Giovanni Cristofano Amaduzzi e gli abati filosofi del Settecento
romagnolo
4. Bertola
di Antonio Montanari
Per Battarra e Giovenardi
lo studio e l'insegnamento della Filosofia sono parte costante
e fondamentale della loro esperienza intellettuale ed umana.
Per Bertola, invece, è molto differente l'itinerario
culturale attraverso cui approda alla Filosofia.
Nei sogni di Bertola, ad un certo punto, appare una cattedra
di Filosofia morale a Ferrara, ma semplicemente come alternativa
alla vita claustrale da monaco olivetano, che non sopportava.
Nel '75, scrive ad Amaduzzi: "Non vi spaventate. Ho dei
motivi, ve lo giuro, atti non solo a provarmi un diritto alla
secolarizzazione
ma a contestarmi altresì non
valida la Professione". (18)
Nel 1784 Bertola inizia ad insegnare Storia a Pavia, di ritorno
da Napoli, dove per sette anni (1776-83), ha insegnato Storia
e Geografia all'Accademia navale. A Napoli, ha conosciuto
i temi dell'Illuminismo europeo. A Pavia li approfondisce,
accostandosi anche ad ambienti giansenisti.
Nell'87 Bertola pubblica un volume che racchiude in sé
il significato delle esperienze culturali vissute fino ad
allora. È il Della Filosofia della storia. Per la prima
volta in Italia (come osservò Carducci), appariva quella
definizione di "Filosofia della Storia".
L'opera è divisa in tre parti, rispettivamente dedicate
alle cause dei fatti, ai mezzi con cui essi si manifestano,
ed agli effetti che producono.
Già avanti di scrivere quel libro, Bertola si è
fatto la fama di uomo che non era "solamente poeta",
ma anche "filosofo ed artista come voi dite di Leonardo
da Vinci", gli scrive il "cavalier Pindemonte"
nel 1780. Nel 1776, in un articolo delle Effemeridi letterarie
di Roma, Amaduzzi chiama Bertola "Vate filosofo".
(19)
Dove si parlava di Filosofia, in quei tempi, al di là
dei libri? Di certo nei salotti che Bertola e Pindemonte frequentavano
golosamente. Uno dei più rinomati, è quello
di Silvia Curtoni Verza, che il Bettinelli chiamerà
"giacobina" e "terrorista" (20), e che
la Elisabetta Contarini Mosconi definisce "una gran dritta".
Ma più che il cervello, nel giudizio della Contarini
pesano il ricordo del sentimento e la gelosia. L'87 è
l'anno non soltanto del nuovo libro di Bertola, ma anche quello
della fine dell'amore tra Bertola ed Elisabetta Contarini
che, nell'85, si era concessa all'abate riminese, dandogli
una figlia, Lauretta, che Pindemonte ricorderà come
fiore dai "delicati stami", tanto rassomigliante
nella sua fragilità fisica al padre.
In quei salotti, nascono amicizie e sodalizi letterari, e
si tessono le trame di una cultura che viene ravvivata da
scambi di idee, da invii di lettere, giornali, libri, come
testimoniano i vasti epistolari di Bertola, Amaduzzi e Pindemonte.
La Filosofia della storia è stata definita da Piromalli
come l'opera in cui si esprime l'"educazione illuministica
moderata" che caratterizza il Bertola di quegli anni.
A Napoli nell'84, Bertola si era iscritto alla massoneria
locale, "che sosteneva l'azione dei principi riformatori".
(21)
In effetti, la Filosofia della storia esprime fiducia nell'opera
politica dei governi per migliorare la vita degli Stati. Stati
che, dice Bertola, sono ben saldi, come leggiamo nella conclusione
dell'opera. Per quella legge di natura che tutto fa invecchiare,
anche quegli Stati declineranno, ma lasciando il posto ad
"un'epoca di calma e di tranquillità".
Quando esce la Filosofia della storia, mancano due anni all'89
francese. Bertola giustifica la propria visione politica in
base a tre elementi: "i lumi del secolo, i progressi
de' civili sistemi, i prodigiosi accorgimenti della dominante
politica". (23)
Già qualche pagina prima, Bertola ha spiegato i motivi
politici, costituzionali ed economici per cui l'Europa non
doveva più temere le rivoluzioni. (24)
Piromalli osserva che gli scritti successivi di Bertola del
1797 (le Idee di un repubblicano sopra un piano di pubblica
istruzione e le Lettere istruttive per il popolo dell'Emilia),
sono "lo sviluppo" di quell'"educazione illuministica
moderata", partendo dalla quale Bertola approdò
"al radicalismo politico repubblicano, alla rivoluzione".
Come ciò sia avvenuto, è alquanto oscuro.
Nella Filosofia della storia nulla fa presagire il mutamento
di rotta rivoluzionario. Sembra quasi che le due opere del
'97, appartengano ad una stagione diversa che nulla abbia
in comune con la precedente: il riformismo nega ogni estremismo,
e non può essere considerato un sua fase preparatoria.
I documenti sul Bertola di quegli anni sono scarsi, per cui
è difficile ricostruire motivazioni ed eventi della
vicenda personale dell'abate riminese. E dei suoi mutati umori
politici.
Un esempio, si trova nell'episodio della fuga da Rimini in
quel '97, da parte di Bertola che temeva l'arresto "come
uomo di opinioni infette e perverse". (25) Due sono le
ipotesi formulabili: Bertola è giudicato così
dai giacobini locali, ai quali il poeta doveva apparire come
un conservatore? Oppure Bertola se ne andò da Rimini
per l'avversione della popolazione ai giacobini? (26)
I dubbi che restano su questa fase della vita di Bertola e
della sua produzione letteraria, sembrano quasi un'ironica
e amara smentita dello spirito di chiarezza che il nostro
autore andò ricercando per comporre la Filosofia della
storia.
Scopo dell'opera, è di promuovere quello studio critico
della storia che ci offre "preziosi vantaggi" rispetto
ai popoli antichi. (27) Studio che, quindi, ci fa avanzare
in civiltà.
Questo atteggiamento illuministico è confermato da
altre osservazioni contenute nel volume, ad esempio là
dove (tra le cause dei fatti storici), si prendono in considerazione
anche il clima dei luoghi e il "temperamento fisico"
dei popoli.
Bertola, nella sua idea di un'evoluzione della società
umana, subisce l'influsso del Vico. In certi passaggi, poi,
s'avverte un'ironia volterriana, se non un realismo derivato
da Machiavelli, come quando Bertola parla degli oracoli: per
ricorrervi, bastava essere in grado di pagare, ma talora le
risposte erano preparate prima del consulto, per mezzo di
imbrogli macchinati da ministri e sacerdoti. (28)
Machiavelli è ricordato da Bertola assieme a Paruta
(29), come uno dei padri della Filosofia della Storia, per
rivendicare all'Italia una gloria che i francesi attribuiscono
a Montesquieu. (30)
Lo spirito illuministico di Bertola si colora di venature
preromantiche nella conclusione dell'opera. I filosofi educano,
sì, ma la loro opera non può tutto: essi agiscono
come quei medici che, con "farmachi opportuni",
curano i malati, "all'uom ricordando la sua inevitabile
caducità". (31) La ragione si nutre di speranza,
mentre la natura ci avverte "che tutto perisce".
(32) Così, la Filosofia non si può ridurre all'esame
di ciò che è transeunte, ma deve rivolgersi
alla verità di quanto è "eterno" e
"incorruttibile", superando così i limiti
della stessa natura e della stessa storia.
Né storia né politica debbono illudersi che
sia possibile conseguire "una esteriore felicità,
che la natura nostra manifestamente ci nega". Le idee
ottimistiche sono definite da Bertola come "frivole e
vane".
Egli non crede possibile "il raggiungimento della Felicità"
[I costituzionalisti americani l'avevano inserito tra i diritti
dell'uomo nella Dichiarazione del 4 luglio 1776].
L'origine dell'atteggiamento di Bertola, oltre che nel clima
culturale europeo del Preromanticismo, potrebbe essere rintracciata
nella stessa esperienza umana del nostro abate.
È partendo da queste idee, che egli giunge alla svolta
rivoluzionaria degli anni '90?
Di tutto il travaglio che accompagnò la preparazione
e la stesura della sua opera, Bertola ci ha lasciato un breve
documento, in una lettera a Pindemonte del 25 novembre 1794,
dove parla delle "tante fatiche" che il libro gli
è costato. (33)
La parte più efficace dell'opera, oggi, appare quella
in cui Bertola ricostruisce l'evoluzione degli studi storici,
partendo dall'Umanesimo, quando si attese al recupero filologico
delle opere. Poi, con il XVI secolo, le storie imitarono i
classici. È qui che Machiavelli e Paruta sono citati
come padri della Filosofia della Storia.
Nel XVII secolo, si produssero cronologie ed antiquaria "in
prolisso metodo". Sul finire dell'età barocca,
la Filosofia della Storia in Italia venne guastata da trattati
vacui ed ampollosi, e da "scolastiche sottigliezze",
per cui "quasi ricoverò oltramonti".
Infine, nel secolo XVIII "la filosofia della storia ha,
diremmo quasi, alzato stendardo, sotto cui venuti sono a raccogliersi
illustri ingegni di varie nazioni", tra cui Montesquieu.
(34)
Note:
(18) Cfr. in A. Piromalli, A. B. nella letteratura del Settecento,
Olschki, Firenze 1959, p. 24. La lettera è del 6 dicembre
1775.
(19) Cfr. E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la 'fratellanza'
con Aurelio de' Giorgi Bertola, Bastogi, Foggia 1987, p. 89.
L'articolo di Amaduzzi (p. 108 delle Effemeridi), è
a proposito delle polemiche successive alla biografia di Planco
scritta da Bertola sulla Gazzetta Universale di Firenze, il
14 dicembre 1775. Amaduzzi prende le difese di Bertola.
(20) Ibidem, p. 27.
(21) Cfr. A. Piromalli, La storia della cultura, in "Storia
di Rimini", V vol., Ghigi, Rimini 1981, p. 27.
(22) Cfr. p. 270 dell'ed. Silvestri, Milano 1817.
(23) Ibidem, p. 271.
(24) "L'Europa già più non le teme, l'Europa
in cui le rivoluzioni ordinarie finanche sono oggi più
rare assai, gagliarde assai meno, perché maggior semplicità
nel principio delle costituzioni è rinchiusa; perché
nelle forme sociali regna maggior perfezione; perché
un franco e spedito maneggio di massime, tratte principalmente
dalla sperienze molteplice de' secoli andati, è divenuto
più familiare ad un tempo e più sistematico".
Ibidem, p. 255. Osserva C. Tonini (cfr. La Coltura letteraria
e scientifica in Rimini, cit., p. 400, nota 1), che "suol
farsi carico al Bertola di aver sognato
un avvenire
di placida e tranquilla felicità civile alla vigilia
di quella grande catastrofe politica, che fu la Rivoluzione
Francese". In questa previsione, Bertola non fu solo,
ma "ebbe compagni altri grandi contemporanei". Infine,
"quand'anche avesse in qualche guisa potuto sospettare
quegli avvenimenti tanto straordinari, non crediamo che la
prudenza gli potesse permettere di darne sentore".
(25) Lettera di Bertola dell'11 febbraio 1797: cfr in A. Piromalli,
A. B. nella letteratura del Settecento, cit., p. 25.
(26) Ibidem, p. 26.
(27) Cfr. alla p. 91.
(28) Cfr. alle pp. 59-61.
(29) Paolo Paruta (1540-98), è autore di scritti politici
e storici, ove trasferisce anche la sua esperienza di diplomatico
(fu ambasciatore di Venezia a Roma, 1592-95). Nei Discorsi
politici indagò le cause della grandezza e decadenza
dei romani.
(30) Cfr. alla p. 21.
(31) Cfr. alla p. 269.
(32) Cfr. alla p. 271.
(33) Cfr. E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte, cit., p.
153.
(34) Cfr. alle pp. 17-21.
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