma una vera e propria factory
1906 – 1910
Decise perciò di aprire il proprio salotto
per portasi letteralmente “il lavoro in casa” e conoscere quanti potevano
esserle utili ad una carriera professionale: ogni suo mercoledì servì quindi
soprattutto ai suoi scopi. In questo senso non era diverso forse da quello
della Kuliscioff nel quale, si impostava probabilmente parte della politica
socialista.
Ma la Sarfatti era intenzionata a fare
del proprio esclusivamente un luogo ove proporre se stessa. L'elemento centrale
del suo salotto non erano gli ospiti, era lei stessa, che tentava, mostrandosi
donna colta, intellettuale, di trovare agganci e dimostrarsi, nella conversazione
colta, all’altezza egli uomini presso i quali voleva essere accreditata come
intellettuale di professione. Casa sua divenne il luogo in cui avrebbe potuto
conoscere i critici d'arte con cui voleva lavorare e nel contempo gli artisti
che era intenzionata a promuovere; in seguito, sapeva, sarebbero stati loro
ad andare da lei, una volta che casa sua avesse assunto il ruolo di un luogo
di propagazione di iniziative.
Non possedendo un giornale da cui scrivere,
non possedendo una galleria, non essendo un accademico, non avendo un luogo
materiale in cui esercitare una professione, promosse così l’arte organizzando
mostre, e firmando cataloghi. Solo così “l’Avanti!”, «L’Illustrazione Italiana»,
«La Cultura Popolare», «IL Marzocco», «L’Avanti della Domenica» avrebbero
potuto darle credito. Fu una free lance, accreditata da ciò che stava “scoprendo”
invitando in casa propria quanti conosceva alle mostre (dove dal 1909 grazie
ad una grossa eredità poté cominciare ad acquistare) o nei salotti altrui.
Era riuscita così ad avvicinare i pittori
futuristi, Boccioni, a costruire dal nulla il gruppo di nuove tendenze: invitandoli
a casa propria, e mostrando le proprio collezioni di quadri, autopromuovendo
la propria capacità manageriale e le collaborazioni avute a Venezia con Antonio
Fradeletto [11] riuscì
a convincerli di poter essere per loro qualcosa di più di un critico d'arte.
Fu quindi il primo caso, ritengo, di salotto non solo culturale, ma di impresa
casalinga.
E questo fu il suo primo apprendistato.
Quando si rese conto che attraverso il proprio lavoro di critico d'arte poteva
veramente diventare anche altro, decise di giocare uan nuova carta. Ormai
aveva vinto la propria battaglia nel modo dell’arte altre, i luoghi per fare
affari e organizzare mostre erano ormai le mostre stesse, un altro spazio
della sociabilità che purtroppo sfugge spesso a chi analizza i cenacoli intellettuali.
E in più si accorse di aver creato una
macchina di circolazione delle idee, con ospiti ormai fissi: Ada Negri, Alfredo
Panzini; a rotazione, Vitorino Pica e Antonio Fradeleltto e Pompeo Momenti
in vista, Virgilio Brocchi, Lino Pesaro, i Wonwiller, i Rignano i Della Torre
e un’ampia parte della comunità ebraica, ancora la Ravizza, Paolo Buzzi, Alfredo
Siciliani, Boccioni e Sant’Elia Leonardo Dudreville e tutto il gruppo di Nuove
Tendenze, senza dimenticare i giovani de «Il Rinnovamento», soprattutto
Alessandro Casati, Antonio Soragna e Stefano Jacini; e in più molti altri
modernisti, l’amico di sempre Fogazzaro e il prete di strada Brizio Casciola [12] .
1910 - 1914
Fu la macchina costruita a farle comprendere
che avrebbe potuto usarla indipendentemente dal contenuto. L’arte non le bastava
più. E cominciò il suo sodalizio con l’ambiente vociano, un ambiente che frequentava
da associata alla Libreria della voce, da scrittrice sul bollettino
e sulla rivista medesima. Ma per rappresentare a Milano un’anima vociana,
per rendersi credibile a Prezzolini con cui intratteneva rapporti epistolari,
e a cui chiedeva costantemente di collaborare, decise di trasformare casa
propria nella sede delle conferenze dei sacerdoti modernisti malvisti in sedi
ufficiali dopo l’enciclica Pascendi. Malvisti in sedi ufficiali ma molto apprezzati
a quel tempo da Prezzolini stesso e da molti vociai (Boine, Papini, Slataper,
Amendola, Cardarelli), Casciola, e Minocchi in particolare (ma anche Romolo
Murri)
[13] . Cominciò così ad ospitare conferenze di Semeria e Casciola,
e divenne il punto di riferimento di quanti ancora desideravano ascoltare
questi sacerdoti “apostati.
Organizzò conferenze sulle religioni orientali,
sullo spiritualismo e sulle filosofie irrazionaliste: a parteciparvi, oltre
ai “soliti” già citati, anche Fernado Agnoletti, Luigi Ambrosini, Boie, Amendola,
Borgese. Non mancò mai, inoltre, di invitare ripetutamente Alessandro Casati,
non più in veste di giovane intellettuale modernista, questa volta, ma in
quanto principale finanziatore e de «La Voce».
Quando dal 1912 queste sedute cominciarono a farsi frequenti, e i rapporti
con Prezzolini più forti, la vociana decise di osare di più. A queste sedute
partecipava anche Mussolini, che non a caso, proprio nel 1913, con il suo
aiuto fondò «Utopia», rivista del socialismo idealista; la rivista è frutto
della capacità sarfattiana di far incontrare prima in casa propria, e solo
successivamente nelle redazioni delle riviste (spesso anch’esse case private),
i futuri collaboratori del progetto.
Il salotto stava diventando così, anche grazie alla “progettazione” di “«Utopia»,
il luogo in cui Mussolini, grazie alle discussioni teoriche che vi si tenevano,
cominciò a corrispondere all’ideale di uomo vociano che Prezzolini da tempo
andava cercando. L’uomo nuovo, tanto ricercato da Prezzolini su “La Voce”,
fu anche un prodotto della Sarfatti prezzoliniana e della sua influenza su
Mussolini, che presso di lei fece un vero e propri apprendistato culturale,
Fu grazie alle discussioni dentro il salotto Sarfatti, per esempi, che Mussolini
imparò a conoscere, nelle discussioni l’esistenza dei «Cahiers de la quinzaine»,
modello della Voce e di Prezzolini, attraverso l’incontro con Daniel Halevy.
Casa Sarfatti era infatti anche il primo luogo in cui venivano discussi e
presentati i libri che venivano d alei acquistati preso la libreria della
Voce: Il materiale acquistato, come dimostra la presenza di Fingley,
libro dei Tharaud, è tratto dalla Librairie Bellais
[14] , e quindi dall'ambiente gravitante attorno ai Cahiers di
Péguy, probabilmente uno dei legami più forti fra Margherita Sarfatti e «La
Voce»: Péguy, Daniel Halévy, Romain Rolland e Anatole France, che cominciarono
ad entrare, probabilmente solo allora nella sua personale biblioteca, erano
tutti da tempo punti di riferimento del gruppo vociano
[15] . Successivamente alle richieste di libri, infatti, Margherita
Sarfatti, andò a Parigi per la prima volta, conoscendovi Péguy, Halévy, e
tutti i collaboratori dei Cahiers [16] . E loro restituirono la vista, trasformando
ulteriormente la casa in un luogo di scambio e confronto culturale fra Italia
e Francia.
Anche in questo caso, però, la padrona di casa cercava attraverso il salotto
di costruire se stessa, proporre se stessa come una peguyana, un esponente
di quello che Emilio Gentile aveva chiamato italianismo, quel nazionalismo
vociano che vedeva negli intellettuali i veri e soli tramiti far mondo della
politica e società civile. E fece questo non solo perché le pareva di aver
scoperto la propria vocazione politica, ma soprattutto perché aveva sposato
le speranze di Prezzolini su Mussolini. E a beneficio di Mussolini, fino almeno
all’inizio della guerra.
L’ultima metamorfosi avvenne dal 1915, con la versione “Sarfatti interventista”.
Dopo aver scritto un libro di successo La milizia femminile in Francia,
(Rava 1915), in cui inneggiava alle attività sul fronte interno delle donne
francesi, casa sua diventò un vero e proprio focolare del fronte interno.
Non più salotto, ma luogo da cui partivano le attività per gli orti di guerra,
e le altre iniziative del sindaco Caldara, cui collaborava accanto ad altre
donne. Quartier generale della femminilità sul fronte interno, collaborò con
Carla Lavelli Celesia, ma sempre imponendo casa propria per le riunioni. Lo
spazio fisico del salotto in questo caso si allargava all’intera casa, in
cui si raccoglievano materiali e indumenti, ma le discussioni dei comitati
(la sarfatti partecipava a tutti i sottocomitati per gli sfollati) avvenivano,
per volontà della padrona di casa, nel salotto [17]
. Fu la prima volta, probabilmente, in cui il salotto si animò
quasi esclusivamente di donne, ognuna delle quali con un compito legato alle
attività milanesi su fronte interno.
1919 - 1924
Con la fine della guerra tutto cambiò. Ma questa è un’altra storia e riguarda
le vicende fasciste, e quanti come la Sarfatti vi parteciparono.
Ma questa storia successiva riguarda anche un nuovo tipo di salotto, che
meriterebbe una trattazione a sé, e qui per scelta infatti non è trattato.
Poche parole su questa ultima fase è però opportuno spenderle.
Ormai, nel primo dopoguerra, la Sarfatti non aveva più bisogno di autopromozione
mondana, politica e cultuale, perché era già stata “promossa” dalla morte
in guerra di un figlio diciottenne, dalla consacrazione fra i fascisti più
attivi di Milano, e dalla ormai salda attività di giornalista culturale. Accanto
al lavoro di promozione e autopromozione nel settore artistico, che per sua
natura aveva bisogno di un luogo di rappresentanza e contrattazione [18] , il
salotto Sarfatti divenne il luogo di elaborazione teorica del primo fascismo,
una sala riunioni sempre piena, lo studio di un politico, e in molti casi
un secondo ufficio di Mussolini.
Ricordiamo che la donna, nello spazio della casa, non possiede uno “studio”,
com non possiede quais mai un “ufficio”, un’interfaccia con l’esterno (luoghi
simbolico cui varrebbe la pena spendere parole per quanto riguarda invece
le forme del poter maschile, per chi un giorno ne voglia studiare la storia
sociale ); ospitando in casa propria Mussolini, la Sarfatti attribuì al proprio
salotto quindi una nuova funzione, proiettiva di quella del potere maschile
a cui si era affiancata e di cui si era fatta corifea, Mussolini e il suo
fascismo [19] : uno
spazio semipubblco, una “factory “ del fascismo”, il corrispondente femminile
dello studio.
Dopo il 1924
Quando nel 1924 si trasferì Roma, il salotto divenne qualche cos’altro,
una meta di postulanti, un luogo ormai privo di una funzione che non fosse
quella di rappresentanza del fascismo, un salotto buono in cui invitare quanti
necessitavano una raccomandazione, una qualche forma di protezione [20] , o
ancora di più, un luogo in cui si tesseva l’attività diplomatica del regime,
in particolare con interlocutori americani.
Il ruolo del salotto, quindi, cambia ancora, sia rispetto alla stagione
emancipazionista, che a quella del primo fascismo. Tale slittamento di funzione
è tipico dei salotti fascisti: cambia quello della Sarfatti, ma lo stesso
avverrà per altri salotti fascisti (mimì Pecci Blunt, Fernanda Wittgens, per
citare le più note). Il salotto diventa il luogo in cui la salonnière può
esercitare un nuovo tipo di potere, nei confronti del personaggio maschile
e del potere governativo. Ritorna, se vogliamo trovare un modello di riferimento,
ad avere una funzione analoga a quella dei salon sei - settecenteschi, quasi
che la fase intermedia, quella dell’affermazione, e poi dell’emanicipazionismo,
che passa indubbiamente per i salotti, fra otto e novecento, non fosse mai
realmente esistita: il potere sulle masse, e il controllo della “rappresentazione”
del potere vanno così a braccetto, in un gioco un cui il dominio maschile
si sposa con le antiche abilità femminili.
Il salotto Sarfatti, proprio
per questa sua fisionomia, ovviamente tramonta quando la sua proprietaria
smette di avere una funzione all’interno del regime, alla fine degli anni
venti [21] .
Conclusioni
Proporre un ragionamento sui salotti, e sulle salonnière, significa anche,
ovviamente, entrare nella storia del genere, delle contrapposizioni di genere,
della modalità femminili di avvicinamento ad un mondo che fuori dei salotti
era visto come maschile.
Il salotto è uno spazio, fisico e simbolico, e parlo ovviamente per il periodo
che conosco meglio, il primo novecento, in cui la donna protagonista prova
ad esercitare un potere da cui è estromessa all’esterno. Con il fascismo,
come ho anticipato, le forme di questo potere femminile mutano radicalmente.
Ma questo presuppone anche un nuovo angolo di visuale per riparlare di storia
politica delle donne. Non è solo la dimensione della sociabilità, della circolazione
intellettuale, ad emergere, nel primo novecento, ma qualche cosa di più: da
un lato è la persistenza di un luogo che resiste ad un certo tipo di modernità,
quella che vede emergere da una società civile una società politica. Ma proprio
questo testimonia che il salotto, nella storia politica delle donne rappresenta,
e la Sarfatti del primo novecento ne è un esempio (ma anche la Sarfatti successiva),
lo spazio politico e di manovra che le donne si ritagliano allo scopo di
intervenire ed essere protagoniste nella sfera del potere. Un modo, se vogliamo
di entrare da un altra porta, nei luoghi in cui le decisioni vengono prese.
Proprio perchè la storia politica delle donne è ancora un oggetto troppo poco
presente in chi studia le dinamiche dei rapporti fra i sessi, sotto questa
nuova chiave interpretativa il salotto diventa il sostituto dei diritti negati,
oltre ad essere il luogo di elaborazione (è il caso del salotto Majno, per
esempio [22] ) per condurre una battaglia in nome
di quei diritti negati. In altri casi, tocca un altro tasto della storia politica
delle donne, il rapporto con il potere, il conflitto tra i sessi, il rapporto
tra morale e potere; il cammino delle donne ha dovuto percorrere dopo la già
studiata ed esemplare, in questo senso, questione dell’emanicipazionismo,
un impervio tragitto nella storia politica. E credo che questo sia un tema
su cui la riflessione storiografica ancora non è matura.
Simona Urso
[1] Cfr. Su questo Maria Teresa Mori, Salotti: la sociabilità delle élite nell'Italia dell'Ottocento;
prefazione di Marco Meriggi, Roma, Carocci, 2000; Marc Fumaroli, Il
salotto, l'accademia, la lingua : tre istituzioni letterarie, traduzione di Margherita Botti, Milano, Adelphi, 2001;
Daniela Pizzagalli, L'
amica: Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento italiano, Milano, Mondadori, 1997 ; Verena von der Heyden-Rynsch, I salotti d'Europa, Milano,
Garzanti, 1996 ; Anna Maria Verna,
Donne del Grand Siècle, Milano, Franco Angeli, 1994; Benedetta Craveri, La civilta della conversazione, Milano, Adelphi, 2001; Benedetta Craveri, Madame du Deffand e il suo mondo; con un saggio di Marc Fumaroli , Milano, Adelphi,
2001; Marie de Sevignè, Alla
figlia lontana, Lettere 1671-1690,
a cura di Maria Schiavo, , Roma, Editori Riuniti, 1993; Hannah Arendt, Rahel
Varnhagen: storia di una ebrea; a cura di Lea Ritter Santini, Milano, Il Saggiatore, 1988; Dal salotto al partito. Scrittrici tedesche tra rivoluzione
borghese e diritto di voto, a cura di Lia Secci , Roma, Savelli, 1982; Carteggio
Tenca-Maffei a cura di Lina Jannuzzi,
Milano, Ceschina, 1973; Giovanni Visconti Venosta, Ricordi
di gioventù; pagine scelte, a cura
di Bianca Vita, Torino, G. B. Paravia, 1967 ; Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei nuova ed., Milano, Garzanti; (1895, 1°), 1944 ; Olimpia
Savio, Memorie della baronessa Olimpia Savio, a cura di Raffaello Ricci, Milano, Treves, 1911.
[3] La politica per i socialisti veneziani non è cosa facile,
soprattutto perché il gruppo cittadino è ristretto ed avulso dalla realtà
sociale delle campagne. Ed è arduo per la coppia Sarfatti imporsi politicamente
in un ambiente ristretto in cui sono presenti altri due leader, Carlo Monticelli
ed Elia Musatti. Nonostante il lavoro fatto insieme per ricostruire la Federazione,
nel 1900, dopo i due anni di illegalità, e la creazione del "Secolo Nuovo",
giornale socialista veneziano, le differenze tra Cesare Sarfatti e i due compagni
vanno aumentando. Determinante, forse, è la scelta riformista di Cesare,
in contrasto con gli orientamenti rivoluzionari di Musatti (Sulla situazione
politica dei socialisti veneziani cfr. E. Franzina, Venezia, Bari,
Laterza, 1986, pp.311-313).
Su Elia Musatti,
cfr. ancora Franzina, Venezia, cit., p.312-15 e DBMOI ad nomen.
Il riformismo di Cesare, di cui nel 1900-1901 non si ha chiaro l'orientamento
( favorisce, il 14 novembre 1900, la nascita del giornale anarchico anconetano
"L'Agitazione") è però un dato certo nel 1904: "La sera del
19-4-1904 presiedette l'Assemblea generale dei gruppi socialisti autonomi
riformisti."; dal Casellario Politico Centrale, Sarfatti Cesare.
[14]
Charles Péguy apre nel 1898 una libreria socialista,
la librairie Bellais, che gli serve per raccogliere autori come Rolland,
Sorel, i Tharaud, Jaures, France. I Cahiers nascono invece nel 1900 e finiscono
nel 1914 (Péguy muore l'anno dopo nella battaglia della Marna). All'inizio
erano solo un bollettino socialista, ma col tempo furono uno strumento monografico
per ognuno degli autori citati, e per altri, che vi avevano la massima libertà
di espressione. Già nel 1910 la sua riflessione religiosa è matura (scrive
Le mystere de la charitè de Jeanne D'Arc) e diventa così un poeta cristiano
di rilievo. Su di lui cfr., J. Bastaire, Socialismo e cristianesimo in
Charles Péguy, in appendice a Péguy, L'anarchia politica, traduzione
introduzione e note a cura di A. Prontera, Roma, Edizioni Logos, 1978, p.
140; Péguy vivant, Atti dell'omonimo convegno, Lecce, Micella, 1978;
fra i testi in lingua francese che ci sono stati utili cfr. B. Guyon, Péguy,
Paris, Hatier, 1960; J. Bastare, Péguy l'insurgé, Payot, 1975;
svariati riferimenti a Péguy vengono fatti anche in. E. Lipianski, L'identité
française. Representations, mythes, idéologies, Paris, 1991 (ad nomen);
R. Girardet, Le nationalisme français. Antologie (1871 - 1983), Paris,
1983, (ad nomen). Da segnalare è l'interpretazione che di Péguy fornisce
Leonardo la Puma, (L'opera di Charles Péguy, in "Studi Storici",
cit), definendo Péguy ultimo testimone del repubblicanesimo mistico - religioso
che, tra i diversi filoni del socialismo, sembra essere stata la corrente
perdente. Una tradizione che secondo La Puma ha attraversato il 19° secolo
da Mazzini a Pierre Leroux attraverso Fourier, S. Simon, Proudhon, Blanc,
Jaures, dal quale attinse Péguy. Una tradizione interrotta, così come Gramsci
si riallaccia a Mazzini. Sempre di L. La Puma si segnala Il socialismo
sconfitto: saggio sul pensiero politico di Pierre Leroux e Giuseppe Mazzini,
Milano, Franco Angeli, 1984.
[15]
Cfr. G. Prezzolini, Diario, 1900- 1941, Milano,
Rusconi, 1978, p. 131. Péguy è anche argomento per un articolo di Cardarelli
sulla '"Voce" (Charles Péguy, 7 settembre 1911), che sulla
rivista suscita polemiche per l'impreparazione di Cardarelli sull'argomento.
Ma sui Cahiers e su Péguy compariranno ne La Voce due articoli di Prezzolini,
I cahiers del a Quinzaine, 4 agosto 1910; id, Charles Péguy,
15 marzo 1915.
[16]
Sempre a Parigi Margherita incontra Ricciotto Canudo,
D'Annunzio, Diego Rivera e Valentine De Saint Point. Cfr. veda anche lettera
a Prezzolini del 3 giugno 1913: "Sono tornata da pochi giorni da Londra
e Parigi...", e del 5 maggio 1913 (da Londra): "...vidi però lo
stesso il Péguy, lo rivedrò al mio ritorno a Parigi...". Archivio Giuseppe
Prezzolini, Lugano, b. sarfatti Margherita.
[18]
Lo racconta Leonardo Dudreville (in R. Bossaglia, Il
Novecento italiano, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 68 ): “ [...]in quel
tempo io frequentava casa Sarfatti che era il circolo intellettuale più importante
della città (... ) in quel tempo il salotto Sarfatti era frequentatissimo.
Fra i tanti Tosi Salietti non mancavano mani”.
[19]
“Negli anni infuocati alla fine della guerra, i ricevimenti
settimanale di Margherita Sarfatti, con l’avvicendarsi di persone personaggi
d’ogni provenienza, di celebrità politici canti e di nullità insuccesso transitorio,
di artisti pubblici mondani....” N. Podenzani, Il libro di Ada Negri,
Ceschina, Firenze, 1969, pag. 138.
[20]
Anche la protezione degli scrittori invisi al potere
rientra in questa dinamica, come dimostra questo ricordo di Corrado Alvaro
(C. Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Milano, Mondadori,
2^, 1951, p. 58): “La signora Sarfatti mi dice: - avrei piacere di rivederla.
Io ricevo tutti i venerdì.- E s’avviò di là con il suo passo generale. La
signora Sarfatti è temuta e corteggiata. Nelle mie condizioni, osservato,
tenuto il sospetto, capisco che mi offre un’ancora di salvezza, forse senza
saperlo, perla sua naturale curiosità di incontri, per il suo eclettismo culturale.
Basta che mi vedano in casa sua. Non si spiegheranno né il come né il perché.”
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Ringraziamo Simona Urso, storica e tra le maggiori
esperte di Margherita Sarfatti (a cui ha dedicato
una fondamentale monografia), per la concessione di
questo saggio. |
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