Paesi extraeuropei tra il X e l'XI secolo
Paesi extraeuropei tra il X e l'XI secolo
Centri culturali cristiani extra-europei
Dall'Armenia, nonostante l'occupazione e la perdita dell'indipendenza,
continua la produzione cristiana in armeno. All'XI secolo risale
Gregorio di Narek (c.945\1010), monaco e poi superiore al convento
di Narek, autore di 95 vibranti Elegie in prosa ritmiche e in
versi che richiamano da vicino il libro biblico di Giobbe. Scrisse
inoltre un commento al "Cantico dei cantici", numerosi panegirici,
tra cui uno dedicato alla Vergine, inni liturgici e narrazioni
a carattere storico-religioso. E' considerato il più grande
poeta mistico armeno.
Nel 980, l'adesione della chiesa georgiana alla chiesa ortodossa
di Bisanzio significò un nuovo periodo di produzione letteraria,
religiosa, per la letteratura georgiana; centri culturali furono
un monastero georgiano sul monte Athos e uno ad Antiochia. Nacquero
opere originali, traduzioni e rielaborazioni di opere greche,
revisioni di opere tradotte anteriormente dall'armeno ecc.; la
fase aurea durò fino alla metà del XIII secolo.
Mondo arabo
In ambito culturale arabo, la poesia mira sempre più all'eleganza
dell'espressione, alla ricercatezza del linguaggio, il contenuto
sembra perdere d'importanza; il potere centrale del califfo si
sgretola, le dinastie locali acquistano una loro indipendenza.
Centro di cultura locale è la corte di Aleppo, con quello
che è forse il massimo poeta arabo, al-Mutanabbi creatore
di un'arte ingegnosa e suggestiva. Abu al-Tayyib al-Mutanabbi,
il cui nome significa "colui che si spaccia per profeta", nacque
a Kufa nel 905. Dopo l'avventura giovanile che gli valse il soprannome
(fu tra i capi di un movimento insurrezionale religioso), visse
come poeta di corte in Siria Egitto Baghdad Persia, cantando in
elaborati e bellissimi versi le lodi di sovrani e mecenati. Morì
in viaggio, presso Baghdad, nel 965, ucciso dai briganti. Al-
Mutanabbi è considerato uno dei principali poeti della
corrente neoclassica araba: in una lingua arcaizzante si destreggia
tra le varie figure retoriche (soprattutto l'iperbole) con maestria,
ma con una vena lirica limpida e genuina. La sua influenza ebbe
seguito in tutta la produzione poetica araba successiva.
Apparizione solitaria e inattesa è quella di Abu al-Ala'
al Ma'arri (nato a Ma'arret en Nu'man [Siria] nel 973, morto nel
1057-58) di cui abbiamo due raccolte: Lo scintillare dell'acciarino
(Saqt az-Zand) che raccoglie le prime poesie meno originali, e
Costrizione non obbligatoria (al-Luzumiyyat) che riflette il suo
disprezzo per la vita, cantata con accenti colmi di amarezza e
scetticismo: il titolo di quest'opera fa riferimento a una particolare
rima che il poeta si è predeterminato di osservare. Suo
è anche l'Epistola del perdono (Risalat al-ghufran) in
prosa rimata, che narra il viaggio di un amico nell'oltretomba.
Dato il tema, alcuni studiosi hanno ipotizzato una possibile fonte
per la "Commedia" di Dante Alighieri.
Nel 1055 i turchi selgiuchidi entrano a Baghdad: inizia per il
califfato una lenta decadenza. Il mondo della cultura ha però
ancora una buona vitalità. Sono prodotte due grandi forme
di pensiero, la "scolastica" e il "sufismo", congiunte nella rinascita
"sunnita". Tra tutti spicca il nome di Ghazali (cioè Abu
Hamid Muhammad ben Muhammad al-Ghazali, nato a Tus [Iran] nel
1058, morto nel 1111) che, con il suo grande oppositore Averroè
(1126\1198) esercitò una enorme influenza sul pensiero
filosofico dell'europa.
Ghazali, che era persiano di nascita, fu professore di diritto
e teologia a Baghdad. Dopo un lungo periodo di vita ascetica e
peregrinazione, trascorse gli ultimi anni della sua vita attorniato
da pochi discepoli. Le sue numerosissime opere (di cui la più
famosa è la monumentale Vivificazione delle scienze religiose)
sono notevoli per il vigore e la sottigliezza della dottrina,
e il grande spirito di tolleranza. Per questo è considerato
un classico del sufismo. La sua lingua è semplice e chiara,
talvolta vicina a quella parlata.
La poesia di disperse in giochi di abilità; fiorisce il
persiano che diventa la nuova lingua dell'arte; la prosa si volge
all'enciclopedismo e alla composizione erudita di immense raccolte;
si impone la prosa rimata (sag') che raggiunse il massimo splendore
nelle 50 elegantissime maqamat di Hariri (Abu Muhammad al-Qasim
ibn 'Alì ibn Muhammad al-Hariri, nato a al-Masam [Bassora]
nel 1054, morto a Bassora nel 1122). In esse, accogliendo la lezione
di al-Hamadhani, portò alle estreme conseguenze la tendenza
al preziosismo linguistico raggiungendo livelli di assoluta artificiosità.
Hariri scrisse anche due trattati e alcune lettere in prosa ornata.
Ahmad al-Hamadhani (nato a Hamadhan nel 968, morto a Herat nel
1008), nato e vissuto in Persia, era stato famosissimo ai suoi
tempi, tanto da meritare l'appellativo di "meraviglia del secolo"
(Badi 'az-Zaman): fu lui a dare forma definitiva e nome al genere
poetico della maqama ("conversazione": maqamat è il plurale),
breve composizione in prosa rimata che descrive una scenetta,
per lo più di carattere realistico oppure fantastico. Con
Hamadhani e soprattutto con Hariri diventa occasione per sfoggio
di erudizione e virtuosismo stilistico e lessicale. Il genere
ebbe notevole fortuna, anche in lingue non semitiche [In epoca
moderna un certo numero furono tradotte da F. Rückert (1788-1866)]
In campo vastamente scientifico figura importante è quella
di Al-Biruni (nato nel c.973). Egli stesso ci ha lasciato nel
1036 (a 63 anni) un catalogo della sua produzione: 103 titoli
divisi in dodici categorie, dall'astronomia alla matematica, astrologia,
aneddotica, cronologia. Scrisse la maggior parte delle opere in
arabo, ma la sua lingua madre era il coresmio; conosceva perfettamente
il persiano. Tra le sue opere, la Cronologia delle antiche nazioni
è una delle più ricche raccolte documentarie sui
calendari e sui sistemi cronologici dell'antichità: dinastie
di sovrani, achemenidi, parti, sassanidi, romani, seleucidi ecc.,
elencate secondo più liste di differenti origini e provenienza,
messe a confronto e commentate. Nelle sue opere religiose sono
citazioni di prima mano dai testi sacri dello zoroastrismo, manicheismo,
ebraismo, cristianesimo, buddismo, induismo. Scrisse inoltre un
Libro delle istruzioni sui princì pi dell'arte dell'astrologia
(Kitab al-Tafhim li-awa'il sina't al tanjim), di cui restano due
versioni (una in arabo e l'altra in persiano): una prima parte
dell'opera (in sette sezioni) si occupa di geometria, aritmetica,
geografia, cronologia, astrolabio; la seconda parte (in cinque
sezioni) riguarda l'astrologia: segni, pianeti, la fortuna, e
l'astrologia giudiziaria.
Ebraismo: Babilonia
In Babilonia, all'interno delle comunità ebraiche stanziate,
Sa'adjah ben Joseph al-Fayyumi, "gaon" (capo) dal 928 dell'accademia
rabbinica di Sura (era nato a Faiyum [Egitto] nel 882, morì
a Sura [Babilonia] nel 942) inaugura la filosofia della religione
con il Libro delle credenze e delle opinioni, scritto
in arabo, ormai lingua franca all'interno del vasto impero islamico,
e che consentirà il passaggio del centro culturale e religioso
ebraico dal Medioriente alla Spagna. Personalità complessa
e enciclopedica, Sa'adjah ha lasciato opere fondamentali anche
in campo filologico, con una grammatica ebraica e un lessico-rimario;
nel campo degli studi giuridici ha scritto una introduzione al
Talmud, e parecchi responsi. Tradusse in arabo la Bibbia, compose
poesie religiose e profane. Molta di questa vasta produzione è
andata perduta, in particolare quasi tutta quella poetica, di
stile biblico rimato.
India
Per l'islam e la cultura araba è un momento sostanzialmente
di stasi, ma da un punto altissimo di civiltà letteraria;
senza contare la permanenza delle capacità espansive, religiose
e culturali: tra XI e XV secolo l'islam penetra in India, gradualmente.
Qui avverrà un processo di convergenza parziale tra due
civiltà che mantennero tuttavia le proprie caratteristiche
sostanziali distinte: l'islam incentivò nell'India il genere
storico e biografico mentre l'induismo influenzò l'islam
smussandone il carattere guerriero. Nell'XI secolo visse in India
uno dei maggiori autori della letteratura mondiale, Somadeva.
E un mistico e teorico dell'estetica come Abhinavagupta.
Somadeva
Somadeva era originario del Kashmir. Tra il 1063 e il 1081 compose
il poema in versi l'Oceano dei fiumi di racconti (Kathasaritsagara),
vera e propria collezione dell'intera novellistica indiana a lui
precedente e contemporanea. In una cornice che si rifà
manifestamente alla celeberrima e perduta "Brhatkatha" di Gunadhya
(II-I secolo -), inserì secondo la tecnica 'a cassetti'
assai affermata in India, numerosissimi racconti e fiabe, e persino
raccolte complete come il "Pañ catantra" e la "Vetalapañ
cavimsatika" (I venticinque racconti del vampiro). Si pensa che
rifuse e rielaborò anche materiali composti nel rude dialetto
delle montagne e oggi perduti, e nello stile prosastico e disadorno
della katha (la storia): il tutto rielaborando in sanscrito letterario.
Sono storie di dèi e eroi, dèmoni notturni che banchettano
con carne umana, animali parlanti, astuti mercanti pronti a trattare
qualunque merce, fanciulle innamorate abilissime nello sventare
intrighi, streghe beffarde, amanti traditi, re valorosi e creduloni,
talismani meravigliosi che passano di mano in mano, cortigiane
timide o avventurose, incantesimi che si ritorcono contro i maghi,
viaggi per mare e attraverso i cieli, autò mi volanti e
pesci giganteschi, serpenti cortesi e bambini prodigio. Le storie
si incastrano con brio l'una nell'altra con una ricchezza stupefacente
di digressioni e intrecci secondari. Si tratta di un'opera affascinante,
unica non solo per ampiezza e varietà ma anche perché
Somadeva è narratore vivace, scaltro, trasparente nello
stile, e capace delle raffinatezze tipiche della letteratura d'arte
(kavya) indiana. Il linguaggio è fiorito, denso di metafore,
allitterazioni, connotazioni poetiche multiple. Tra gli artifici
d'uso frequente troviamo il doppio senso, per espandere e far
riverberare il contenuto di una stanza; le metafore che condensano
l'immagine; le allitterazioni e ripetizioni ritmiche che aggiungono
sonorità e enfasi all'enunciato. Di Somadeva del resto
non abbiamo molte notizie. Lo stesso termine di chiusura dell'opera,
il 1081, lo attribuiamo perché nell'Encomio con cui chiude
l'opera, dichiara di aver voluto dettare il suo poema per consolare
la regina Suryavati, che nel 1081 aveva sofferto del suicidio
del marito, il re del Kashmir Ananta (la regina, madre dell'erede
al trono, poi seguì il marito sul rogo come da consuetudine).
Somadeva era un brahmano che viveva alla corte reale del Kashmir,
terra di grande cultura e patria di poeti filosofi e critici letterari
celebri. Fa parte della cerchia aristocratica intellettuale che
a corte si diletta di lettere.
Il kavya, nel cui ambito Somadeva si muove, la prosa d'arte indiana,
deriva terminologicamente dai kavi, gli antichi veggenti / poeti,
i vati che ricevettero all'inizio dei tempi - secondo la leggenda
- la Rivelazione dei "Veda", le sacre scritture dell'India, e
le tramandarono ai posteri in versi sublimi. "Kavya" significa
dunque nello stesso tempo sapienza, ispirazione profetica, intelligenza,
poema, dramma, prosa d'arte. Secondo la concezione indiana, la
parola poetica discende direttamente dal Verbo divino, Vac, la
dea della parola cui sono dedicati molti inni del "Veda" e che
è invocata all'inizio dell'"Oceano" di Somadeva.
Secondo l'analisi indiana dell'eccellenza poetica, la riuscita
di un'opera d'arte dipende dalla grazia e dalla profondità
con le quali si è saputo esprimere una verità d'ordine
universale suscitando nel pubblico le emozioni appropriate alla
situazione che le fa sorgere. Per una convenzione culturale particolare
del mondo indiano, il modo di suscitare tali emozioni, ottenuto
mediante determinati artifici retorici, fa sì che esse
siano godute dall'ascoltatore o dallo spettatore (di un dramma)
in modo impersonale, come fossero a un tempo sperimentate in prima
persona e in maniera assolutamente distaccata. Questo particolare
modo di godere delle emozioni, detto rasa (= sapore, gusto, succo,
rapimento estetico), dopo secoli di accese discussioni da parte
dei teorici indiani di letteratura sulla natura della poesia e
della prosa d'arte, tra cui fu anche Abhinavagupta, è stato
dichiarato l'essenza del kavya, la mèta dell'armonia che
il poeta deve sforzarsi di raggiungere e di trasmettere al suo
pubblico.
L'assenza di tratti 'personali' nel kavya è caratteristica
del gusto di questa letteratura che riflette gli ideali di nobiltà
e clero, le classi colte che scrivevano e leggevano il sanscrito.
Togliere peso alla personalità per liberare l'individuo
dalle peculiarità che lo rendono quell'essere particolare,
è un fine perseguito da numerose scuole di pensiero indiane.
Una credenza diffusasi in tempi molto antichi è quella
di uno scorrere incessante di cicli di vita, morte e rinascita,
dove l'individuo a ogni giro muta corpo e personalità come
se gettasse abiti vecchi e consumati e ne indossasse di nuovi.
Per l'indù come per il buddhista la vita è caratterizzata
dall'impermanenza poiché è legata a un mondo in
continuo mutamento. Far tacere quel che nell'uomo vi è
di transitorio (il corpo, la personalità ) è privilegiare
quello che rimane immutabile e unitario: significa avvicinarsi
all'Assoluto immutabile e privo di qualificazioni. la qualità
impersonale che contraddistingue questa particolare sensibilità
artistica, risulta inoltre dalla visione secondo la quale i protagonisti
dei racconti, che sono ritratti mentre vivono una delle loro innumerevoli
vite particolari, sono però sempre considerati come portatori
della totalità delle loro esistenze. Pur dopo molte sofferenze,
errori, infinite rinascite, si fonderanno infine proprio come
accade a tutti gli esseri creati, nell'eterna beatitudine dell'Assoluto.
Quando il protagonista di un racconto, dopo numerose peripezie,
ottiene il successo, è il gusto di quella fusione finale
con l'Assoluto che si assapora: si legga per esempio la vicenda
dell'eroe Saktideva che, superati due naufragi e molte terribili
prove, riconquista l'amata, riceve la sovranità della Città
d'Oro e diventa un semidio. I personaggi, quasi per raggiungere
un maggior distacco emotivo e assurgere a quella universalità
cui aspirano i cultori del kavya, non sono caratterizzati in quanto
individui particolari, ma sono dei tipi umani, esemplificazioni
del ruolo che sostengono nell'ordine socio-religioso indiano (le
quattro caste del dharma - i sacerdoti, i guerrieri-re, i mercanti,
i lavoratori liberi - più i pària fuoricasta). Le
emozioni suscitate dalle varie situazioni dei racconti possono
essere assaporate in modo distaccato anche perché ci sono
certe aspettative, mai disattese, riguardo ai caratteri dei personaggi
catalogati in tale schema sociale. Ogni tipo umano è contraddistinto
dalle qualità e dai difetti che si immaginano connaturati
al suo particolare ruolo dharmico. I brahmiani-sacerdoti sono
dotti e pii ma collerici, i re coraggiosi giusti liberali ma facile
preda delle passioni, i mercanti accorti ma codardi e avari, i
lavoratori obbedienti e fedeli ma stupidi e ignoranti. Le donne,
che appartengono a ciascuna di queste categorie, sono viste come
affascinanti, sagaci, generose, devote ma inclini alla passionalità
e alla gelosia. Vi è anche un'altra griglia in cui i tipi
umani si collocano. Una suddivisione verticale che articola la
vita di un uomo attraverso quattro tappe successive, anch'esse
contraddistinte da doveri particolari e da caratteristiche proprie
ai diversi gruppi d'età. Gli asrama (= stadi di vita) sono
un modello esemplare di vita per gli uomini delle prime tre caste,
quelli che ricevono l'iniziazione, ma non tappe obbligate. Nel
primo il fanciullo iniziato diventa brahmacarin, studente della
sacre scritture, che osserva il voto di castità; nel secondo
diviene grhastha, padre di famiglia; nel terzo, alla nascita del
figlio di suo figlio (ma ovvio pochi raggiungono questo stadio)
può diventare un vanaprastha, eremita che si ritira a meditare
nella foresta; nel quarto entra nella condizione del samnyasin,
il rinunciante, il mendico errante senza fissa dimora che abbandona
completamente il mondo e si dedica all'ascesi. Anche qui la tradizione
letteraria ha fatto sedimentare un patrimonio di convenzioni tipizzanti
basate su caratteristiche comuni alle varie età dell'uomo.
Nell'"Oceano dei fiumi di racconti" ogni attività è
permeata da un potenziale divino. L'ultimo sapore che deve rimanere
ai lettori-ascoltatori, il rasa, il succo di tutti questi racconti,
come in qualunque altra opera d'arte indiana che aspiri all'eccellenza,
è la meraviglia, l'adbhutarasa, un reverente stupore dinnanzi
al sublime gioco divino della creazione. Già nella prima
stanza del poema rivela che è meritorio ascoltare questi
racconti, vero nettare d'immortalità, perché chi
saprà assaporarli pienamente otterrà rango divino
già in questo mondo.
Al tempo di Somadeva un'opera in sanscrito, come l'"Oceano", si
rivolgeva soprattutto al pubblico ristretto delle corti regali,
composto di raffinati intenditori, i rasika (= coloro che sanno
assaporare, coloro che hanno la stessa sensibilità e gusto).
Persone in grado non solo di discutere nel merito di un testo
ma anche di gareggiare in tenzoni letterarie. Del resto in sanscrito
non era più la lingua parlata, locale, dell'India del nord
almeno da un migliaio di anni da Somadeva, ma la lingua raffinata
e regolarizzata verso il 500- dai grandi grammatici indiani (soprattutto
Panini vissuto forse nel IV secolo -, e Patañ jali vissuto
nel II secolo -). Una lingua sacra e artificiale, lingua perfetta
(samskrta), mezzo di comunicazione dotta delle persone colte di
tutta l'India e alto gioco letterario per intellettuali. Un pubblico
così colto e sofisticato era in grado di cogliere in tutte
le sfumature le sottigliezze di un testo poetico come l'"Oceano
dei fiumi di racconti", anche perché era perfettamente
al corrente della tradizione letteraria anteriore - cosa che non
siamo più in grado noi di cogliere -. E' anche questa ricchezza
di immagini sfolgoranti, che alludono e rimandano come balenii
di luce a altre immagini note dal mito o dalla tradizione poetica,
a generare la magia evocatrice della poesia sanscrita di questo
testo.
Abhinavagupta
Tra i maggiori autori indiani che si occupano di teoria estetica,
è Abhinavagupta. Egli visse nel Kashmir tra il X e l'XI
secolo. Commentatore del "Natyasastra" di Bharata e del "Dhvanyaloka"
di Anandavardhana, Abhinavagupta fu il pensatore che portò
forse più a fondo in India la riflessione sull'esperienza
estetica (il rasa) individuandola in una condizione di libertà
dal tempo, dallo spazio e dalla connessione mentale causa-effetto.
Tale condizione, «simile a un fiore nato per virtù di magia»
è indotta nel lettore/ascoltatore, del testo poetico e/o
del dramma teatrale, dal dhvani, il potere di «risonanza, suggestione,
manifestazione» del linguaggio poetico. E eleva temporaneamente
chi lo sperimenta a un piano di conoscenza analogo a quello offerto
dall'esperienza religiosa, permettendogli di 'assaporare' i sen-
timenti evocati senza esserne coinvolto e condizionato. Abhinavagupta
fu anche un mistico importante. Seguace del tantrismo sivaita,
fu autore dell'enciclopedica "La luce delle sacre scritture" (Tantraloka),
e del più breve "L'essenza del tantra" (Tantrasara).
Persia
I massimi risultati culturali sono però dati dal persiano.
La Persia era entrata nell'orbita araba nel 651. I primi due secoli
dalla conquista araba erano stati di transizione: in questo periodo
si forma una nuova lingua, il neopersiano, derivato dalla fusione
della lingua del popolo con l'arabo; l'attività letteraria
è favorita dalle varie corti locali che diventano autonome
agli inizi del IX secolo per l'indebolimento dei califfi abbasidi
di Baghdad. La produzione letteraria di questo periodo in Persia
è cortigiana e colta: si sviluppano la lirica laudatoria
(qasida e ghazal); la poesia epico-romanzesca e mistico-didattica
con il masnavi (poema lungo) e la ruba'i (quartina) che raggiunge
un alto valore espressivo; la prosa storica e d'arte. La qasida
era un componimento dalla forma molto elaborata della poesia araba
già in epoca preislamica. Normalmente comincia con una
parte lirica (rimpianto per la partenza dell'amata e descrizione
dell'accampamento deserto), poi descrive la cavalcatura con cui
il poeta parte alla sua ricerca, infine passa allo scopo della
poesia, che può essere panegirica, invettiva o altro.
Il ghazal (o ghazel)(in arabo significa "canto d'amore") divenne,
nelle letterature persiana, turca e urdu, un breve componimento
lirico monorimico, composto in genere di 8-10 versi. Caratterizzato
da estrema raffinatezza formale, e dalla consuetudine di inserire
nell'ultimo verso lo pseudonimo dell'autore, trae ispirazione
dall'amore ma anche dal vino, o dallo splendore della natura,
assumendo talvolta significati mistici. Tra i più famosi
cultori di questo genere furono in seguito l'arabo Abu Nuwas,
i persiani 'Attar, Rumi, Sa'di e Hafiz. Sull'esempio arabo-persiano
ne furono composti anche da Goethe, Platen, Rückert.
Sotto i Samanidi (874\1004) il cui potere si estese, nel periodo
di massima espansione, dall'India e dal Turkestan fino a Baghdad,
il persiano diventa lingua dell'amministrazione e della cultura.
La corte di Bokhara è per tutto il X secolo un grande centro
letterario: Rudagi, vigoroso poeta del vino e dell'amore; Daqiqi,
precursore di Abu'l Qasim; l'ignoto traduttore della Cro- naca
dello storiografo arabo Tà bari.
Abu'l Qasim, soprannominato "il paradisiaco" (Firdausi; di qui
l'italianizzazione di Firdusi), nacque a Tus [Khorasan] nel c.940,
morì nel c.1020. Sulla sua vita, intorno alla quale presto
fiorì la leggenda, non abbiamo notizie certe. Apparteneva
alla piccola nobiltà terriera iranica, fu uno dei poeti
che si raccolsero attorno alla corte di Mahmud di Ghazna (morto
nel 1030). Attorno a lui, terzo esponente della dinastia dei Ghaznavidi
(962-1186) succeduta ai Samanidi, si forma una vera e propria
pleiade di poeti persiani. Già i sovrani della precedente
dinastia dei Samanidi avevano incaricato un altro poeta, Daqiqi,
di mettere in versi l'antica storia dell'Iran preislamico, ma
l'opera era rimasta appena all'inizio. Fu compito di Abu'l Qasim
continuarla. Nacque così l'immortale Libro dei re (Shahnamah)
che raccoglie la maggior parte delle antiche leggende eroiche
dell'Iran. Esso fu completato nel 1010, secondo quanto si tramanda,
dopo 30 anni di lavoro. Per la stesura del lunghissimo poema,
che tratta delle vicende storico- leggendarie dell'Iran dalla
creazione del mondo alla conquista islamica, e che pone sulla
scena i grandi eroi dell'epica iranica, da Giamshid al diabolico
Afrasiyad, a Rustam (una specie di achille persiano), ai sovrani
storici parti e sassanidi, Abu'l Qasim usò varie fonti,
anche pre-islamiche. Lo stile del poema, in versi doppi a rima
baciata, è semplice e maestoso anche se piuttosto uniforme.
A differenza dei poemi omerici, non viene ritagliato un unico
episodio, ma tratta tutto l'insieme della tradizione come un'immensa
unità lineare, dove i miti antichi si trasformano in "annali"
e gli esseri favolosi in uomini [Del poema non esistono molte
traduzioni integrali. Tra queste, va segnalata quella di I. Pizzi
(Torino, 1887-8). Il più antico ma- noscritto conosciuto
è stato scoperto alla Biblioteca Nazionale di Firenze]
Cina
In Cina la situazione politica è decisamente tormentata.
Dopo anni di anarchia il paese è riunificato nel 960 sotto
la dinastia Sung. Dopo il 1127, perduti i territori settentrionali,
la corte si trasferisce nel sud dove lo stato cinese sussiste
fino alla conquista mongola di tutta la Cina, avvenuta nel 1279.
Lo stato Sung, politicamente e militarmente debole, è distrutto
dai barbari del nord.
La società civile di questo periodo è però
la più colta ricca e avanzata di tutta l'euroasia. Con
il neoconfucianesimo [ne furono rappresentanti intellettuali come
Chou Tun-i (1017\1073), Chang Tsai (1021\1077), Wang An-shih (1021\1086),
Ch'eng Hao (1032\1088); oltre ai successivi Ch'eng I (1033\1107),
Chu Hsi e Lu Chiu-yüan nel XII secolo] sono incorporati all'interno
del confucianesimo elementi taoisti e buddhisti, si arriva alla
crea- zione di una nuova metafisica e alla costruzione di grandi
sistemi filosofici. La prosa saggistica raggiunge il suo apice
con Su Shih, Ou-yang Hsiu, Lu Yu (1125\1210).
Su Shih, o, come volle farsi chiamare, Su Tung-p'o, nacque nel
1036 (morì nel 1101). Entrò giovanissimo nella carriera
amministrativa ma ebbe scarsi doti politiche e le proseguì
con alterne fortune, con importanti incarichi a corte alternati
a lunghi esili in regioni lontane. Non fu seguace di scuole, ma
dal taoismo assorbì l'amore per la natura e la sua produzione
letteraria risente di questo atteggiamento. Una delle sue composizioni
più celebri è Il 'fu' della Roccia purpurea (Ch'ih-pi
fu). Si servì anche del genere tz'u (poesia di metro irregolare
destinata al canto) per esprimere concetti e sentimenti elevati,
come nel famoso Pensando al passato vicino alla Roccia Purpurea
(Ch'ih-pi huai-ku), suggeritogli dallo stesso paesaggio del 'fu'
della Roccia Purpurea. Fu anche stilista impeccabile, tra gli
scrittori più raffinati dell'epoca Sung.
Ou-yang Hsiu (nato nel 1007, morto nel 1072) ricoprì importanti
cariche amministrative, diresse il comitato di studiosi incaricato
di compilare la Nuova storia delle Cinque Dinastie. Si dedicò
anche all'archeologia, pubblicando i testi di antiche iscrizioni
su bronzo da lui stesso rinvenute nel corso dei suoi viaggi. Dotato
di uno stile chiaro e fluente, scrisse numerosi saggi raccolti
in varie collezioni, la più nota delle quali è la
Raccolta dello studioso in ritiro (Chu shih chi). Due suoi fu,
genere in auge all'epoca della dinastia Han, e che O. modernizzò
con l'adozione del tono moralistico e degli eccessivi parallelismi
della frase, sono testi classici di tutte le antologie della letteratura
cinese. O. ha lasciato anche una raccolta di poesie nel genere
tradizionale shih. Seguace delle teorie di Han Yü(IX secolo)
sullo stile letterario, O. fu il caposcuola dei prosatori dell'epoca
Sung.
Numerosi sono i trattati di poetica e di critica letteraria. Importanti
la Storia della pittura e la Storia della calligrafia del grande
pittore Mi Fei (1051\1107). Si sviluppano gli studi storici e
archeologici con Ssu-ma Kuang (1019\1086) che fu politico oltre
che letterato. Capo del partito conservatore, strenuo avversario
del riformatore Wang An-Shih, fu anche cultore di poesia, ma la
sua vena manca di ispirazione reale. La sua fama è legata
soprattutto allo Specchio generale per l'arte del governo (Tzu-chih
t'ung-ch'ien), esposizione annalistica della storia della Cina
dal 403 (-) al 959 (+). Attenta nel vaglio delle fonti, di scrittura
chiara e agevole, la monumentale opera è uno dei fondamenti
della storiografia mondiale.
Tra gli altri studiosi dell'epoca: Chu Hsi (XII secolo), Ou-yang
Hsiu, Cheng Ch'iao (1104\1162) autore di un Trattato generale,
le Note epigrafiche di Chao Ming-ch'eng, il Catalogo archeologico
illustrato delle collezioni del palazzo imperiale.
Sono compilate grandi antologie e raccolte enciclopediche e bibliografiche:
Li Fang (925\996) è autore del T'ai-p'ing kuang-chi raccolta
di prosa narrativa, e del T'ai-p'ing yü-lan, una enciclopedia;
il dizionario Kuang- yün; le enciclopedie T'ung k'ao di Ma
Tuan-lin, e Yü-hai di Wang Ying-lin (1223\1296).
In poesia, oltre alle forme codificate dello shih, sono accolte
in letteratura nuove canzoni popolari popolari, gli tz'u. I poeti
più famosi sono Ou-yang Hsiu, Su Shih, Wang An-shih, Lu
Yu, e Li Ch'ing-chao (1081\1149).
Wang An-Shih era nato a Ts'in-kiang [Kiangsi] nel 1021 (morì
presso Nanchino nel 1086). Divenuto funzionario statale a livello
distrettuale con il sostegno del celebre statista e storico conservatore
Ou Yang-hsiu, di cui era allievo, ricoprì a partire dal
1069 la carica di 'gran cancelliere di corte': nel 1070-74 e poi
nel 1075-76 fu primo ministro. Delineate fin dal 1058 le basi
del suo programma politico in un'allocuzione al sovrano Jen Tsung,
il celebre "Memoriale dei diecimila caratteri" (Wan-yen-shu),
che raccomandava riforme radicali miranti a colpire gli interessi
dell'alta burocrazia, dovette attendere l'ascesa al trono del
nuovo imperatore Shen Tsung (1067) per cominciare una parziale
attuazione. Le sue riforme imponevano il contenimento delle spese
di corte e la lotta al peculato, l'abolizione delle corvé
es da sostituire con imposte personali, la repressione dell'usura,
la soppressione del monopolio del commercio del tè , l'ammodernamento
del sistema degli esami di stato per i funzionari, per sbloccare
l'irrigidito sistema burocratico feudale cinese. La reazione degli
alti funzionari-latifondisti e degli usurai fu veemente: capeggiati
da Ssu-ma Kuang fecero di tutto per sabotare le riforme, riuscendo
ad allontanarlo dal potere. La sua lungimirante opera di riformatore
fu la più audace dai tempi di Wang Mang (I secolo +) tanto
da essere apprezzata anche da autori cinesi del XX secolo come
Liang Ch'i-chao. Fu anche brillante autore di saggi sulla teoria
e la storia della letteratura cinese, di poemi e di prose.
Dagli hua-pen, canovacci scritti che servivano di base ai narratori
e ai cantastorie, si svilupperanno in seguito le novelle e il
romanzo. Gli hua-pen dell'epoca sono andati perduti; quelli che
possediamo oggi risalgono a un'epoca posteriore, pubblicati sotto
la dinastia Ming, probabilmente rielaborati.
Giappone
Al 905 risale in Giappone la raccolta poetica intitolata Raccolta
di poesie giapponesi antiche e moderne (Kokin-waka-shu, ma è
conosciuta anche come "Kokinshu"), curata da Ki-no-Tsurayuki (868?\945?),
primo teorico della poesia giapponese, su ordine dell'imperatore
Daigo (morto nel 930) insieme ad altri 3 collaboratori. L'antologia
comprende anche alcune poesie di Ki-no-Tsurayuki e soprattutto
una introduzione, vero e proprio saggio critico, in cui esaltò
le tradizioni poetiche del popolo giapponese. L'antologia comprende
1100 componimenti, in massima parte tanka, suddivisi in 20 libri
secondo il tema (stagioni, viaggi, encomi ecc.). La raccolta ha
come termine di riferimento evidente il "Man'yoshu" (Raccolta
di diecimila foglie, VIII secolo), è il migliore specchio
della poesia nel periodo Heian. Segna il di- stacco della poesia
giapponese dall'influsso cinese, l'affermarsi di uno stile formalmente
assai ricercato, talora intellettualistico, caratterizzato da
toni più delicati e sottili, secondo l'ideale estetico
in via di formazione del mono no aware: l'espressione/concetto
che significa 'commozione, simpatia per le cose'.
Il Diario di Tosa (c.935), scritto da Ki-no-Tsurayuki, descrive
il viaggio di ritorno di Ki-no da quella provincia: è la
prima opera in prosa della letteratura giapponese scritta nella
lingua nazionale anziché in cinese. Alla dama di corte
Murasaki Shikibu (c.978\c.1014) si deve la Storia di Genji (Genji
monogatari), una delle maggiori opere narrative della letteratura
mondiale.
Murasaki Shikibu
Appartenente alla nobile famiglia dei Fujiwara, Murasaki Shikibu
rimase precocemente vedova e, dopo un periodo di vita appartata,
nel 1008 entrò a corte come dama di compagnia di Akiko,
una delle mogli dell'imperatore Ichijo. Poco prima della morte
si ritirò a Kyoto, presso il padre. Oltre al romanzo ci
ha lasciato una raccolta di poesie e un Diario di corte (1008-9).
La "Storia di Genji", iniziato nel 1001, è diviso in 54
libri, di cui la parte maggiore (1-44) narra la vita del principe
Genji, chiamato anche, per la sua intelligenza cultura e bellezza
fisica, principe luminoso. Gli ultimi 10 libri sono dedicati alla
vita dei suoi eredi. La trama si fonda sulla fortuna mondana,
la caduta, la risalita al potere e la morte del principe galante,
cui fanno da cornice indimenticabili figure femminili tra cui
sono Aoi, la moglie legittima; Fujutsubo una concubina dell'imperatore,
padre di Genji, amante dello stesso Geji e a cui dà un
figlio; Murasaki la bellissima e sagace fanciulla allevata da
Genji nel suo palazzo, che ne diventa sposa, e la cui morte affretterà
la fine del principe. Negli ultimi 10 libri, chiamati "di Uji"
(per il luogo dove sorgeva il palazzo degli eredi di Genji) prevale
un'atmosfera di rassegnazione religiosa.
La prosa, molto scorrevole, è specchio del temperamento
riservato ma perspicace e forte di Murasaki, e del suo penetrante
spirito critico volto a indagare e descrivere realisticamente,
per la prima volta nella letteratura giapponese, la delicata ed
estetizzante società del tempo. La lingua usata è
quella parlata al tempo di Murasaki. Sulla fortuna dell'opera
nella storia della letteratura giapponese, basti dire che fino
ad oggi è considerata fonte d'ispirazione d'autenticità
nazionale; alcune delle opere più conosciute del teatro
no traggono il loro tema dal romanzo; la lingua, divenuta inintelligibile
con il tempo a causa dei mutamenti intercorsi, ha portato a un
proliferare di commenti filologici. Tra le versioni moderne più
note sono quelle della poe- tessa Yosano Akiko, e di Tanizaki
Junichiro.
Questo romanzo fu seguito da molte opere consimili. In quasi tutti
questi racconti (appartenenti al genere monogatari = 'racconti
di cose'), così come nei nikki (diari), al centro della
narrazione sono la corte imperiale o un eroe illustre, una famiglia
dominante, un personaggio influente. Così il Diario di
Sarashina (secolo XI), rievocazione di 36 anni della vita dell'autrice,
ormai vecchia, e che prende il nome dal distretto in cui il marito
si ammalò per spirare poco dopo, al ritorno da Kyoto.
Contesto storico: X-XI secolo europei
[1996]
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