Ghiorgos
Seferis
Ghiorgos Seferis
Seferis
nacque a Smirne nel 1900 (morì a Atene nel 1971; il suo
vero nome era Ghiorgos Seferiadis), figlio di un insigne giu rista
e letterato, compì i suoi studi universitari in legge a
Pa rigi, mentre in Grecia, dopo la catastrofe del 1922 e l'esodo
forzato dei greci alle sponde dell'asia anatolica con relativi
massacri, cadeva il mito di una grande Ellade. L'evento incise
profondamente in lui e avrebbe in seguito orientato la sua poeti
ca verso i temi dell'esilio e delle grandi civiltà incenerite.
Nel 1926 entrò in diplomazia, nel 1941 seguì il
governo greco in esilio al Cairo. Dopo la guerra fu capo di gabinetto
del reggente Damaskinos, fu poi ad Ankara Beirut e London. Nel
1963 ebbe il nobel ("for
his eminent lyrical writing, inspired by a deep feeling for the
Hellenic world of culture").
Le prime raccolte di poesie La svolta (1931)
e La cisterna (1932) lo posero alla testa del movimento innovativo
in corso nella poesia neogreca. Volle ispirarsi ai classici, ma
recepì anche gli influssi dei poeti inglesi e francesi
come Valéry e Thomas S. Eliot, e volse la sua attenzione
anche a contemporanei co me Kavafis. La traduzione della poesia
di Eliot lo aiutò nella definitiva scoperta di sé.
Convinto che l'abisso sarà sempre un pozzo senza fondo,
scrisse tuttavia sull'utilità della poesia. Nella sua opera
la desolazione della Grecia diventa simbolo e me tafora di una
desolazione più vasta che riguarda la società con
temporanea: Leggenda (1935), Gimnopedia (1936). La disperazione
è accompagnata da un fermo impegno morale, così
come il paesaggio greco pietrificato riceve il soffio del mare,
il suo ritmo largo e vitale. Cantò «il gelsomino» che «resta
bianco» anche se annotta. In questa ellenicità demistificata
e inserita in una patetica cosmologia della durata e del dolore
sta il fascino di Seferis. Si veda Quaderni d'esercizi (1940),
Giornale di bordo (1940 e 1944) dove la forza speculativa si fa
ancor più circostanziata inglobando in una perenne attualità
temi di eredità antica.
In "Chi solleva i macigni cola a picco" scrisse
contro la dittatura: «questi macigni alzai fin che potei | questi
macigni amai fin che potei». Nelle sue poesie, secondo una caratteristica
co mune a gran parte della produzione poetica del secolo, piccoli
avvenimenti quotidiani diventano spunti di pensiero esistenziale.
Così nella lirica "Intermezzo di gioia": «Siamo stati pieni
di gioia tutta quella mattinata, | Dio mio, che gioia. | Prima
luccicavano le pietre, le fo glie, i fiori e poi il sole, | un
sole enorme tutto spine, così alto nel cielo. | Una ninfa
coglieva le nostre angosce e le appendeva agli alberi, | un bosco
d'alberi di Giuda. | E satiri, e amorini ruzzavano, cantavano,
| traducevano mem- bra rosate tra gli allori | bruni, carni di
bimbi. | Siamo stati pieni di gioia per tutta la mattina: | era
l'abisso di un pozzo sigillato | e vi batteva il gracile piede
di un fauno imberbe: | ricordi il suo riso? che gioia! | Poi nubi,
pioggia, e la terra bagnata. | Tu non hai più riso quando
nella capanna | hai spalancato i tuoi grandi occhi, guardan- do
| l'arcangelo esercitarsi con la sciabola di fuoco - | "E' un
mistero" dicevi "un mistero: | io non capisco gli uo mini: | per
quanto si divertano | con i colori, sono tutti neri"». Altrove,
sono frammenti di realtà, gesti rubati in cui quotidianità
e mito acquistano i sensi di una evocatività simbolica.
Gli ultimi versi di "Mattia Pascal fra le rose": «Sua zia diceva:
"Antigone, oggi ti sei scordata la gin nastica. | Ai miei tempi,
io non portavo il busto alla tua età". | Era un povero
corpo con le vene rilevate | e tante rughe attorno alle orecchie
e un naso morituro, | pure le sue parole erano sempre piene di
saggezza. | Un giorno la vidi toccare il petto d'Antigone | come
il bambino che ruba una mela».
Poesia tra le due guerre
[1997]
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