Storia della letteratura europea - Torna in homepageGiovanni Pico da Mirandola


Giovanni Pico da Mirandola


Giovanni Pico era nato a Mirandola [Modena] nel 1463. Morì a Firenze nel 1494. Conte, signore di Mirandola e Concordia, compì gli studi a Ferrara Bologna Pavia Padova, stringendo amicizia con Beroaldo il Vecchio. Studiò le lingue e il pensiero ebraico e arabo. Divenne famoso come 'enfant prodige' grazie alla sua enorme capacità di memoria. Si stabilì a Firenze dove, in buoni rapporti con Lorenzo Medici, si interessò di poesia, platonismo ficiniano, fino alla scoperta dei libri cabbalistici che lo portarono a una visione del mondo fondata sul rapporto mistero- rivelazione. Nel corso del 1486 pensò di radunare a Roma, a sue spese, un concilio di dotti impegnati a discutere la possibilità di una mediazione tra le varie scuole filosofiche e religiose. A questo fine pubblicò una serie di tesi, le Conclusioni (Conclusiones, 1486), che dovevano servire da discussione per il convegno. Lo scritto fu condannato dalla chiesa cattolica. Pico si difese con una Apologia. Fu incarcerato, per breve tempo, in Francia, dove aveva cercato rifugio. Tornato a Firenze nel 1488, subì intensamente l'influsso di Savonarola, che aveva forse conosciuto a Ferrara nel 1479. Pico scrisse mediocri Sonetti, stampati in parte nel 1494, in latino e toscano. Della sua produzione strettamente letteraria restano questi 45 sonetti: Pico pare bruciò la sua produzione di liriche amorose di cui aveva raccolto cinque libri, dopo la conversione religiosa, nel 1489. Ciò che è rimasto lo si deve al codice 1543 conservato alla Bibliothèque Nationale di Paris (che contiene anche le "Stanze" di Poliziano). Nei sonetti Pico si mostra più attento all'arte che all'ispirazione. Sono liriche impastate di filosofia e religione, un contrappunto di forme e vocaboli. L'amore è dolore, rovina, pena. Pico si mostra un Petrarca incupito, un precettore perentorio e pessimista: «Cosa ferma non è sotto la luna [...] Felice è chi de vita è spento in cuna [...] Non sai che passerem qual fumo et umbra?». «Se Amor è alato come el è dipincto, | perché in me fermo, lento, sede e giace? | [...] Se volar può, che fa del suo cavallo?». Molto usato l'ossimoro, come nell'incipit del sonetto 5: «Amor, focoso giacio e fredda face; | Amor, mal dilectoso e dolce affanno; Amor, pena suave et util danno [...]». Quello di Pico è uno stile aspro, con inserzioni provenienti dalla fonetica dell'Emialia e della Lombardia, omaggi al latino e al toscano aretino del XIV secolo. Pico dirà più tardi a Lorenzo Medici che Petrarca è un virtuoso che non soddisfa a lungo, mentre Alighieri è sulle prime sgradevole ma poi vitale e succoso. Pico in poesia si trova «fuor del sentero», e in effetti le sue cose migliori sono fuori dalla letteratura. Soprattutto importanti di Pico sono i saggi filosofici. L'Orazione sulla dignità dell'uomo (Oratio de hominis dignitate, 1486), edita nei due volumi delle opere curati dal nipote Giovanni Francesco nel 1496. L'Heptaplus (1489) è un commento alla Genesi in chiave allegorico- caballistica. L'ente e uno (De ente et uno, 1492). Le Dispute contro l'astrologia divinatoria (Disputationes adversus astrologiam divinatricem, 1494). Tema centrale del pensiero pichiano è l'esaltazione dell'uomo, della sua capacità e libertà di partecipare sia alla natura inferiore animale che a quella superiore divina: posizione di privilegio che lo fa essere "microcosmo" rispecchiante l'infinità e complessità del "macrocosmo". Pico tuttavia non è riducibile solo a questo. Fu un pensatore complesso, preoccupato di evitare contrapposizioni frontali e scolastiche tra aristotelismo e platonismo. Si fece portatore, all'interno del circolo di Ficino, di una inquietudine nuova e di un ardore mistico-culturale anticipatori di alcuni aspetti del pensiero del XVI secolo. Giovanni Francesco, il nipote di Giovanni, era un savonarolaiano, e scrisse sul celebre zio una "Vita".


L'umanesimo nel XV secolo

[1997]

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