Aurelio De' Giorgi Bertòla
di Antonio Montanari
Ricorda Cantimori che "il nostro abate Amaduzzi, amico
dei livornesi rieditori dell'Enciclopedia", fin dal 1774
aveva preveduto "fatti strepitosi che avrebbero trasformato
tutto il sistema d'Europa" [1]. Due anni avanti la bufera
dell'89, Aurelio De' Giorgi Bertòla pubblicava La Filosofia
della Storia, un trattato noioso e pedante, in cui spiegava
che i governi del tempo avrebbero potuto mantenere "per
un giro di secoli" la loro forza e prosperità,
perché ormai le "rivoluzioni ordinarie" erano
"assai più rare, gagliarde assai meno".
Come attestano anche le lezioni di Storia tenute a Napoli
ed a Pavia tra '81 ed '86, Bertòla credeva, al pari
di Amaduzzi, in un riformismo capace di garantire all'Europa
un tranquillo sviluppo sociale ed economico. Rispetto ad Amaduzzi,
Bertòla mancava di uno studio disciplinato che gli
offrisse consapevolezza delle tensioni esistenti nella vita
politica del loro tempo, quando "un soffio di rinnovamento
percorre il vecchio continente" [2]. Bertòla ha
assorbito le proprie idee più dalle assidue ed estenuanti
frequentazioni salottiere, che dall'analisi delle vicende
degli ultimi quattro secoli: egli infatti non tratta mai analiticamente
del periodo [3] che va dalla rivolta dei Paesi Bassi (1566-81)
alla Dichiarazione d'Indipendenza americana (1776).
La sua formazione era tutta intessuta di eruditi rimandi alla
classicità, secondo l'educazione ricevuta prima nel
seminario di Todi, dove dalla natìa Rimini nel '63
(a dieci anni) fu collocato per le scarse risorse economiche
famigliari; poi presso il vescovo della stessa città
di Todi, mons. Francesco Pasini, suo congiunto. A quindici
anni è stato mandato in monastero, a diciassette (dopo
un anno di noviziato a Bologna a San Michele in Bosco) ha
pronunciato i voti da Olivetano, costretto dalla prepotenza
del fratellastro Cesare, e senza che vi si potesse opporre
la madre che più tardi invano si sarebbe pentita del
proprio agire. E' stato quindi a Milano, e nel '72 è
tornato a Rimini. Innamoratosi di una giovane corteggiata
già quattro anni prima, è scappato dal monastero,
e si è arruolato in Ungheria; qui non ha retto alle
fatiche della vita militare, per cui è rientrato a
Rimini da dove è stato mandato a Siena come Lettore
di Italiano.
La sua vera vocazione era la poesia, sin dagli albori dell'adolescenza.
Dopo le precoci prove di traduzione dal tedesco a tredici
anni, Bertòla debutta con plauso universale nel '74,
componendo la prima delle tre Notti Clementine, grazie alla
quale stringe amicizia con Amaduzzi [4]. Questi canti a ricordo
di papa Ganganelli (completati nel '75), descrivono in modo
quasi impercettibile il maturarsi del suo gusto letterario:
abbandonato il modello allora in voga di Edward Young (invocato
nella prima Notte come musa e testimone della novità
italiana di quest'opera), egli ripropone senza clamore gli
esempi più severi della nostra grande tradizione. Accanto
ad un marcato interesse verso la poesia civile di stampo pariniano,
Bertòla manifesta uno spirito dantesco che, tra l'altro,
lo porta a chiudere la triade con l'immagine dei "chiari
più dell'usato" raggi del sole, in opposizione
alla lugubre scena che l'aveva introdotta [5]. È un'esperienza
che resta sterile. Appena riscossi i plausi per questa poesia
sacra, sùbito Bertòla si getta a comporre il
libretto erotico di Versi e Prose (1776), che gli darà
fama duratura e che, per un abbaglio carducciano, sarà
considerato non il frutto elegante di ardori giovanili, ma
il tardivo "sdrucciolare nell'oscenità velata
o aperta" [6].
Dal '76 all'83, mentre insegna Storia e Geografia all'Accademia
navale di Napoli, Bertòla intreccia "fortunati
amori" con le belle dame della corte di Ferdinando IV
e Maria Carolina: lui "rozzo e scioperato" sempre
"in compagnie di lazzaroni e di donnacce" [7]; lei,
figlia di Maria Teresa d'Austria e futura sanfedista, era
invece "colta, parlava più lingue, sapeva di filosofia,
accennava perfino a riforme sociali e frequentava la massoneria,
vezzo quest'ultimo di gran moda tra gli intellettuali dell'epoca"
[8]. Nel '77 Bertòla s'ammala gravemente "di petto",
e confessa di essere un "solitario infelice" vicino
alla morte. L'anno dopo vorrebbe cambiar vita: ammogliarsi,
o tutt'al più lasciare il chiostro ed andare a Malta,
nella Cappelleria reale. "Fissatevi una buona volta seriamente",
gli scrive Amaduzzi il quale svolge nei suoi confronti il
ruolo di consigliere spirituale (tanto ricercato per quanto
inascoltato), che gli deriva dall'essere più anziano
di tredici anni.
Nel '79, anno in cui pubblica le Poesie campestri e marittime,
confida ad Amaduzzi: "Oggi sono in uno stato, che mi
nuoce esser poeta" [9]. Sa che la nuova cultura richiede
dagli intellettuali un impegno diverso dal produrre versi
encomiastici o d'amore. Ma questa convinzione nasce soprattutto
da una variabilità di umori, dimostrata da Bertòla
in ogni atto della sua vita, e dovuta forse alla solitudine
che lo ha segnato fin dalla forzata monacazione [10]. Egli
cerca di reagirvi ribellandosi a regole e convenzioni, in
nome di una natura roussonianamente buona che tutto fa lecito.
Le necessità pratiche lo costringono a sottostare con
molte difficoltà ai galatei mondani ed alle convenienze
pratiche.
Nell'83 torna a Rimini oppresso dai debiti con la Camera Regia
Napoletana. Ad Amaduzzi si confessa "dissipato"
da quella voluttà di cui si era fatto banditore con
Versi e Prose teorizzando: "Siamo nati per i piaceri;
ad essi mirano indistintamente tutte le nostre azioni"
[11]. Rinuncia all'idea di chiedere l'annullamento dei voti,
dopo aver constatato i costi economici e le difficoltà
burocratiche da affrontare. Si accontenta della licenza di
poter vestire l'abito di prete secolare. Abbandona così
quel lungo mantello bianco che tanto fascino aveva esercitato
sulle sue infinite amanti [12], le quali concordano anche
su un altro punto, quando all'unisono lo definiscono "volubile".
Il suo naturale lo portava a vedere il trionfo della felicità
nell'appagamento continuo ed immediato dei sensi. Egli non
sa trovare accenti diversi neppure per la veronese Elisa Contarini
in Mosconi (che nell'85 gli dà una figlia, Lauretta):
con lei, si era fatto pedagogo mostrandole filosoficamente
nell'eros l'unica via di salvazione. Lei non dovette faticare
molto a percorrerla, come allieva diligente di così
insinuante maestro che sentenziava: "Pensa che tutta
è pene / La vita e che un sol bene / Se togli Amor,
non ha".
Nell'83 Bertòla scappa per nove mesi a Vienna, dove
è Nunzio apostolico il riminese monsignor Giuseppe
Garampi che ottiene per lui l'insegnamento di Storia all'ateneo
di Pavia, e che teme per la sua inquietudine: se non cambierà,
"si rovinerà per sempre anche presso di quegli,
che di più sono stati gli autori dell'odierna sua collocazione,
non che presso il Pubblico" [13]. Vienna, agli occhi
di Bertòla, rappresenta il simbolo della cultura tedesca
alla quale guarda da sempre con un'attenzione speciale: nel
'77 ha tradotto gli Idilli dello zurighese Salomone Gessner,
due anni dopo ha licenziato l'Idea della poesia alemanna,
ampliata nell'Idea della bella letteratura alemanna ('84).
La penna di Bertòla è instancabile e miete allori:
nell'83 compone le Favole, nell'85 le Lettere campestri e
nell'89 un Elogio di Gessner, per limitarci alle opere più
importanti [14]. Le lezioni all'ateneo pavese assorbono molto
del suo tempo. La Mosconi se lo immagina all'università,
"con quella lunga toga e quel collare, in aria di gravità
leggere posatamente con (non sonora) ma piccolina voce"
i fogli preparati con grande cura: "oh poverino! con
quel musetto da baci tanto carino, farai ridere a parlar di
cose sì gravi". Oppure se lo figura "coll'orologio
alla mano, misurare le pagine co' minuti", per occupare
giustamente lo spazio di un'ora: "Oh ti potessi vedere
con quell'abigliamento grave con cui ti porti alla tua bottega!
vorrei darti tanti e poi tanti baci, finché giungessi
a farti perdere la tua magistrale gravità: quanto allora
con quell'aria soave e passionata, ch'è proprio caratteristica
dell'incantatrice tua fisionomia, faresti più colpo
sull'animo stesso de' tuoi scolari! Infelici! non ti conoscono
nel tuo vero punto, e non vi è che la tua B[etti]na
che potesse a' loro occhi svelare tutte le grazie del tuo
volto! Povero B[ertòla]! quante fatiche, quante seccature!
rifuse ['contestate', n.d.r.] ancora le tue lezioni? mi fai
compassione, ma godo nello stesso tempo della gloria che tu
acquisti" [15].
L'attività letteraria di Bertòla comprende anche
le Osservazioni sopra Metastasio ('84), il Saggio sopra la
favola ('88) ed il Saggio sopra la grazia nelle lettere e
nelle arti [16].
Per acquistare "forza alla salute e lumi pel suo spirito",
come spiega la Mosconi, Bertòla viaggia di continuo.
In Svizzera conosce Gessner, con cui ha un incontro strano:
si finge un amico che ne portava i saluti. Sembra di rivivere
l'episodio di Tasso che si presentò sotto mentite spoglie
alla sorella, annunziandole la propria morte. Alla Mosconi,
nel leggere una biografia dell'autore della Gerusalemme, è
parso "di trovare tanti tratti di rassomiglianza"
in comune con il poeta riminese. Non aveva torto, così
come non sbagliava a rimproverare all'amante una "naturale
ferocia" [17], interpretabile come risvolto di un narcisismo
che, traslato dalla letteratura alla vita, faceva dell'Io
il supremo regolatore di ogni rapporto sociale.
All'atto di partire da Verona per Vienna nel luglio '83, Elisa
Mosconi lo ha fornito di una commendatizia per un amico: "Vous
n'entenderez jamais un Poëte le plus gracieux, spirituel,
tendre ed délicat. [
] La tournure de son ame
est faite exprés pour aducir les curs les plus
féroces. [
] C'est un veritabile aimant qui s'attire
par ses talents, par les graces de sa figure et de sa société
l'estime, l'admiration et l'affection des hommes et des femmes
ensemble". Tenero e delicato, il nostro abate alla Pontebba,
vicino a Tarvisio, abusa di una tredicenne presso i cui parenti
è ospite [18].
Il pellegrinare è per Bertòla la metafora esistenziale
di una continua fuga da sé stesso, alla ricerca di
un ubi consistam più illusorio per lui di un giuramento
d'amore. E proprio da un itinerario percorso nell'87 in Svizzera
e Germania, nasce lentamente il suo capolavoro, il Viaggio
sul Reno e ne' suoi contorni. Su ogni tappa invia una relazione
alla contessa cesenate Orintia Romagnoli in Sacrati, un'amica
più giovane di lui di nove anni: sono pagine che appaiono
nel '90 sulla Biblioteca fisica d'Europa, e che formeranno
il volume pubblicato a Rimini nel '95 con dedica alla stessa
Orintia [19]. Sarà un successo in tutt'Europa, soprattutto
presso le nuove generazioni : "per temi e moduli di prosa
poetica", il Viaggio sul Reno diviene "uno dei testi
fondamentali dell'ultimo Settecento italiano"; esso esalta
la dolce, soave malinconia "in una direzione di blando
e raffinato preromanticismo" [20].
Nel novembre '93 proprio a Verona, mentre è ospite
della Mosconi divenuta semplice testimone di una passione
archiviata per sempre, Bertòla avverte i primi sintomi
della malattia che lentamente lo stacca dall'attività
docente. Per tutto il '94 non può lasciare Rimini,
e cura i restauri al "nido" di San Lorenzo in Monte,
cioè il casino di campagna sulle colline della città,
acquistato in marzo grazie all'aiuto economico di Orintia.
Nell'estate '95 si allontana soltanto recandosi "a Venezia
per consultare que' Professori nel timore di patir di renella":
non era quello il vero male che lo molestava, ironizza Pindemonte
che accenna alla passione dell'amico verso Isabella Teotochi
[21].
Tornato "in patria" il 29 ottobre, Bertòla
chiede alla Conferenza Governativa di Milano un'altra licenza
a passar l'inverno lungi da Pavia, con un certificato medico
il quale attesta che il poeta non avrebbe potuto applicarsi
senza grave danno "e nemmeno affacciarsi a un clima più
rigoroso". Lo stesso giorno Bertòla implora "pietà"
dal plenipotenziario imperiale conte Johann Joseph Wilczeck:
"Son presso a vedermi nella mendicità". Per
timore della giubilazione, già ordinata dalla Conferenza
Governativa, chiede un impiego diverso dalla Cattedra, ricordando
che quanto percepiva non gli bastava "a vivere":
"Oltre alla salute", aggiunge, "potrei accennare
altri titoli; i servizi in biblioteca senza soldo, il servizio
prestato con somma cura nelle Scuole Minori, e le diverse
opere pubblicate ecc." [22].
Nelle carte bertoliane c'è un silenzio che dal 29 ottobre
'95 giunge al 14 maggio '96, data di un'altra lettera di Pindemonte
[23], nella quale leggiamo che al riminese era stata tolta
la pensione dell'Università. L'11 ottobre '96 Bertòla
riprende a compilare un Diario inedito [24] in cui registra,
oltre agli spostamenti di luogo ed alle spese sostenute, anche
le lettere spedite, con il nome del destinatario e, quasi
sempre, un brevissimo sunto di ogni epistola. Queste poche
pagine, sempre trascurate per la loro schematicità
ed il nullo valore letterario, hanno un grande significato
biografico.
Il 21 ottobre egli parte in diligenza da Rimini e fa tappa
ad Imola. Il giorno seguente raggiunge Bologna, dove si ammala
e rimane fino al 2 dicembre. A molti dei suoi corrispondenti
Bertòla lascia credere di aver abbandonato Rimini per
recarsi a Pavia, allo scopo di ottenere nuovamente la pensione
e di riscuoterne gli arretrati. La verità è
un'altra. Nel Diario del 1° novembre leggiamo: "non
potea più restare in patria; né poi maneggiarmi:
venuto qui [a Bologna, n.d.r.] per poi passare a Firenze a
passare il verno". Nel progetto di Bertòla, la
Firenze governata da Ferdinando III di Lorena (fratello dell'imperatore
d'Austria Francesco II), doveva essere soltanto una tappa
intermedia di un viaggio da concludere a Vienna. Egli cercava
di sottrarsi al clima politico creatosi all'interno dello
Stato della Chiesa dopo l'armistizio con Napoleone del 23
giugno '96: il 4 ottobre il Pontefice ha chiamato a raccolta
i sudditi "a difesa dei suoi Stati"; il 18 da Forlì
è cominciata in tutta la Romagna la cattura dei giacobini,
portati il 19 a Rimini e di lì nel forte di San Leo.
Anche Bertòla correva il rischio di essere incarcerato
nella caccia ai sostenitori del partito oltremontano, per
la nomea di "illuminato" acquisita dopo i due discorsi
massonici di Milano dell'88, che però nulla ebbero
di rivoluzionario sia nelle intenzioni sia nelle parole [25].
È in questo scenario che egli tenta di "passare
il verno" a Firenze, per stare lontano dalla Romagna
e dalla Lombardia. Ma il destino vuole che la malattia lo
blocchi in quella Bologna che dal 16 ottobre fa parte della
Cispadana. Alla Sacrati il 2 novembre scrive: "che mi
procuri il sussidio; e torno al nido; ma nell'incertezza m'espongo
alla mendicità". Il tipografo-libraio veneziano
Giacomo Storti [26] rimprovererà a Bertòla di
non esser passato allora da Bologna a Padova, dove stazionava
l'armata austriaca: di lì avrebbe potuto facilmente
raggiungere Vienna [27].
Nel Diario il 13 novembre si legge una risposta inviata ad
Orintia: "Su le ragioni del mio partire: nessuno può
accusarmi d'aver mancato né qual cattolico né
qual suddito. Dunque son tranquillo". Il 28 c'è
un lungo passo che inizia con il riassunto di una lettera
della stessa Sacrati, "che contiene: "Di tornare
al casino; che bisogna dar prova di sentimenti, né
basta averli: [
] di ricorrere a Vienna per mezzo di
M[onsigno]r Albani, cui scriverà essa"".
Bertòla riporta di seguito la risposta ad Orintia:
a Pavia, su trentadue docenti, ne sono tornati venti, anche
lui dovrebbe presentarsi; "per Vienna è vano;
avendo io tentato: fino alla pace non si vuol dar nulla agli
impiegati: ma e della pensione a cui ho diritto ora ancor
più di prima? Per pietà me la ottenga. Sono
senza un soldo. [
] Quella piccola pensione mi basterà
fino a miglior sorte". Il rientro di Bertòla al
"nido" di San Lorenzo, è avvenuto per le
premure della contessina cesenate che seguiva il poeta con
una pietà filiale, succeduta all'invaghimento tipico
in tutte le fanciulle più o meno in fiore che lo avvicinavano
[28].
L'ultimo giorno del '96 Bertòla ringrazia il Cardinal
Legato di Romagna, "così umano e caldo protettore
delle lettere e di chi le coltiva", per la benignità
accordatagli con prove "generose" [FGG]. Il 15 gennaio
'97, assieme al comandante delle truppe pontificie generale
Michele Colli, Bertòla fugge a Roma per sottrarsi "all'imminente
pericolo di esser arrestato e condotto in assai miser luogo,
come uomo di opinioni infette e perverse" [29]. Egli
si considera oggetto di "una persecuzione del Governo
Romano" e si dichiara sicuro della propria innocenza
[30]. A Roma soggiorna un mese. Poi va in Toscana, dividendo
"due mesi fra Siena e Firenze", dove riabbraccia
"tanti amici non più veduti da 22 anni addietro";
infine, sofferente di aneurisma, "sul finire di aprile"
torna a San Lorenzo [31]. A Milano le "strane vicende"
[32] di Bertòla suscitano dubbi sul suo comportamento,
a quanto pare considerato poco entusiasta se non ambiguo.
Il 26 aprile egli è nuovamente a Rimini. La Romagna
è in mano delle truppe napoleoniche da quasi tre mesi.
Anche per lui viene l'ora di infranciosarsi. Quanta cum voluntate
possiamo intuirlo da molte lettere inedite e dalle pagine
del Diario [33] che ci documentano la sua disperata ricerca
di sostegno economico. Gli amici intervengono presso l'amministrazione
francese, procurandogli due incarichi remunerati [34]: a maggio,
la stesura di un Piano dell'educazione letteraria per l'Amministrazione
Centrale romagnola [35], ed in agosto la redazione delle Letture
istruttive per il popolo dell'Emilia [36], il cui primo numero
esce il 29 settembre.
Il 3 giugno Bertòla ringrazia il Comandante della Romagna
generale Sahuguet per aver voluto con delicatezza "relever
par un soutien permanent une triste existence" [37].
Dopo parole di riconoscenza, egli augura al generale gloria
e felicità, associandosi all'omaggio di tutta la provincia,
"heureuse vraiment de voir se realizer en son faveur
le plus beau des réves politiques, le pouvoir entre
les mains de la philosophie". In Bertòla sembrano
riaffiorare quei pensieri che avevano alimentato la sua fiducia
nel riformismo dei sovrani illuminati. Sarebbe troppo facile
sottolineare lo stridente contrasto tra quei pensieri e la
realtà determinata dalle truppe napoleoniche, se non
pensassimo al valore formale di questo documento che è
un ringraziamento per quanto concesso, non una pagina di filosofia
della Storia.
In ottobre la Cisalpina gli accorda la giubilazione, dopo
aver soppresso la sua cattedra pavese per risparmiare nelle
spese. A metà gennaio '98 con il concittadino Nicola
Martinelli (suo parente e protettore, oltre che abile diplomatico
ascoltato non soltanto presso i francesi), Bertòla
si reca a Milano [38], la città in cui durante gli
anni dell'insegnamento pavese ha abitato in contrada de' Bigli.
Si ammala nuovamente. Deve subire cinque cavate di sangue.
Tra fine marzo ed inizio aprile, ritorna a Rimini, a San Lorenzo.
Il poeta è gravemente infermo, e Francesco Martinelli
(fratello di Nicola) si offre di ospitarlo nel proprio palazzo,
dove Bertòla si trasferisce tra il 17 ed il 22 giugno.
Alle cinque del pomeriggio del 30, muore. Nella stessa sera
il suo corpo viene trasportato "privatim" nel vicino
Tempio Malatestiano [39]. Il 1° luglio è sepolto
nella tomba degli avi [40], con una cerimonia frettolosa e
senza pompe per motivi politici: Bertòla ha servito
i nemici della Chiesa i quali, instaurata la Repubblica a
Roma, hanno costretto Pio VI a lasciare la sede apostolica
il 20 febbraio.
Nel primo dei suoi scritti per le Letture, egli si era illuso
che la condotta dei repubblicani francesi fosse "mirabilmente
in armonia colla religione de' nostri Padri": aveva inquadrato
il discorso politico particolare in quello filosofico più
generale, ricordando (con lo stesso ottimismo degli scritti
di dieci anni prima), che "la natura tende invariabilmente
a un ordine fisso e conservatore", lo stesso a cui mirava
il "nuovo Governo" della Cisalpina. Nell'ultimo
articolo [41] che compone per le Letture prima di morire,
Bertòla appare un pensatore tutto diverso, più
disincantato e problematico, rispetto a quello della Filosofia
della Storia. Non è "vano osservare", scrive,
come "dagli stessi principj" possano "derivare
talvolta conseguenze differentissime; come queste stesse conseguenze
finanche sembrino non di rado essere una cagione; come degli
avvenimenti contrarj sieno l'effetto degli stessi assiomi;
come s'incontrino da per tutto eccezioni, riserve, modificazioni;
e come la verità sembri voler più fuggire chi
più qui l'insegue".
La ragione gli mostra che la storia e la vita sono un complesso
di contraddizioni, alle quali l'uomo non trova rimedio. L'intuizione
poetica gli aveva dettato un distico che potrebbe essere il
suo doloroso epitaffio: "Sei tu che non sai vivere /
E dài la colpa al mondo".
Note al testo
* Abbreviazioni usate nel testo: FGG, Fondo Gambetti, Miscellanea
Manoscritta Riminese, Biblioteca Comunale Gambalunghiana di
Rimini; FPS, Fondo Piancastelli, Biblioteca Comunale A. Saffi
di Forlì.
[1] Cfr. D. Cantimori, Illuministi e giacobini, in "La
cultura illuministica in Italia", Eri, Torino 1957, p.
272.
[2] Cfr. F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell'Italia
nell'età dell'Illuminismo, ib., p. 59.
[3] Soltanto nel secondo discorso massonico di Milano del
1788 (di cui diremo), Bertòla accenna alle "rivoluzioni
improvvise che sono già accadute" (per colpa delle
"miserie altrui", cioè dei non massoni),
ed a quelle "onde siamo minacciati": "È
un nembo che s'avanza rapidamente [
]; noi lo vedremo
avvicinarsi senza temerlo; e lo vedremo dileguarsi senza averlo
provato".
[4] Ad Amaduzzi, Bertòla dedica una strofa: "Empia
Amaduzzi tuo, che ricco spande / E moltiforme di scienza un
nembo, / D'Attico pretto mele un nappo, e il mande / A così
fausta genitrice in grembo; / Tu spargerai delle nettaree
tracce / Al varco trionfale ambe le facce".
[5] Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia
inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Il Ponte,
Rimini 1998, p. 47-49. "Tutto m'avvolgo nell'orror del
monte / or che la notte precipita giù bruna",
è l'inizio della prima Notte.
[6] Il giudizio carducciano è riproposto nel saggio
introduttivo ad un'edizione di tali Versi e Prose del 1776,
che, curata da L. Tassani (Salerno, Roma 1992, p. 7), ha un
titolo esplicito anche per i non addetti ai lavori, di Rime
e prose d'amore. Lo stesso Tassani ha inserito alcune liriche
bertoliane (cfr. Poeti erotici del '700 italiano, Mondadori,
Milano 1994), in una buona compagnia che, se immortala il
nome del Nostro presso un vasto pubblico di lettori, non gli
rende giustizia facendone semplicemente un verseggiatore libertino.
[7] Cfr. G. Scotti, La vita e le opere di A. B., Aliprandi,
Milano 1896, p. 13. Maria Carolina, nata nel 1767, è
sorella di Giuseppe II. Ferdinando IV è nato nel 1759:
"ignorante sebbene non privo di buon senso e di perspicacia,
dedito ai divertimenti, privo di ideali e con scarso sentimento
del dovere; [
] per la sua stessa pigrizia, lasciava
fare agli altri [
] e dipendeva dalla moglie Maria Carolina";
era stato educato da un aio "famoso per la sua ignoranza",
il principe di Sannicandro. Così B. Croce nella Storia
del regno di Napoli, Laterza, Bari 1966, p. 180 e p. 166.
[8] Cfr. M. A. Macciocchi, L'amante della rivoluzione, Mondadori,
Milano 1998, pp. 41-42. Della stessa autrice, si veda pure
Cara Eleonora, Rizzoli, Milano 1993, passim.
[9] Cfr. A. Montanari, Le Notti, cit., p. 43.
[10] Il genio di Bertòla "non era fatto per posarsi,
ma per volare da un fiore all'altro", il suo carattere
"estremamente volubile, aperto ad ogni suggestione, desideroso
di mutare luoghi ed incarichi": cfr. A. Fabi, A. Bertòla
per L. A. Bertozzi, "Studia Picena" 1994, p. 263.
[11] Cfr. A. Montanari, La filosofia della voluttà,
A. Bertòla nelle lettere di E. Mosconi, Raffaelli,
Rimini 1997, pp. 14-15. R. Troiano in Note sulla scrittura
al femminile del Settecento, in "Studi in onore di A.
Piromalli", ESI, Napoli 1994, scrive che "questa
corrispondenza privata, nel suo corpo unitario" è
"uno dei più interessanti documenti settecenteschi
della scrittura femminile. Se ne avvide per primo il sensibile
abate se si preoccupò di conservarla nella sua interezza"
(cfr. nota 5, pp. 294-295).
[12] R. Renier ritiene che anche Corilla Olimpica abbia amato
Bertòla (in Quisquilie corilliane, "Giornale storico
della letteratura italiana", 1887, II, pp. 449-452),
ma egli scrive sulla scorta di notizie riminesi che parlano
di carteggi di donne letterate in generale: "Se Corilla
amasse il Bertòla [
] nol sapremmo affermare"
(cfr. C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica in Rimini,
Danesi, Rimini 1884, II, p. 412n). In una canzonetta in suo
onore, Bertòla (nei dolenti panni di Saffo) la definisce
"delizia / De le italiche arene" che sparge "un
nuovo nettare / Tra le festive cene", aggiungendo: "Si
sa, ch'estemporaneo / Formar puoi quel concento, / Per cui
molt'anni sudano / Cento Poeti e cento".
[13] È un'epistola ad Amaduzzi: cfr. ib., p. 18. Sul
viaggio di Bertòla nella capitale austriaca, Corilla
scrive ad Amaduzzi il 26 agosto 1783: "[
] che cosa
vuol fare a Vienna? Ci si vuole stanziare? o tornerà
a stare a Roma?": cfr. nel presente testo (vol. II),
lettera n. 74.
[14] W. Binni, in un magistrale profilo critico del Nostro,
considera "notevoli" le Favole bertoliane (più
volte ristampate, ed ampliate): esse "accarezzano con
particolare simpatia esseri ed entità naturali semplici
e delicati, e svolgono in una simile temperie motivi di bonaria
moralità e di galante ironia": cfr. Il Settecento
letterario, in "Storia della Letteratura Italiana",
Garzanti, Milano 1968, p. 691.
[15] Cfr. nel cit. La filosofia della voluttà, p. 38.
[16] Il Saggio sopra la grazia, composto nell'86, apparirà
postumo. Al concetto di Winckelmann della "grazia"
intesa come "il piacevole secondo ragione", Bertòla
contrappone quello del piacevole secondo natura. L. Tassoni,
nell'introduzione alle citt. Rime e prose d'amore (pp. 13-16),
collega il discorso sulla "grazia" ai temi erotici
di queste composizioni.
[17] Cfr. nel cit. La filosofia della voluttà, p. 36.
[18] Ib., pp. 17-18.
[19] Ib., p 75. Bertòla parte il 19 luglio e torna
il 15 novembre. Oltre allo stesso Viaggio sul Reno, si veda
pure A. Bertòla, Diari del viaggio in Svizzera e in
Germania (1787), a cura di M. e A. Stäuble, Olschki,
Firenze 1982.
[20] Cfr. W. Binni, op. cit., pp. 694-695.
[21] Cfr. E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la fratellanza
con Aurelio De' Giorgi Bertòla, Bastogi, Foggia 1987,
p. 142.
[22] Cfr. FPS, 63.185.
[23] Cfr. E. M. Luzzitelli, op. cit., p. 143.
[24] Cfr. A. Montanari, Un "Diario" inedito di Aurelio
Bertòla, "Quaderni di Storia", n. 1, Il Ponte,
Rimini 1994. Gli originali del "Diario" sono conservati
in FGG, cartella Bertòla. Il Diario si compone di tre
parti. Le prime due constano di piccoli fascicoli, la terza
di un foglio volante. Il primo fascicolo comprende il periodo
dal 14 giugno 1793 al 28 gennaio 1795. Il secondo si riferisce
al periodo dall'11 ottobre 1796 al 15 gennaio 1797. Infine
il foglio volante comprende il periodo 1° aprile 1797-11
maggio 1797. Esiste anche un'aggiunta (6-10 marzo 1797), dal
retro della lettera 63.50 del FPS.
[25] I testi autografi sono in FPS, 64.2. Il primo è
un retorico elogio della "più fina filantropia";
nel secondo, Bertòla narra dei suoi "studiosi
pellegrinaggi" in Alemagna.
[26] Cfr. A. Montanari, Bertòla redattore anonimo del
Giornale Enciclopedico. Documenti inediti, in "Romagna
arte e storia", n. 50, Rimini 1997, pp. 127-130. Il Nuovo
Giornale Enciclopedico d'Italia non cessò le pubblicazioni
nel '96 con la morte della curatrice Elisabetta Caminer Turra,
come solitamente si legge, ma continuò ad uscire nel
'97 presso Storti, avendo quale redattore Bertòla.
[27] Cfr. FPS, 62.261, 3 dicembre '96. Del progetto bertoliano
di trovare rifugio in Austria, parla pure una lettera del
25 agosto '96 [FPS, 63.33] inviatagli da un corrispondente
veneziano (dalla firma indecifrabile): "Perché
mai a Vienna? parvi egli il momento, mio caro Amico, d'andar
fra' Tedeschi? L'impoverimento, la spopolazione, l'avvilimento,
il malumore, il sospetto conseguente debbono render diabolico
quel soggiorno!".
[28] Si vedano le insinuazioni della Mosconi a proposito di
Orintia nel cit. La filosofia della voluttà, p. 73.
[29] La lettera è datata Roma 11 febbraio 1797 ed indirizzata
al "cittadino Lorenzo Mascheroni professore all'Università
di Pavia": cfr. G. Gervasoni, Dodici lettere inedite
di A. B., in "Studi su A. B. nel II centenario della
nascita (1953)", Bologna 1953, p. 140.
[30] L'epistola (a Pindemonte) reca la data del 24 ottobre
1797: cfr. E. M. Luzzitelli, op. cit., p. 155.
[31] Ib.
[32] Epistola di A. De Vecchi (19 marzo) a Bertòla
[FPS, 60.372].
[33] Le notizie che qui riportiamo sono riprese dalla nostra
comunicazione tenuta alle "Giornate di Studio della Società
di Studi Romagnoli" (Lugo, 1997) e di prossima pubblicazione,
con il titolo Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario.
Documenti inediti (1796-98). Le lettere a cui facciamo qui
riferimento sono in FPS.
[34] Il 20 maggio [FPS, 63.11] gli viene fatta balenare inutilmente
la promessa di un "beneficio ecclesiastico vacante",
per indennizzarlo "in parte de' sagrifizj" che Bertòla
era "disposto di fare all'Emilia". Da FPS, 63.14,
5 ottobre 1797, si ricava che esso era in territorio di Forlimpopoli.
[35] Questo incarico viene revocato quando, a luglio, si prevede
la confluenza della Legazione di Romagna nella Cisalpina.
[36] Esse sono quasi sempre indicate erroneamente come "Lettere"
o come "Giornale patriottico".
[37] Cfr. FPS, 63.178.
[38] Martinelli va a rinunciare alla carica di ambasciatore
a Vienna per motivi di salute: cfr. la lettera di Bertòla
a Francesco Martinelli da Milano, del 3 febbraio 1798 [FPS,
63.133].
[39] Cfr. l'Atto di morte steso da padre Francesco Maria Veroli,
parroco di Santa Maria in Trivio (chiesa di San Francesco,
cioè Tempio Malatestiano), in Libro dei Defonti, Archivio
Diocesano, Rimini, p. 69.
[40] Di questa tomba si sono perse le tracce.
[41] Tale articolo era stato steso per il n. XL (previsto
in uscita con la data del 30 giugno, la stessa della scomparsa
di Bertòla): assieme al precedente per il n. XXXIX,
è conservato manoscritto in FGG, cit. cartella Bertòla..
Entrambi appartengono alla serie intitolata "Studi democratici",
della quale sono rispettivamente il quinto e sesto capitolo.
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