Storia della letteratura europea - Torna in homepageRuzante


Ruzante


Ruzante o Ruzzante era il pseudonimo di Angelo Beolco. Nacque a Padova nel c.1496, figlio illegittimo, pare, di un ricco medico. Visse per lo più a Padova, ma lavorò soprattutto nella campagna dove si occupava della amministrazione dei beni paterni e di quelli di un suo amico e protettore, Alvise Cornaro. Fu alla corte di quest'ultimo che Ruzante scoprì il suo talento: prima improvvisato attore, poi scrivendo opere teatrali di carattere rusticano, comico-farsesca. Per quel che sappiamo condusse una vita sufficentemente agiata, mantenne buoni rapporti con i parenti. Quando morì, nel 1542, la sua fama era già arrivata a Venezia, dove le sue recite furono ricordate da Marin Sanudo. Ruzante scrisse principalmente in dialetto pavano, ma all'interno delle sue opere ogni personaggio parla e usa il linguaggio dello strato sociale cui appartiene. Le prime opere giovanili di teatro sono la Pastorale (Pastoral, 1518 o 1520) che introduce nell'aura languida dell'Arcadia le oscene e parodistiche difformità del contadino; con La Betìa (1524-5) inizia la caratterizzazione del personaggio contadino Ruzante e del suo mondo, contrapposto a quello classico greco-latino così come si estetizzava nella cultura dotta del tempo. Traduce anche in chiave giullaresca e parodistica il dibattito platonizzante sulla natura dell'amore. "La Betìa" è in cinque atti, in versi. La scena è in campagna, i personaggi sono tutti contadini. Zilio, un bracciante. desidera pazzamente la giovane Betìa figlia di Donna Menega. Ne parla con gli amici Nale, Barba Scatti e Bazzarello. Nale, dopo aver consigliato Zilio sul modo di sedurre la ragazza, se ne incapriccia anche lui. Fà così capire a Betìa che potrebbe avere due uomini. Betìa si convince a fuggire di casa, ma viene sorpresa dalla madre. La rissa è sedata dall'oste Tacio. Sono fatte pompose nozze rustiche per Zilio e Betìa, ma quando Zilio si accorge delle intenzioni di Nale, tenta di ucciderlo. La moglie di Nale, Tamia, lo crede morto. Ne derivano una serie di equivoci. Tutto si risolve con la decisione delle due coppie di avere tutto in comune, mariti e mogli comprese. Allo stesso periodo appartengono la Prima orazione (1521) e la Lettera giocosa (1522). Tono più grave e grottesco hanno le quattro successive opere di teatro. Si tratta di due atti unici, conosciuti con il titolo di "Dialoghi": Parlamento e Bilora (1528-9); il Dialogo facetissimo. In questi Ruzante accentua i temi della fame, della schiavitù sessuale e dell'ostilità cittadina: nel secondo dialogo arriva allo sbocco estremo del delitto. In cinque atti è invece La Moscheta (1529), in prosa. Qui sono presenti motivi tipici del repertorio del secolo: temi boccacceschi, giochi d'inganni amorosi, beffe, travestimenti. Protagonisti sono i contadini inurbati a Padova e non più ricacciati dalla città. Il contadino Menato si strugge per la sua comare Betìa, contadina anche lei, che è andata a vivere a Padova con il marito, Ruzante, e rompendo la relazione con lui. Cerca invano di riconquistarla. Menato allora convince Ruzante a presentarsi travestito alla moglie, parlando un linguaggio più raffinato ("moscheto", di qui il titolo) per metterne alla prova la fedeltà. Betìa si accorge dell'inganno, si vendica dandosi a Tonin, un soldato bergamasco che la corteggia da tempo. Menato e Ruzante vanno a riprenderla in casa di Tonin. Mentre Rusante, impaurito, si nasconde, Menato bastona Tonin e riporta Betìa a Ruzante, imponendosi con l'astuzia e la forza sia al marito sia all'amante. Dello stesso periodo della carestia e delle guerre e la Seconda orazione. Più tarde invece La Fiorina (1531-2), La Piovana (1532), e la Vaccaria (1533). Le due ultime sono rifacimenti plautini, a testimoniare la volontà di promozione classicista della drammaturgia dialettale matura. Vi si intravede la possibilità di integrazione pacifica dei due mondi, quello classicista e quello dialettale, con la riduzione del villano a servo moraleggiante. Del 1536 è l'importante Lettera (Littera) all'amico Alvarotto, in cui Ruzante espresse, nella finzione di una visione in sogno, l'aspirazione a un edonismo naturale, ed elaborò il suo mito vitalistico dell'«allegrezza», la sua «madona Legracion». Di difficile datazione è l'Anconitana (1522-34). Scrisse anche un Sonetto, unico componimento di questo genere che possediamo, e delle Canzoni.


Ruzante fu molto famoso nella sua regione, sia in vita che poco dopo la morte; poi, se ne perse il ricordo. Nella storia della critica, la sua immagine è stata a lungo ancorata allo stereotipo romanticista del balordo emarginato, dello scrittore irregolare e geniale. I primi studiosi accentuarono il legame dialettale con la tradizione regio- nale, parlarono per lui di letteratura popolare. Successivamente si è valorizzata la rusticità espressiva di Ruzante come risultato non di una condizione esistenziale o di una cultura periferica, ma della sua poetica della «naturalità» coscientemente perseguita e polemicamente ribadita in senso antinormativo e anti-classicistico.



[1997]

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