Una
libertà sopravvissuta ai colonnelli, di Massimo Raffaeli
Una libertà sopravvissuta ai colonnelli
Scritto nel 1966 da Vassilis Vassilikos, riedito da Feltrinelli
per ben tre volte solo nel 1969, quindi passato ai tascabili
e, infine, caduto nell'oblio. Manifesto di un'epoca e di
una generazione, oggi «Z. l'orgia del potere»,
il romanzo dedicato al caso Lambrakis, torna in libreria.
Per Bietti
di MASSIMO RAFFAELI, pubblicato da Il Manifesto, 8 agosto
2003
Chi si fosse trovato, nelle mattine d'estate di una trentina
d'anni fa, ad osservare le operazioni di imbarco in un qualsiasi
porto dell'Adriatico, per esempio in quello di Ancona, avrebbe
potuto notare che sul lunotto o la cabina dei Tir in partenza
per la Grecia era spesso stampata a decalcomania una minuscola,
e però ben visibile, lettera zeta. Si trattava di
un messaggio in codice e, insieme, di un segno di riconoscimento:
zeta, in greco, sta per «zei» e significa «vive»,
o meglio ancora «lui vive».
L'allusione (chiara solo a chi aveva già visto
il film di Costa Gavras Z. L'orgia del potere, 1969) si
riferiva all'omicidio di Grigorios Lambrakis, il deputato
del raggruppamento di sinistra (EDA), ucciso a Salonicco
la sera del 22 maggio 1963 da un gruppo semiclandestino
di estremisti di destra con la copertura, e l'occulta regia,
di cospicui settori delle forze armate e della polizia,
i quali avevano avvalorato la tesi dell'incidente stradale
nel corso di disordini successivi ad un comizio: le quattrocentomila
persone accorse ad Atene per i funerali del deputato, lo
scandalo internazionale, il lavoro di diversi giornalisti
non ancora imbavagliati e soprattutto il coraggio di un
giovane giudice istruttore (destinato a divenire nientemeno
Presidente della Repubblica Greca, Christos Sartzetakis
) avevano comunque garantito un processo e, almeno in primo
grado, la condanna e la carcerazione degli esecutori materiali
nonchè di alcuni responsabili in alto loco. Breve
illusione: dopo i fragili governi, in alternanza, del conservatore
Karamanlis e del progressista Papandreu, la Grecia , fra
il `67 e il `74, giace sotto la dittatura dei colonnelli,
tragica conclusione di un conflitto politico e sociale che
si era innescato, nei modi di una vera e propria guerra
civile, a ridosso della Liberazione, dal `45 al `49. Perciò
la zeta brandita dai Tir era simbolo di resistenza ma anche
un segno fuori orbita della Guerra Fredda, gravido di spettri,
gli stessi del fascismo redivivo fuori o dentro la cornice
garantita dai due blocchi e dalla cosiddetta coesistenza
pacifica, fossero appunto i dittatori iberici, i gorilla
ellenici (facce livide e unte, occhiali a specchio) o quelli
apertamente sanguinari dell'America latina, i Pinochet,
i Bordaberry, infine i Videla.
Per altra via, quel simbolo non poteva non avere risonanza
interna, al tempo delle stragi di stato, dei servizi segreti
deviati e della complessiva strategia della tensione: il
caso Lambrakis aveva più di un tratto in comune con
la vicenda di Pietro Valpreda e un film di Elio Petri -
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, premonizione
in grottesco dello stato di polizia - era uscito pochi mesi
dopo l'opera di Costa Gavras, quest'ultima apprezzata dal
pubblico genericamente progressista ma accusata di schematismo,
retorica umanitaria e di aperto compromesso col mercato
(nel film, rotagonista è Yves Montand, il giudice
è Jean-Louis Trintignant) dai critici della sinistra
di classe, come Adelio Ferrero, firmatario di una gelida
stroncatura (ora in Dal cinema al cinema, a cura di L. Pellizzari,
Longanesi 1980): «L'assassinio di Lambrakis non riesce
infatti a divenire significante, malgrado la generosa prestazione
di Yves Montand e degli altri interpreti, nella misura in
cui la dialettica, politica e sociale, delle forze in campo
si traspone, vanificandosi, sul piano di uno scontro fra
umanità e giustizia da un lato e brutalità
e violenza dall'altro. (...) E lo stesso protagonista, il
leader assassinato, risulta una sorta di malinconico e puro
cavaliere dell'ideale, animato da un pacifismo nobile quanto
inerme che non diventa motivo di riflessione critica.(...)
Se è proprio di tale cinema gastronomico edulcorare
le lacerazioni e i problemi dell'epoca filtrandoli attraverso
la genericità, robusta o tenue che sia, di una drammaturgia
di comodo, in cui tutte le parti sono già fissate
e sempre al di fuori o al di sopra di uno spazio e di un
tempo incombenti, anche Z rientra con pieno diritto in quella
dimensione.» Era per l'appunto un tentativo fallito
di cineverità, un dossier manicheo che si limitava
a discriminare tra Don Chisciotte eterno idealista (Lambrakis
era un uomo bellissimo, scienziato ed ex campione di atletica,
oratore affascinante,
ideologo dei «Partigiani della pace») e i trucidi
Sancho Panza della canaglia fascista, vale a dire un prodotto
astutamente depotenziato e sottilmente mistificato, anche
se a misura degli spettatori che, nel palinsesto democlericale
dell'Italia di allora, trovavano respiro nelle nicchie di
Tv 7 o di Settimo giorno; ma poteva essere, altrettanto,
un distintivo per i ragazzi che manifestavano contro le
stragi e la guerra in Vietnam, coloro che sentivano minacciato
il presente e oscuramente ipotecato l'avvenire, memori senza
volerlo del detto brechtiano secondo cui, nella pace apparente,
continua ad essere fecondo il ventre della belva che partorì
fame e strage. Il film, alla pari di altri, costituiva un
pretesto, pure se un nobile pretesto; induceva a schierarsi,
quasi per riflesso condizionato, ma a rivederlo oggi è
difficile confutare la diagnosi spietata di Ferrero.
Differenti il valore e il senso del romanzo di cui rappresentava
appena lo scheletrico plot. Aveva scritto Z, nel `66, un
esule greco a Parigi di trentadue anni, Vassilis Vassilikos,
vocato ad una produzione copiosa quanto diseguale e a una
parabola ideologica che via via spegnerà gli ardori
sinistrorsi della sua adolescenza mescolata agli operai
di Salonicco (anche se, va aggiunto, lo scrittore mai pronuncerà
formale abiura per divenire un rinnegato alla Theodorakis).
Il libro esce con l'avallo dell'intellighenzia, che scommette
sul contenuto e ne ignora la fattispecie linguistica e stilistica.
(Così lo recensisce Margherite Duras: «Un libro
ammirevole, completo, che ha ottenuto il suo scopo: far
luce su un momento storico, di notevolissima importanza,
di cui il mondo intero ha parlato ma che bisognava proteggere
dall'erosione del tempo.»); in Italia lo propone Feltrinelli
nella versione dal francese di Elena Baruchello: ben tre
edizioni nel solo 1969, collana «I Narratori»,
poi il passaggio ai tascabili in concomitanza con il lancio
del film, e infine, già negli anni ottanta, un lento
e inesorabile oblìo. Z torna adesso in libreria grazie
a un'edizione completamente rinnovata ( traduzione di Francesco
Maspero e Spiridon Tsembertzis, Bietti, pp. 406, euro 18.00)
che mostra un paio di vistosi difetti (un sottotitolo che
in realtà non esiste, L'orgia del potere, se non
nella mediocre inventiva dei cinematografari italiani; una
versione talora ingessata, un po' scolastica) ma ha anche
il pregio di essere dedotta per la prima volta dall'originale
in neogreco. Detto in una parola, tanto era schematico Costa
Gavras quanto invece è complesso, ai limiti della
polifonia, Vassilikos.
Il romanzo procede per inserti e bruschi cambi del registro,
alternando terza persona e prospettiva autocentrata, zone
di vissuto lirico effusivo e blocchi di nudo reportage.
Allo stesso modo, i personaggi funzionano in maniera bivalente,
da un lato quali attori di una cronaca peraltro risaputa
e vista dall'esterno, dall'altro come tessere di un mosaico
allegorico ripensato dall'interno e smarcato, in sostanza,
dalla puntualità del caso Lambrakis.
Basterebbero i nomi non-anagrafici e la scelta di appellativi
tratti dal mondo vegetale e animale per dire di una scelta
che, semmai, mira a effetti di realismo sconvolto o di iperrealismo,
forma tipica della letteratura che persegue esiti sapienziali
e morali prima che intellettuali e politici. Se la minaccia
comunista, fin dall'incipit, è infatti assimilata
all'invasione della peronospora, d'altro lato Dinosauri,
Ittiosauri, Brontosauri, compreso un gigantesco Tirannosauro,
sono gli indici e i vettori feroci di un universo che per
sopravvivere ha bisogno di divorare ed autodivorarsi.
Peronospora e mostri jurassici costituiscono i due estremi
di una medesima
allucinazione, e di una simmetrica degenerazione.
Perché la lotta non si dà tra Bene e Male,
come vorrebbero il senso comune, la veloce imbastitura del
film o il livello più superficiale del romanzo, né
la vera posta in gioco è la rivoluzione; al contrario,
la disputa si traduce nella lotta fra la statica della natura
(cioè il Potere, l'atavismo, la metafisica delle
radici) e la dinamica della cultura che se ne alimenta lavorandola,
trasformandola e per così dire umanizzandola. L'autentica
posta in gioco è la naturalezza, la piena misura
umanistica. Per questo, il Generale che progetta l'attentato,
gli scherani, la feccia sottoproletaria che si lascia usare
e armare, sono agli occhi di Vassilikos il Bios, il fondo
limaccioso dell'essere, la pura e semplice disperazione
biologica.
(Ecco il Generale mentre scruta un subalterno e complice:
«Non nutriva, per la verità, nessuna stima
per quel vermiciattolo desideroso di ali. Ma gli era indispensabile.
Era il suo occhio nel fango, là dove pullulavano
unicellulari di ogni genere: ciliati, protozoi, sporozoi
e saprofiti. Lo conosceva fin dal tempo dell'Occupazione
quando militava nei reparti collaborazionisti.»);
per l'identico motivo, la figura di Lambrakis rappresenta
l'antipode del Bios in quanto incarna lo zei, cioè
il vivere una vita compartecipe e redenta da idee/sentimenti/
progetti: essi non si leggono tanto nelle parole espresse
al comizio-testamento del 22 maggio `63 (persino ovvio che
un «partigiano della pace» invocasse il disarmo
e la Grecia fuori dalla Nato, che un medico impegnato a
sinistra esigesse più scuole e migliori ospedali)
quanto nelle lettere che sua moglie gli indirizza dopo l'assassinio,
belle e stravolte da una passione che nemmeno la luce dell'Egeo
sa accecare, scritte nei modi di una restituzione postuma
ma anche di un vitalissimo éclatement, laddove vibra,
andando in folle, tutto un insieme di colori, sapori, gesti
elementari e torna come con rimorso l'intreccio di idee,
legami e pulsioni che solo un universo concentrazionario
(un Potere che si dia quale Natura intangibile, increrata)
può voler annientare alla stregua di infezioni e
pericolose epidemie. E' ciò che chiamiamo semplicemente
il vivere, il più usuale e pertanto dignitoso.
Dunque tra il mondo dei Dinosauri e il mondo in cui dura
il ricordo dell'individuo siglato con Z. passa la differenza
che c'è tra l'agire crudamente la natura, esaltandone
la violenza, e accettarne invece la forza dentro un umanissimo
obbedire-reagire; ancora una volta, il conflitto esplode
tra Bios e Zei, coercizione e libertà. Nel romanzo
non esiste, ma il film di Costa Gavras reca nei titoli di
coda il catechismo delle cose proibite in Grecia dai colonnelli.
Vale rammentarne alcune: i capelli lunghi, le minigonne;
Eschilo, Sofocle, Euripide, Tolstoj, Dostoevskij, Sartre,
Jonesco; i Beatles, la musica pop, Zorba il greco di Theodorakis;
dire che Socrate era omosessuale; la matematica moderna;
imparare il bulgaro, il russo e il rompere i bicchieri alla
russa; la libertà politica, sindacale e di stampa;
i movimenti per la pace; e la lettera Z che vuol dire «è
vivo» in greco antico. Perfettamente ignari del romanzo
di Vassilikos, a queste cose tuttavia pensavano, sul principio
degli anni settanta, i ragazzi del porto di Ancona mentre
vedevano sfilare i camion con lo stemma ereditario di Lambrakis.
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