Dante
Alighieri: opere di dubbia attribuzione
Dante Alighieri: opere di dubbia attribuzione
Tra le opere minori di Alighieri, di incerta
attribuzione resta il Fiore, un poemetto anepigrafo, intitolato
così dal primo editore per la ricorrenza della parola-chiave
"fiore". All'interno della tradizione comica, è una parafrasi
in 232 sonetti (3248 endecasillabi) delle parti narrative del
"Roman della rosa" (Roman de la Rose). Questo poemetto didascalico-allegorico
lo si data al terzultimo o penultimo decennio del XIII secolo.
La fusione e adattamento in volgare italiano del "Roman della
rosa" avviene espungendone le disquisizioni dottrinali e arricchendone
invece gli spunti politici, con trasparenti allusioni alle lotte
fiorentine tra borghesi e magnati. E' la storia della conquista
dell'amata e del suo 'fiore virginale' da parte dell'amante nonostante
le difese strategiche delle più varie parti (Ragione, Pudore,
Paura, Calunnia ecc.) ma con l'aiuto di Amore e di Venere. In
mezzo tre episodi: la cinica arte di amare dell'Amico per conquistare
le donne; quella ancora più spregiudicata che la Vecchia
espone all'amata per signoreggiare e sfruttare gli uomini; la
lunga tirata antifratesca in Falsembiante simbolo dell'ipocrisia.
Fissati gli estremi, dall'alba d'amore alla conquista e alla deflorazione,
tutto è una specie di vasto 'entre-deux'. Mentre però
nel "Roman della rosa" fiorettature e excursus, dilatazioni e
divagazioni e allegorie si accumulano fino quasi a perdere il
filo della narrazione, nel "Fiore" la drastica riduzione consente
un ritmo narrativo serrato. La dicotomia del "Roman della rosa",
tra la prima parte ideal-allegorica e la seconda più sensuale
e spesso brutale, è superata a favore di una sensibilità
realistico-borghese che riflette la prammaticità della
società comunale e mercantesca nella Toscana del XIII-
XIV secolo. La vita quotidiana borghese ravviva con il suo linguaggio
commerciale vicende, espressioni, paragoni: «cambiar le pere a
pome» (= far vedere una cosa per un'altra), «insegnar vender frutta
a trecca» (= insegnare a vendere frutta a una fruttivendola, insegnare
una cosa notissima), «borghesi sopra i cavalieri | sono oggi tutti
quanti [...] | convien che vendan casa e terre | in fin che i
borghesi sian pagati». Episodi della vita sociale e politica del
tempo riecheggiano tra lo spaurito e il deprecatorio: gli eretici
paterini distrutti o scacciati a Prato, Arezzo e Firenze; Sigieri
di Brabante (il teologo lodatissimo nel X canto del "Paradiso")
pugnalato nel 1283 o 1284 a «Orbivieto» (= Orvieto); la polemica
contro gli ordini mendicanti ecc.. Il tono trattatistico, le raffigurazioni
allegoriche del "Roman della rosa" diventano spesso nel "Fiore"
vivaci scenette da commedia, in un linguaggio parlato ma anche
letterarissimo, sviluppato sul filo di un espressivismo linguistico
giocato su gallicismi e ipergallicismi, vernacolarismi e familiarismi,
latinismi e linguaggi tecnici. L'arte di amare e la conquista
della donna del "Roman" si trasformano nel "Fiore" in una vivace
rappresentazione, prevalentemente comica e ironica, anche nel
suo insistente linguaggio guerresco, ironica anche verso il testo
francese, e autoironica. A metà tra il "Roman" e il linguaggio
comico-realistico dell'"Inferno" alighieriano, si pone al centro
dell'esperienza della ricca poesia satirico-burlesca, deformante
e infamante, da Cavalcanti a Angiolieri, ai sonetti alighieriani
con Forese Donati. Sono presenti alcune figure che torneranno
nella successiva produzione poetica e novellistica toscana: la
vecchia cinica e astuta consigliera d'amori alla giovane sembra
la progenitrice delle ruffiane del "Decameron" di Boccaccio e
dei "Ragionamenti" di Pietro Aretino; Falsembiante con la sua
ipocrisia untuosa e spregiudicata è il modello dei frati-tartufi,
figura chiave in tutta la tradizione novellistica da Boccaccio
in poi; l'ingannatrice ingannata, tema di tanti racconti, è
predisegnata in un sonetto. Il "Fiore" non necessariamente influì
sulla produzione successiva direttamente, ma perché parte
di uno stesso ambiente sociale e culturale. Il linguaggio è
sboccato e immaginoso, brutale e metaforico, con molti riferimenti
sessuali e osceni. L'autore del poemetto, che evidentemente di
filosofia e di letteratura ne aveva piene le tasche, mette in
atto un gioco burlesco e chiede che in questo senso irriverente
venga letto il suo testo. Si leggano gli ultimi sonetti, il 228-230:
l'Amante è un «pellegrino» che vuol «adorar» nel «santuario»
il «corpo beato» e che pensa poi di «toccare le reliquie». Ma
quello che viene collocato in primo piano sono le conseguenti
metafore per indicare gli organi maschili e femminili e i loro
rispettivi ruoli e movimenti nell'accoppiamento: il pellegrino
porta un «bordone» (bastone) e una «scarsella» (borsa), il santuario
si trova tra «duo bei pilastri» e vi si accede per una «balestriera»
(feritoia) dove il pellegrino vorrebbe il «bordone [...] metterlo
dentro tutto», ma l'entrata è piuttosto stretta e il pellegrino
deve tentare «più volte» di riuscire a «lui ficcare», e
deve «scuotere» per farlo «oltrepassare». Dopo rimangono solo
6 endecasillabi per cambiare metafora e accennare allo «sfogliare»
del fiore, all'«arare» e al «seminare» e all'abbondanza della
buona erba che spunterà.
Il testo è attribuito a un «ser Durante»
(sonetti 82 e 202: ma «durante» ha anche doppisensi sessuali),
ma già nella prima edizione del 1881 dell'opera fu cautamente
avanzato il nome di Alighieri. L'attribuzione, negata da molti
filologi, è stata ribadita con argomenti stilistici da
*G. Contini: per questo filologo, il "Fiore" è la più
compiuta espressione dell'arte comico-realistica di Alighieri
giovane: l'orgia di francesismi avrebbe, secondo questa interpretazione,
un intento parodistico-caricaturale.
In ogni caso, a chiunque sia attribuibile il "Fiore", esso occupa
un posto rilevante nella storia della produzione poetica italiana
del XIII secolo, nel filone comico-realistico. L'autore del "Fiore"
non sfigura per impegno letterario e vivacità nella serie
di Guittone, Cavalcanti, Angiolieri.
Il Detto d'amore è un poemetto
didattico, anch'esso anepigrafo, in distici di settenari, in volgare
italico: ne restano solo 480 versi. Per alcuni critici rappresenterebbe
il momento di transizione dai modelli lirici tradizionali allo
stilnovismo. Concettualmente e stilisticamente è molto
vicino al "Fiore", e non a caso ci è giunto attraverso
lo stesso codice di cui faceva parte il "Fiore". Libero rifacimento
della seconda parte del "Roman della rosa", il poemetto tratta
dell'amore e della donna ideale in uno stile affine a quello dei
poeti della scuola guittoniana.
I due testi erano, come detto, inseriti in
un unico codice (scrittura magra e allungata di tipo gotico francese)
che poi fu diviso, finendo a Montpellier (Bibliothè que
Interuniversitaire, Med. H 438) e a Firenze (Laurenziana, Ash.
1234), furono pubblicati nel 1881 da *Ferdinand Castets e poi
nel 1922 da *Ernesto Giacomo Parodi; nel 1984 *Contini li presentò
come «attribuibili» a Alighieri nell'edizione critica delle opere.
Contesto: Indice Dante Alighieri
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