Rutilius 
              Claudius Namatianus 
            
             
             
               
                
                   Rutilius Claudius Namatianus 
                
                Rutilius Claudius Namatianus era di origine 
                gallica, probabilmente di Tolosa, proveniente da una ricca famiglia 
                di latifondisti. Fu, benché pagano, 'praefectus Urbi' nel 
                414 ma l'anno seguente o poco dopo lasciò Roma per far 
                ritorno alle sue terre nella Gallia devastata dai vandali. Tale 
                viaggio fu fatto per mare con numerose soste, ed è descritto 
                ne  Il suo ritorno (De reditu suo), componimento in distici 
                elegiaci (circa 700) che si interrompe al verso 68 del II libro 
                con l'arrivo a Luni [La Spezia]. In un altro frammento (ritrovato 
                di recente) descrive la prosecuzione del viaggio fino ad Albenga. 
                L'inizio è mutilo, mentre la seconda parte (per quel che 
                ce ne è rimasto) ha un carattere maggiormente riflessivo. 
                Ricco di osservazioni topografiche e di reminiscenze classiche, 
                il poemetto, che fu scoperto nel 1493, raggiunge toni più 
                commossi dove esprime la costernazione di fronte allo squallore 
                dei tempi, attribuito ai barbari e alla decadenza dei culti e 
                dei valori pagani tradizionali, e soprattutto nel celebre saluto 
                a Roma. Domina non tanto un sentimento di nostalgia, ma l'apprensione 
                di chi vuole scavare le ragioni della rovina di una civiltà, 
                le ragioni di una sconfitta. Namatianus si trova sospeso, tra 
                il 'genius urbis' rappresentato dall'epifanica Roma ("grazie ai 
                tuoi templi non siamo lontani dal cielo") e la patria dell'infanzia. 
                Il suo viaggio necessario rimanda al genere dei "nostòi", 
                i ritorni delle narrazioni classiche dei poemi omerici, ma incarnati 
                in un momento specifico, concreto della storia e non nel mito, 
                in lui domina lo spaesamento e la disperazione solo parzialmente 
                moderata dalla necessità di ricostruire («è tempo 
                di costruire, dopo i feroci incendi, sui fondi laceri | anche 
                soltanto casette di pastori...»). Nel suo viaggio, i vari porti 
                e le città, devastate e immiserite. A Capraia la scoperta 
                di un nuovo soggetto storico, i monaci: «isola di squallore per 
                la piena di uomini che fuggono la luce |[...]| per voler vivere 
                soli, senza testimoni.| Della fortuna, se temono i colpi, paventano 
                i doni.| Si fa qualcuno da sé infelice per non esserlo?». 
                Ovunque, il segno della desolazione: 
 «Non si possono più riconoscere i monumenti 
                  dell'epoca trascorsa, | immensi spalti ha consunto il tempo 
                  vorace. | Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri, | 
                  giacciono tetti sepolti in vasti ruderi. | Non indignamoci che 
                  i corpi mortali si disgreghino: | ecco che possono anche le 
                  città morire».  
              
               
              Contesto storico: IV-V secolo  
              
                [1996]
              
              
             
            
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