Pier
Paolo Pasolini: Opere teatrali
Pier Paolo Pasolini: Opere teatrali
Pasolini tentò anche l'esperienza teatrale,
scrivendo tragedie in versi che proiettano nel mito la complessità
delle problematiche psicologiche e ideologiche tipiche della sua
opera. L'operazione teatrale di Pasolini deriva come nel resto
delle operazioni pasoliniane da una precisa riflessione sul genere.
Nel «Manifesto per un nuovo teatro», uscito
su «Nuovi argomenti» nel gennaio-marzo 1968, Pasolini si oppone
al «teatro della Chiacchiera» (definizione mutuata da Moravia)
cioè al teatro borghese, e contro il «teatro del Gesto
o dell'Urlo» antiborghese. Le idee di Pasolini sul teatro si collocano
all'interno del processo intellettuale pasoliniano nell'ultima
parte della sua vita. Di fronte alle semplificatorie contrapposizioni
tra teatro borghese e dell'establishment, e teatro 'contro', Pasolini
si pone su una terza via: egli vedeva nei due tipi di teatro le
due facce di una stessa medaglia, ovvero il teatro (e non solo)
che si poneva 'contro' l'establishment in realtà come dialettica
interna (e non esterna, e dunque di rottura reale con quell'altro
teatro) al teatro borghese. La terza via pasoliniana si pone in
consonanza, anche se su strade diverse, di una ricerca culturale
e ideologica (politica e sociale) che è stata nella cultura
italiana in quegli anni, e che nel panorama europeo è stato
tra i tentativi più interessanti degli anni '60-80.
Pasolini riteneva che con Brecht e la sua
teoria dello straniamento si fosse consumata l'ultima possibilità,
per il teatro borghese, di rinnovarsi dall'interno. Era necessario
fare un'opera di demistificazione, attraverso la quale sarebbe
stato chiaro che il teatro in quanto teatro, si fondava ormai
sul nulla. Esso, sia nella sua accezione borghese che antiborghese,
non esisteva più in quanto prodotto organico (il termine
è di derivazione gramsciana) di un contesto sociale, ma
come frutto di un atto di volontà: «il teatro è
il teatro»: solo in termini tautologici il senso comune riusciva
a spiegare che cosa fosse il teatro. Per opporsi alla «chiacchiera»
del teatro ufficiale i gruppi che si riunivano allora nelle cantine
(il teatro underground) - tra cui però non mancavano oggetti
di ammirazione per Pasolini come lo «stupendo» Living Theatre,
Grotowsky e il «caso straordinario» di Carmelo Bene - intendevano
recuperare attraverso la disarticolazione del linguaggio e la
presenza ossessiva del corpo, le radici orgiastiche propiziatorie
magiche dionisiache, cioè 'religiose' del teatro, espunte
dalla tradizione borghese che a partire da Shakespeare e Calderón
fonda il teatro come «rito sociale». Secondo Pasolini, questo
tentativo rifondatore è destinato al fallimento: non potendo
recuperare 'organicamente' le sue radici religiose, il «teatro
del Gesto o dell'Urlo» finiva intellettualisticamente per affermarsi
in quanto «rito teatrale»: la sua religione era il teatro. In
questo non si differenziava dal teatro borghese. Il teatro borghese,
privo della sua funzione sociale che non fosse una epigonale e
deprimente «chiacchiera» mondana promossa «dallo spirito conservatore
borghese», spiegava «la sua presenza e la sua prestazione (così
poco richiesta) come un atto mistico: una 'messa teatrale', in
cui il Teatro appare in una luce così abbagliante da accecare
completamente». Se l'attore tradizionale, nel recitare «sente
vagamente di non partecipare più a un avvenimento sociale,
trionfante e del tutto giustificato», reagisce con una falsa coscienza
«intransigente, demagogica, e quasi terroristica» della «verità»
del Teatro.
Contro il teatro borghese e quello antiborghese
complementare, Pasolini teorizzò il «teatro di Parola».
Allo stesso modo, polemicamente contro l'industria cinematografica,
aveva inventato il «cinema di poesia». Il «teatro di Parola» si
proponeva di rinunciare all'intero apparato del teatro «naturalistico»:
scenografie, costumi, musiche, azione scenica. Per rimettere al
centro come cuore pulsante la parola ormai elusa nella «chiacchiera»
o nell'«urlo». Pasolini diceva di rifarsi «con candore neofitico»
alla tragedia greca, il «teatro della democrazia ateniese», eclissando
l'intera tradizione del teatro borghese.
E' un momento, la seconda metà degli
anni '60, in cui molto problematicamente si pone per lui, nel
cinema, il problema del destinatario. Al «popolo» subentrava la
«massa», un indistinto pubblico piccolo-borghese contro cui realizzerà
nel 1968-1969 i suoi films più esclusivi, complessi, d'
'avanguardia' ("Teorema" e "Porcile"). Il pubblico teatrale, per
quanto coinvolto da questa modificazione «antropologica» che rende
insensato il teatro nella sua accezione borghese come «rito sociale»,
è ancora un pubblico borghese tradizionale (a teatro va
nell'Italia di quegli anni la medio e alta borghesia), da riconoscere
con la «chiacchiera» o scandalizzare con l'«urlo». Il «teatro
di Parola» rinuncia a questo destinatario: il suo pubblico è
costituito dai gruppi avanzati della borghesia (gli intellettuali)
e, attraverso di essi la classe operaia. Per la classe operaia
Pasolini rievoca nel suo "Manifesto", contro «un operaismo dogmatico,
stalinista, togliattiano [...] la grande illusione di Majakowskij,
di Esenin».
Per Pasolini il teatro di «Parola» è
una rappresentazione che, a partire dal «rito politico» della
tragedia greca ormai irrecuperabile storicamente, si propone come
«rito culturale». Il suo «spazio teatrale» non è nell'ambiente
ma nella testa. I reali personaggi di questo teatro sono le idee.
Il rapporto tra autore e spettatori, che appartengono alla stessa
classe intellettuale, è più critico che rituale.
Il mediatore (l'attore) deve cambiare pelle: non più portatore
del Verbo teatrale ma semplicemente un «uomo di cultura» che comprende
il testo, facendosene «veicolo vivente». Lo spazio teatrale è
«frontale»: attori e spettatori hanno una assoluta parità
culturale.
Pasolini, come sempre, non si limita alle
considerazioni teoriche, ma cerca di attuare queste sue considerazioni
in opere. Nel 1965-1966 sono la serie delle opere scritte per
il "teatro di Parola". Si tratta dei testi teatrali Calderon,
Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile. E "Affabulazione".
Affabulazione, scritto nel 1965-66, fu pubblicato
solo anni dopo. E' la storia di un ricco industriale lombardo,
che improvvisamente sente di non governare più il rapporto
con il figlio adolescente. Il fatto che questo abbia una ragazza
e con lei viva la propria sessualità, fa scattare in lui
una specie di Edipo rovesciato, dove è il padre attore
e protagonista. Il desiderio di possedere la sessualità
o il sesso del figlio lo porta a abbandonare la fabbrica e le
proprietà, per entrare in una dimensione misticamente accesa
che porterà al sangue e alla definitiva emarginazione.
La scoperta dell'autonoma sessualità del ragazzo mette
in crisi il padre, che vi identifica il definitivo distacco ombelicale
di quello da sé e la propria perdita di potenza (sessuale
e politica): solo il sangue può sciogliere quel nodo. Il
padre rimane solo, dopo i vent'anni di galera cui è stato
condannato per quella uccisione del figlio che egli stesso ha
definito «regicidio», e che dal mito Edipo lo ha fatto passare
a quello di Ercole nelle "Trachinie": vive in un vagone ferroviario,
abbandonato persino dal barbone Cacarella.
© Antenati, 1995-6
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