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Paesi extraeuropei tra il X e l'XI secolo

Centri culturali cristiani extra-europei

Dall'Armenia, nonostante l'occupazione e la perdita dell'indipendenza, continua la produzione cristiana in armeno. All'XI secolo risale Gregorio di Narek (c.945\1010), monaco e poi superiore al convento di Narek, autore di 95 vibranti Elegie in prosa ritmiche e in versi che richiamano da vicino il libro biblico di Giobbe. Scrisse inoltre un commento al "Cantico dei cantici", numerosi panegirici, tra cui uno dedicato alla Vergine, inni liturgici e narrazioni a carattere storico-religioso. E' considerato il più grande poeta mistico armeno.
Nel 980, l'adesione della chiesa georgiana alla chiesa ortodossa di Bisanzio significò un nuovo periodo di produzione letteraria, religiosa, per la letteratura georgiana; centri culturali furono un monastero georgiano sul monte Athos e uno ad Antiochia. Nacquero opere originali, traduzioni e rielaborazioni di opere greche, revisioni di opere tradotte anteriormente dall'armeno ecc.; la fase aurea durò fino alla metà del XIII secolo.

Mondo arabo

In ambito culturale arabo, la poesia mira sempre più all'eleganza dell'espressione, alla ricercatezza del linguaggio, il contenuto sembra perdere d'importanza; il potere centrale del califfo si sgretola, le dinastie locali acquistano una loro indipendenza. Centro di cultura locale è la corte di Aleppo, con quello che è forse il massimo poeta arabo, al-Mutanabbi creatore di un'arte ingegnosa e suggestiva. Abu al-Tayyib al-Mutanabbi, il cui nome significa "colui che si spaccia per profeta", nacque a Kufa nel 905. Dopo l'avventura giovanile che gli valse il soprannome (fu tra i capi di un movimento insurrezionale religioso), visse come poeta di corte in Siria Egitto Baghdad Persia, cantando in elaborati e bellissimi versi le lodi di sovrani e mecenati. Morì in viaggio, presso Baghdad, nel 965, ucciso dai briganti. Al- Mutanabbi è considerato uno dei principali poeti della corrente neoclassica araba: in una lingua arcaizzante si destreggia tra le varie figure retoriche (soprattutto l'iperbole) con maestria, ma con una vena lirica limpida e genuina. La sua influenza ebbe seguito in tutta la produzione poetica araba successiva.
Apparizione solitaria e inattesa è quella di Abu al-Ala' al Ma'arri (nato a Ma'arret en Nu'man [Siria] nel 973, morto nel 1057-58) di cui abbiamo due raccolte: Lo scintillare dell'acciarino (Saqt az-Zand) che raccoglie le prime poesie meno originali, e Costrizione non obbligatoria (al-Luzumiyyat) che riflette il suo disprezzo per la vita, cantata con accenti colmi di amarezza e scetticismo: il titolo di quest'opera fa riferimento a una particolare rima che il poeta si è predeterminato di osservare. Suo è anche l'Epistola del perdono (Risalat al-ghufran) in prosa rimata, che narra il viaggio di un amico nell'oltretomba. Dato il tema, alcuni studiosi hanno ipotizzato una possibile fonte per la "Commedia" di Dante Alighieri.
Nel 1055 i turchi selgiuchidi entrano a Baghdad: inizia per il califfato una lenta decadenza. Il mondo della cultura ha però ancora una buona vitalità. Sono prodotte due grandi forme di pensiero, la "scolastica" e il "sufismo", congiunte nella rinascita "sunnita". Tra tutti spicca il nome di Ghazali (cioè Abu Hamid Muhammad ben Muhammad al-Ghazali, nato a Tus [Iran] nel 1058, morto nel 1111) che, con il suo grande oppositore Averroè (1126\1198) esercitò una enorme influenza sul pensiero filosofico dell'europa.
Ghazali, che era persiano di nascita, fu professore di diritto e teologia a Baghdad. Dopo un lungo periodo di vita ascetica e peregrinazione, trascorse gli ultimi anni della sua vita attorniato da pochi discepoli. Le sue numerosissime opere (di cui la più famosa è la monumentale Vivificazione delle scienze religiose) sono notevoli per il vigore e la sottigliezza della dottrina, e il grande spirito di tolleranza. Per questo è considerato un classico del sufismo. La sua lingua è semplice e chiara, talvolta vicina a quella parlata.
La poesia di disperse in giochi di abilità; fiorisce il persiano che diventa la nuova lingua dell'arte; la prosa si volge all'enciclopedismo e alla composizione erudita di immense raccolte; si impone la prosa rimata (sag') che raggiunse il massimo splendore nelle 50 elegantissime maqamat di Hariri (Abu Muhammad al-Qasim ibn 'Alì ibn Muhammad al-Hariri, nato a al-Masam [Bassora] nel 1054, morto a Bassora nel 1122). In esse, accogliendo la lezione di al-Hamadhani, portò alle estreme conseguenze la tendenza al preziosismo linguistico raggiungendo livelli di assoluta artificiosità. Hariri scrisse anche due trattati e alcune lettere in prosa ornata. Ahmad al-Hamadhani (nato a Hamadhan nel 968, morto a Herat nel 1008), nato e vissuto in Persia, era stato famosissimo ai suoi tempi, tanto da meritare l'appellativo di "meraviglia del secolo" (Badi 'az-Zaman): fu lui a dare forma definitiva e nome al genere poetico della maqama ("conversazione": maqamat è il plurale), breve composizione in prosa rimata che descrive una scenetta, per lo più di carattere realistico oppure fantastico. Con Hamadhani e soprattutto con Hariri diventa occasione per sfoggio di erudizione e virtuosismo stilistico e lessicale. Il genere ebbe notevole fortuna, anche in lingue non semitiche [In epoca moderna un certo numero furono tradotte da F. Rückert (1788-1866)]
In campo vastamente scientifico figura importante è quella di Al-Biruni (nato nel c.973). Egli stesso ci ha lasciato nel 1036 (a 63 anni) un catalogo della sua produzione: 103 titoli divisi in dodici categorie, dall'astronomia alla matematica, astrologia, aneddotica, cronologia. Scrisse la maggior parte delle opere in arabo, ma la sua lingua madre era il coresmio; conosceva perfettamente il persiano. Tra le sue opere, la Cronologia delle antiche nazioni è una delle più ricche raccolte documentarie sui calendari e sui sistemi cronologici dell'antichità: dinastie di sovrani, achemenidi, parti, sassanidi, romani, seleucidi ecc., elencate secondo più liste di differenti origini e provenienza, messe a confronto e commentate. Nelle sue opere religiose sono citazioni di prima mano dai testi sacri dello zoroastrismo, manicheismo, ebraismo, cristianesimo, buddismo, induismo. Scrisse inoltre un Libro delle istruzioni sui princì pi dell'arte dell'astrologia (Kitab al-Tafhim li-awa'il sina't al tanjim), di cui restano due versioni (una in arabo e l'altra in persiano): una prima parte dell'opera (in sette sezioni) si occupa di geometria, aritmetica, geografia, cronologia, astrolabio; la seconda parte (in cinque sezioni) riguarda l'astrologia: segni, pianeti, la fortuna, e l'astrologia giudiziaria.

Ebraismo: Babilonia

In Babilonia, all'interno delle comunità ebraiche stanziate, Sa'adjah ben Joseph al-Fayyumi, "gaon" (capo) dal 928 dell'accademia rabbinica di Sura (era nato a Faiyum [Egitto] nel 882, morì a Sura [Babilonia] nel 942) inaugura la filosofia della religione con il Libro delle credenze e delle opinioni, scritto in arabo, ormai lingua franca all'interno del vasto impero islamico, e che consentirà il passaggio del centro culturale e religioso ebraico dal Medioriente alla Spagna. Personalità complessa e enciclopedica, Sa'adjah ha lasciato opere fondamentali anche in campo filologico, con una grammatica ebraica e un lessico-rimario; nel campo degli studi giuridici ha scritto una introduzione al Talmud, e parecchi responsi. Tradusse in arabo la Bibbia, compose poesie religiose e profane. Molta di questa vasta produzione è andata perduta, in particolare quasi tutta quella poetica, di stile biblico rimato.

India

Per l'islam e la cultura araba è un momento sostanzialmente di stasi, ma da un punto altissimo di civiltà letteraria; senza contare la permanenza delle capacità espansive, religiose e culturali: tra XI e XV secolo l'islam penetra in India, gradualmente. Qui avverrà un processo di convergenza parziale tra due civiltà che mantennero tuttavia le proprie caratteristiche sostanziali distinte: l'islam incentivò nell'India il genere storico e biografico mentre l'induismo influenzò l'islam smussandone il carattere guerriero. Nell'XI secolo visse in India uno dei maggiori autori della letteratura mondiale, Somadeva. E un mistico e teorico dell'estetica come Abhinavagupta.

Somadeva

Somadeva era originario del Kashmir. Tra il 1063 e il 1081 compose il poema in versi l'Oceano dei fiumi di racconti (Kathasaritsagara), vera e propria collezione dell'intera novellistica indiana a lui precedente e contemporanea. In una cornice che si rifà manifestamente alla celeberrima e perduta "Brhatkatha" di Gunadhya (II-I secolo -), inserì secondo la tecnica 'a cassetti' assai affermata in India, numerosissimi racconti e fiabe, e persino raccolte complete come il "Pañ catantra" e la "Vetalapañ cavimsatika" (I venticinque racconti del vampiro). Si pensa che rifuse e rielaborò anche materiali composti nel rude dialetto delle montagne e oggi perduti, e nello stile prosastico e disadorno della katha (la storia): il tutto rielaborando in sanscrito letterario.
Sono storie di dèi e eroi, dèmoni notturni che banchettano con carne umana, animali parlanti, astuti mercanti pronti a trattare qualunque merce, fanciulle innamorate abilissime nello sventare intrighi, streghe beffarde, amanti traditi, re valorosi e creduloni, talismani meravigliosi che passano di mano in mano, cortigiane timide o avventurose, incantesimi che si ritorcono contro i maghi, viaggi per mare e attraverso i cieli, autò mi volanti e pesci giganteschi, serpenti cortesi e bambini prodigio. Le storie si incastrano con brio l'una nell'altra con una ricchezza stupefacente di digressioni e intrecci secondari. Si tratta di un'opera affascinante, unica non solo per ampiezza e varietà ma anche perché Somadeva è narratore vivace, scaltro, trasparente nello stile, e capace delle raffinatezze tipiche della letteratura d'arte (kavya) indiana. Il linguaggio è fiorito, denso di metafore, allitterazioni, connotazioni poetiche multiple. Tra gli artifici d'uso frequente troviamo il doppio senso, per espandere e far riverberare il contenuto di una stanza; le metafore che condensano l'immagine; le allitterazioni e ripetizioni ritmiche che aggiungono sonorità e enfasi all'enunciato. Di Somadeva del resto non abbiamo molte notizie. Lo stesso termine di chiusura dell'opera, il 1081, lo attribuiamo perché nell'Encomio con cui chiude l'opera, dichiara di aver voluto dettare il suo poema per consolare la regina Suryavati, che nel 1081 aveva sofferto del suicidio del marito, il re del Kashmir Ananta (la regina, madre dell'erede al trono, poi seguì il marito sul rogo come da consuetudine). Somadeva era un brahmano che viveva alla corte reale del Kashmir, terra di grande cultura e patria di poeti filosofi e critici letterari celebri. Fa parte della cerchia aristocratica intellettuale che a corte si diletta di lettere.
Il kavya, nel cui ambito Somadeva si muove, la prosa d'arte indiana, deriva terminologicamente dai kavi, gli antichi veggenti / poeti, i vati che ricevettero all'inizio dei tempi - secondo la leggenda - la Rivelazione dei "Veda", le sacre scritture dell'India, e le tramandarono ai posteri in versi sublimi. "Kavya" significa dunque nello stesso tempo sapienza, ispirazione profetica, intelligenza, poema, dramma, prosa d'arte. Secondo la concezione indiana, la parola poetica discende direttamente dal Verbo divino, Vac, la dea della parola cui sono dedicati molti inni del "Veda" e che è invocata all'inizio dell'"Oceano" di Somadeva.
Secondo l'analisi indiana dell'eccellenza poetica, la riuscita di un'opera d'arte dipende dalla grazia e dalla profondità con le quali si è saputo esprimere una verità d'ordine universale suscitando nel pubblico le emozioni appropriate alla situazione che le fa sorgere. Per una convenzione culturale particolare del mondo indiano, il modo di suscitare tali emozioni, ottenuto mediante determinati artifici retorici, fa sì che esse siano godute dall'ascoltatore o dallo spettatore (di un dramma) in modo impersonale, come fossero a un tempo sperimentate in prima persona e in maniera assolutamente distaccata. Questo particolare modo di godere delle emozioni, detto rasa (= sapore, gusto, succo, rapimento estetico), dopo secoli di accese discussioni da parte dei teorici indiani di letteratura sulla natura della poesia e della prosa d'arte, tra cui fu anche Abhinavagupta, è stato dichiarato l'essenza del kavya, la mèta dell'armonia che il poeta deve sforzarsi di raggiungere e di trasmettere al suo pubblico.
L'assenza di tratti 'personali' nel kavya è caratteristica del gusto di questa letteratura che riflette gli ideali di nobiltà e clero, le classi colte che scrivevano e leggevano il sanscrito. Togliere peso alla personalità per liberare l'individuo dalle peculiarità che lo rendono quell'essere particolare, è un fine perseguito da numerose scuole di pensiero indiane. Una credenza diffusasi in tempi molto antichi è quella di uno scorrere incessante di cicli di vita, morte e rinascita, dove l'individuo a ogni giro muta corpo e personalità come se gettasse abiti vecchi e consumati e ne indossasse di nuovi. Per l'indù come per il buddhista la vita è caratterizzata dall'impermanenza poiché è legata a un mondo in continuo mutamento. Far tacere quel che nell'uomo vi è di transitorio (il corpo, la personalità ) è privilegiare quello che rimane immutabile e unitario: significa avvicinarsi all'Assoluto immutabile e privo di qualificazioni. la qualità impersonale che contraddistingue questa particolare sensibilità artistica, risulta inoltre dalla visione secondo la quale i protagonisti dei racconti, che sono ritratti mentre vivono una delle loro innumerevoli vite particolari, sono però sempre considerati come portatori della totalità delle loro esistenze. Pur dopo molte sofferenze, errori, infinite rinascite, si fonderanno infine proprio come accade a tutti gli esseri creati, nell'eterna beatitudine dell'Assoluto. Quando il protagonista di un racconto, dopo numerose peripezie, ottiene il successo, è il gusto di quella fusione finale con l'Assoluto che si assapora: si legga per esempio la vicenda dell'eroe Saktideva che, superati due naufragi e molte terribili prove, riconquista l'amata, riceve la sovranità della Città d'Oro e diventa un semidio. I personaggi, quasi per raggiungere un maggior distacco emotivo e assurgere a quella universalità cui aspirano i cultori del kavya, non sono caratterizzati in quanto individui particolari, ma sono dei tipi umani, esemplificazioni del ruolo che sostengono nell'ordine socio-religioso indiano (le quattro caste del dharma - i sacerdoti, i guerrieri-re, i mercanti, i lavoratori liberi - più i pària fuoricasta). Le emozioni suscitate dalle varie situazioni dei racconti possono essere assaporate in modo distaccato anche perché ci sono certe aspettative, mai disattese, riguardo ai caratteri dei personaggi catalogati in tale schema sociale. Ogni tipo umano è contraddistinto dalle qualità e dai difetti che si immaginano connaturati al suo particolare ruolo dharmico. I brahmiani-sacerdoti sono dotti e pii ma collerici, i re coraggiosi giusti liberali ma facile preda delle passioni, i mercanti accorti ma codardi e avari, i lavoratori obbedienti e fedeli ma stupidi e ignoranti. Le donne, che appartengono a ciascuna di queste categorie, sono viste come affascinanti, sagaci, generose, devote ma inclini alla passionalità e alla gelosia. Vi è anche un'altra griglia in cui i tipi umani si collocano. Una suddivisione verticale che articola la vita di un uomo attraverso quattro tappe successive, anch'esse contraddistinte da doveri particolari e da caratteristiche proprie ai diversi gruppi d'età. Gli asrama (= stadi di vita) sono un modello esemplare di vita per gli uomini delle prime tre caste, quelli che ricevono l'iniziazione, ma non tappe obbligate. Nel primo il fanciullo iniziato diventa brahmacarin, studente della sacre scritture, che osserva il voto di castità; nel secondo diviene grhastha, padre di famiglia; nel terzo, alla nascita del figlio di suo figlio (ma ovvio pochi raggiungono questo stadio) può diventare un vanaprastha, eremita che si ritira a meditare nella foresta; nel quarto entra nella condizione del samnyasin, il rinunciante, il mendico errante senza fissa dimora che abbandona completamente il mondo e si dedica all'ascesi. Anche qui la tradizione letteraria ha fatto sedimentare un patrimonio di convenzioni tipizzanti basate su caratteristiche comuni alle varie età dell'uomo. Nell'"Oceano dei fiumi di racconti" ogni attività è permeata da un potenziale divino. L'ultimo sapore che deve rimanere ai lettori-ascoltatori, il rasa, il succo di tutti questi racconti, come in qualunque altra opera d'arte indiana che aspiri all'eccellenza, è la meraviglia, l'adbhutarasa, un reverente stupore dinnanzi al sublime gioco divino della creazione. Già nella prima stanza del poema rivela che è meritorio ascoltare questi racconti, vero nettare d'immortalità, perché chi saprà assaporarli pienamente otterrà rango divino già in questo mondo.
Al tempo di Somadeva un'opera in sanscrito, come l'"Oceano", si rivolgeva soprattutto al pubblico ristretto delle corti regali, composto di raffinati intenditori, i rasika (= coloro che sanno assaporare, coloro che hanno la stessa sensibilità e gusto). Persone in grado non solo di discutere nel merito di un testo ma anche di gareggiare in tenzoni letterarie. Del resto in sanscrito non era più la lingua parlata, locale, dell'India del nord almeno da un migliaio di anni da Somadeva, ma la lingua raffinata e regolarizzata verso il 500- dai grandi grammatici indiani (soprattutto Panini vissuto forse nel IV secolo -, e Patañ jali vissuto nel II secolo -). Una lingua sacra e artificiale, lingua perfetta (samskrta), mezzo di comunicazione dotta delle persone colte di tutta l'India e alto gioco letterario per intellettuali. Un pubblico così colto e sofisticato era in grado di cogliere in tutte le sfumature le sottigliezze di un testo poetico come l'"Oceano dei fiumi di racconti", anche perché era perfettamente al corrente della tradizione letteraria anteriore - cosa che non siamo più in grado noi di cogliere -. E' anche questa ricchezza di immagini sfolgoranti, che alludono e rimandano come balenii di luce a altre immagini note dal mito o dalla tradizione poetica, a generare la magia evocatrice della poesia sanscrita di questo testo.

Abhinavagupta

Tra i maggiori autori indiani che si occupano di teoria estetica, è Abhinavagupta. Egli visse nel Kashmir tra il X e l'XI secolo. Commentatore del "Natyasastra" di Bharata e del "Dhvanyaloka" di Anandavardhana, Abhinavagupta fu il pensatore che portò forse più a fondo in India la riflessione sull'esperienza estetica (il rasa) individuandola in una condizione di libertà dal tempo, dallo spazio e dalla connessione mentale causa-effetto. Tale condizione, «simile a un fiore nato per virtù di magia» è indotta nel lettore/ascoltatore, del testo poetico e/o del dramma teatrale, dal dhvani, il potere di «risonanza, suggestione, manifestazione» del linguaggio poetico. E eleva temporaneamente chi lo sperimenta a un piano di conoscenza analogo a quello offerto dall'esperienza religiosa, permettendogli di 'assaporare' i sen- timenti evocati senza esserne coinvolto e condizionato. Abhinavagupta fu anche un mistico importante. Seguace del tantrismo sivaita, fu autore dell'enciclopedica "La luce delle sacre scritture" (Tantraloka), e del più breve "L'essenza del tantra" (Tantrasara).

Persia

I massimi risultati culturali sono però dati dal persiano. La Persia era entrata nell'orbita araba nel 651. I primi due secoli dalla conquista araba erano stati di transizione: in questo periodo si forma una nuova lingua, il neopersiano, derivato dalla fusione della lingua del popolo con l'arabo; l'attività letteraria è favorita dalle varie corti locali che diventano autonome agli inizi del IX secolo per l'indebolimento dei califfi abbasidi di Baghdad. La produzione letteraria di questo periodo in Persia è cortigiana e colta: si sviluppano la lirica laudatoria (qasida e ghazal); la poesia epico-romanzesca e mistico-didattica con il masnavi (poema lungo) e la ruba'i (quartina) che raggiunge un alto valore espressivo; la prosa storica e d'arte. La qasida era un componimento dalla forma molto elaborata della poesia araba già in epoca preislamica. Normalmente comincia con una parte lirica (rimpianto per la partenza dell'amata e descrizione dell'accampamento deserto), poi descrive la cavalcatura con cui il poeta parte alla sua ricerca, infine passa allo scopo della poesia, che può essere panegirica, invettiva o altro.
Il ghazal (o ghazel)(in arabo significa "canto d'amore") divenne, nelle letterature persiana, turca e urdu, un breve componimento lirico monorimico, composto in genere di 8-10 versi. Caratterizzato da estrema raffinatezza formale, e dalla consuetudine di inserire nell'ultimo verso lo pseudonimo dell'autore, trae ispirazione dall'amore ma anche dal vino, o dallo splendore della natura, assumendo talvolta significati mistici. Tra i più famosi cultori di questo genere furono in seguito l'arabo Abu Nuwas, i persiani 'Attar, Rumi, Sa'di e Hafiz. Sull'esempio arabo-persiano ne furono composti anche da Goethe, Platen, Rückert.
Sotto i Samanidi (874\1004) il cui potere si estese, nel periodo di massima espansione, dall'India e dal Turkestan fino a Baghdad, il persiano diventa lingua dell'amministrazione e della cultura. La corte di Bokhara è per tutto il X secolo un grande centro letterario: Rudagi, vigoroso poeta del vino e dell'amore; Daqiqi, precursore di Abu'l Qasim; l'ignoto traduttore della Cro- naca dello storiografo arabo Tà bari.
Abu'l Qasim, soprannominato "il paradisiaco" (Firdausi; di qui l'italianizzazione di Firdusi), nacque a Tus [Khorasan] nel c.940, morì nel c.1020. Sulla sua vita, intorno alla quale presto fiorì la leggenda, non abbiamo notizie certe. Apparteneva alla piccola nobiltà terriera iranica, fu uno dei poeti che si raccolsero attorno alla corte di Mahmud di Ghazna (morto nel 1030). Attorno a lui, terzo esponente della dinastia dei Ghaznavidi (962-1186) succeduta ai Samanidi, si forma una vera e propria pleiade di poeti persiani. Già i sovrani della precedente dinastia dei Samanidi avevano incaricato un altro poeta, Daqiqi, di mettere in versi l'antica storia dell'Iran preislamico, ma l'opera era rimasta appena all'inizio. Fu compito di Abu'l Qasim continuarla. Nacque così l'immortale Libro dei re (Shahnamah) che raccoglie la maggior parte delle antiche leggende eroiche dell'Iran. Esso fu completato nel 1010, secondo quanto si tramanda, dopo 30 anni di lavoro. Per la stesura del lunghissimo poema, che tratta delle vicende storico- leggendarie dell'Iran dalla creazione del mondo alla conquista islamica, e che pone sulla scena i grandi eroi dell'epica iranica, da Giamshid al diabolico Afrasiyad, a Rustam (una specie di achille persiano), ai sovrani storici parti e sassanidi, Abu'l Qasim usò varie fonti, anche pre-islamiche. Lo stile del poema, in versi doppi a rima baciata, è semplice e maestoso anche se piuttosto uniforme. A differenza dei poemi omerici, non viene ritagliato un unico episodio, ma tratta tutto l'insieme della tradizione come un'immensa unità lineare, dove i miti antichi si trasformano in "annali" e gli esseri favolosi in uomini [Del poema non esistono molte traduzioni integrali. Tra queste, va segnalata quella di I. Pizzi (Torino, 1887-8). Il più antico ma- noscritto conosciuto è stato scoperto alla Biblioteca Nazionale di Firenze]

Cina

In Cina la situazione politica è decisamente tormentata. Dopo anni di anarchia il paese è riunificato nel 960 sotto la dinastia Sung. Dopo il 1127, perduti i territori settentrionali, la corte si trasferisce nel sud dove lo stato cinese sussiste fino alla conquista mongola di tutta la Cina, avvenuta nel 1279. Lo stato Sung, politicamente e militarmente debole, è distrutto dai barbari del nord.
La società civile di questo periodo è però la più colta ricca e avanzata di tutta l'euroasia. Con il neoconfucianesimo [ne furono rappresentanti intellettuali come Chou Tun-i (1017\1073), Chang Tsai (1021\1077), Wang An-shih (1021\1086), Ch'eng Hao (1032\1088); oltre ai successivi Ch'eng I (1033\1107), Chu Hsi e Lu Chiu-yüan nel XII secolo] sono incorporati all'interno del confucianesimo elementi taoisti e buddhisti, si arriva alla crea- zione di una nuova metafisica e alla costruzione di grandi sistemi filosofici. La prosa saggistica raggiunge il suo apice con Su Shih, Ou-yang Hsiu, Lu Yu (1125\1210).
Su Shih, o, come volle farsi chiamare, Su Tung-p'o, nacque nel 1036 (morì nel 1101). Entrò giovanissimo nella carriera amministrativa ma ebbe scarsi doti politiche e le proseguì con alterne fortune, con importanti incarichi a corte alternati a lunghi esili in regioni lontane. Non fu seguace di scuole, ma dal taoismo assorbì l'amore per la natura e la sua produzione letteraria risente di questo atteggiamento. Una delle sue composizioni più celebri è Il 'fu' della Roccia purpurea (Ch'ih-pi fu). Si servì anche del genere tz'u (poesia di metro irregolare destinata al canto) per esprimere concetti e sentimenti elevati, come nel famoso Pensando al passato vicino alla Roccia Purpurea (Ch'ih-pi huai-ku), suggeritogli dallo stesso paesaggio del 'fu' della Roccia Purpurea. Fu anche stilista impeccabile, tra gli scrittori più raffinati dell'epoca Sung.
Ou-yang Hsiu (nato nel 1007, morto nel 1072) ricoprì importanti cariche amministrative, diresse il comitato di studiosi incaricato di compilare la Nuova storia delle Cinque Dinastie. Si dedicò anche all'archeologia, pubblicando i testi di antiche iscrizioni su bronzo da lui stesso rinvenute nel corso dei suoi viaggi. Dotato di uno stile chiaro e fluente, scrisse numerosi saggi raccolti in varie collezioni, la più nota delle quali è la Raccolta dello studioso in ritiro (Chu shih chi). Due suoi fu, genere in auge all'epoca della dinastia Han, e che O. modernizzò con l'adozione del tono moralistico e degli eccessivi parallelismi della frase, sono testi classici di tutte le antologie della letteratura cinese. O. ha lasciato anche una raccolta di poesie nel genere tradizionale shih. Seguace delle teorie di Han Yü(IX secolo) sullo stile letterario, O. fu il caposcuola dei prosatori dell'epoca Sung.
Numerosi sono i trattati di poetica e di critica letteraria. Importanti la Storia della pittura e la Storia della calligrafia del grande pittore Mi Fei (1051\1107). Si sviluppano gli studi storici e archeologici con Ssu-ma Kuang (1019\1086) che fu politico oltre che letterato. Capo del partito conservatore, strenuo avversario del riformatore Wang An-Shih, fu anche cultore di poesia, ma la sua vena manca di ispirazione reale. La sua fama è legata soprattutto allo Specchio generale per l'arte del governo (Tzu-chih t'ung-ch'ien), esposizione annalistica della storia della Cina dal 403 (-) al 959 (+). Attenta nel vaglio delle fonti, di scrittura chiara e agevole, la monumentale opera è uno dei fondamenti della storiografia mondiale.
Tra gli altri studiosi dell'epoca: Chu Hsi (XII secolo), Ou-yang Hsiu, Cheng Ch'iao (1104\1162) autore di un Trattato generale, le Note epigrafiche di Chao Ming-ch'eng, il Catalogo archeologico illustrato delle collezioni del palazzo imperiale.
Sono compilate grandi antologie e raccolte enciclopediche e bibliografiche: Li Fang (925\996) è autore del T'ai-p'ing kuang-chi raccolta di prosa narrativa, e del T'ai-p'ing yü-lan, una enciclopedia; il dizionario Kuang- yün; le enciclopedie T'ung k'ao di Ma Tuan-lin, e Yü-hai di Wang Ying-lin (1223\1296).
In poesia, oltre alle forme codificate dello shih, sono accolte in letteratura nuove canzoni popolari popolari, gli tz'u. I poeti più famosi sono Ou-yang Hsiu, Su Shih, Wang An-shih, Lu Yu, e Li Ch'ing-chao (1081\1149).
Wang An-Shih era nato a Ts'in-kiang [Kiangsi] nel 1021 (morì presso Nanchino nel 1086). Divenuto funzionario statale a livello distrettuale con il sostegno del celebre statista e storico conservatore Ou Yang-hsiu, di cui era allievo, ricoprì a partire dal 1069 la carica di 'gran cancelliere di corte': nel 1070-74 e poi nel 1075-76 fu primo ministro. Delineate fin dal 1058 le basi del suo programma politico in un'allocuzione al sovrano Jen Tsung, il celebre "Memoriale dei diecimila caratteri" (Wan-yen-shu), che raccomandava riforme radicali miranti a colpire gli interessi dell'alta burocrazia, dovette attendere l'ascesa al trono del nuovo imperatore Shen Tsung (1067) per cominciare una parziale attuazione. Le sue riforme imponevano il contenimento delle spese di corte e la lotta al peculato, l'abolizione delle corvé es da sostituire con imposte personali, la repressione dell'usura, la soppressione del monopolio del commercio del tè , l'ammodernamento del sistema degli esami di stato per i funzionari, per sbloccare l'irrigidito sistema burocratico feudale cinese. La reazione degli alti funzionari-latifondisti e degli usurai fu veemente: capeggiati da Ssu-ma Kuang fecero di tutto per sabotare le riforme, riuscendo ad allontanarlo dal potere. La sua lungimirante opera di riformatore fu la più audace dai tempi di Wang Mang (I secolo +) tanto da essere apprezzata anche da autori cinesi del XX secolo come Liang Ch'i-chao. Fu anche brillante autore di saggi sulla teoria e la storia della letteratura cinese, di poemi e di prose.
Dagli hua-pen, canovacci scritti che servivano di base ai narratori e ai cantastorie, si svilupperanno in seguito le novelle e il romanzo. Gli hua-pen dell'epoca sono andati perduti; quelli che possediamo oggi risalgono a un'epoca posteriore, pubblicati sotto la dinastia Ming, probabilmente rielaborati.

Giappone

Al 905 risale in Giappone la raccolta poetica intitolata Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne (Kokin-waka-shu, ma è conosciuta anche come "Kokinshu"), curata da Ki-no-Tsurayuki (868?\945?), primo teorico della poesia giapponese, su ordine dell'imperatore Daigo (morto nel 930) insieme ad altri 3 collaboratori. L'antologia comprende anche alcune poesie di Ki-no-Tsurayuki e soprattutto una introduzione, vero e proprio saggio critico, in cui esaltò le tradizioni poetiche del popolo giapponese. L'antologia comprende 1100 componimenti, in massima parte tanka, suddivisi in 20 libri secondo il tema (stagioni, viaggi, encomi ecc.). La raccolta ha come termine di riferimento evidente il "Man'yoshu" (Raccolta di diecimila foglie, VIII secolo), è il migliore specchio della poesia nel periodo Heian. Segna il di- stacco della poesia giapponese dall'influsso cinese, l'affermarsi di uno stile formalmente assai ricercato, talora intellettualistico, caratterizzato da toni più delicati e sottili, secondo l'ideale estetico in via di formazione del mono no aware: l'espressione/concetto che significa 'commozione, simpatia per le cose'.
Il Diario di Tosa (c.935), scritto da Ki-no-Tsurayuki, descrive il viaggio di ritorno di Ki-no da quella provincia: è la prima opera in prosa della letteratura giapponese scritta nella lingua nazionale anziché in cinese. Alla dama di corte Murasaki Shikibu (c.978\c.1014) si deve la Storia di Genji (Genji monogatari), una delle maggiori opere narrative della letteratura mondiale.

Murasaki Shikibu

Appartenente alla nobile famiglia dei Fujiwara, Murasaki Shikibu rimase precocemente vedova e, dopo un periodo di vita appartata, nel 1008 entrò a corte come dama di compagnia di Akiko, una delle mogli dell'imperatore Ichijo. Poco prima della morte si ritirò a Kyoto, presso il padre. Oltre al romanzo ci ha lasciato una raccolta di poesie e un Diario di corte (1008-9). La "Storia di Genji", iniziato nel 1001, è diviso in 54 libri, di cui la parte maggiore (1-44) narra la vita del principe Genji, chiamato anche, per la sua intelligenza cultura e bellezza fisica, principe luminoso. Gli ultimi 10 libri sono dedicati alla vita dei suoi eredi. La trama si fonda sulla fortuna mondana, la caduta, la risalita al potere e la morte del principe galante, cui fanno da cornice indimenticabili figure femminili tra cui sono Aoi, la moglie legittima; Fujutsubo una concubina dell'imperatore, padre di Genji, amante dello stesso Geji e a cui dà un figlio; Murasaki la bellissima e sagace fanciulla allevata da Genji nel suo palazzo, che ne diventa sposa, e la cui morte affretterà la fine del principe. Negli ultimi 10 libri, chiamati "di Uji" (per il luogo dove sorgeva il palazzo degli eredi di Genji) prevale un'atmosfera di rassegnazione religiosa.
La prosa, molto scorrevole, è specchio del temperamento riservato ma perspicace e forte di Murasaki, e del suo penetrante spirito critico volto a indagare e descrivere realisticamente, per la prima volta nella letteratura giapponese, la delicata ed estetizzante società del tempo. La lingua usata è quella parlata al tempo di Murasaki. Sulla fortuna dell'opera nella storia della letteratura giapponese, basti dire che fino ad oggi è considerata fonte d'ispirazione d'autenticità nazionale; alcune delle opere più conosciute del teatro no traggono il loro tema dal romanzo; la lingua, divenuta inintelligibile con il tempo a causa dei mutamenti intercorsi, ha portato a un proliferare di commenti filologici. Tra le versioni moderne più note sono quelle della poe- tessa Yosano Akiko, e di Tanizaki Junichiro.
Questo romanzo fu seguito da molte opere consimili. In quasi tutti questi racconti (appartenenti al genere monogatari = 'racconti di cose'), così come nei nikki (diari), al centro della narrazione sono la corte imperiale o un eroe illustre, una famiglia dominante, un personaggio influente. Così il Diario di Sarashina (secolo XI), rievocazione di 36 anni della vita dell'autrice, ormai vecchia, e che prende il nome dal distretto in cui il marito si ammalò per spirare poco dopo, al ritorno da Kyoto.

Contesto storico: X-XI secolo europei

[1996]

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