Documenti: la morte di Giorgio Gaber
fonte: LaRepubblica.it, articolo di Marco Bracconi, 1 gennaio
2003
L'attore si è spento a 63 anni dopo una lunga malattia
Dopo gli esordi e il successo in tv, solo sul palcoscenico
E' morto Giorgio Gaber
Una vita nel teatro-canzone
L'ultimo disco, "Io non mi sento italiano", uscirà
postumo
di MARCO BRACCONI
Giorgio Gaber non era un pollo d'allevamento. Aveva scelto
di non esserlo all'inizio. Quando il successo era già
arrivato. Quando era già una faccia, quella sua bella
faccia con il nasone enorme, da festival di Sanremo o da varietà
anni Sessanta. Ma non era quello il successo che Giorgio Gaberscik,
in arte Gaber, classe 1939, meneghino doc, voleva davvero.
Non voleva pailette e lustrini, insomma, ma il palcoscenico.
Era il teatro quello che voleva. Per cantare come un attore.
E per recitare come un cantante. Per raccontare l'Italia che
vedeva, e attraverso l'Italia per raccontare sé stesso.
E' morto a 63 anni, dopo una lunga malattia. Gli inizi, quando
aveva vent'anni, al Santa Tecla di Milano, dove si fanno vedere
ogni tanto Celentano e Jannacci. C'è anche Mogol, che
gli propone un provino per la Ricordi. Ne esce un disco, con
quattro canzoni, La più famosa è Ciao, ti dirò,
scritta con Luigi Tenco. Siamo a cavallo degli anni Sessanta.
Tra poco l'Italia comincerà a bollire, e Gaber cambierà
passo. Ma intanto ha successo come cantante melodico (Non
arrossire) e come entertainer ironico (La ballata del Cerruti,
Torpedo blu). Sono gli anni del festival di Sanremo, quattro
edizioni. Sono gli anni della tv e, nel 1969, di Canzonissima.
Che per Gaber è la fine di un'epoca e l'inizio di tutta
un'altra storia.
A Canzonissima canta Com'è bella la città, memorabile
e anticipatrice canzone sull'alienazione metropolitana. Troppo
cattiva, troppo vera, perché la sua carriera possa
seguire i canali tradizionali. Il Piccolo Teatro di Milano
se ne accorge, e gli offre la possibilità di allestire
un recital. E' la svolta: nasce Il signor G. Vale a dire che
il signor Gaber abbandona la tv (dove tornerà pochissime
volte), e farà della sua vita d'artista una sequenza
irripetibile di spettacoli dal vivo. E' l'esordio del teatro-canzone,
la formula tutta sua nata dal mix tra cabaret e Jacques Brel,
ed è anche l'inizio della collaborazione con Giorgio
Luporini. Insieme, negli anni a venire, saccheggeranno per
i testi Celine, Sartre, Borges. Insieme racconteranno la gioia
e l'idiozia degli anni Settanta, la volgarità e il
delirio degli Ottanta, il disincanto dei Novanta. Suscitando
passioni ed entusiasmo, ma anche attirando su di sè
le accuse di qualunquismo, e anche peggio.
Il Gaber di Far finta di essere sani (1972), di Libertà
obbligatoria (1976), di Polli d'allevamento (1978) è
l'uomo di sinistra che detesta le pose della sinistra di piazza,
ma anche gli alambicchi della sinistra ufficiale. E' il rivoluzionario
che mentre i rivoluzionari chiedono più libertà,
diffida della troppa libertà, E' il cantante, l'attore,
e di nuovo il cantante che non smette di tenersi attaccato
alla propria individualità, ma non sa smettere di subire
il fascino della Storia. Lo dirà in una canzone memorabile,
La strada, una risposta alla paura negli anni bui del terrorismo
che però prelude al ripiegamento e alla delusione.
Quella che molti anni dopo lo porterà a cantare che
oramai Destra e Sinistra sono uguali. E a tornare sempre di
più all'io, all'indagine sui sentimenti e sui misteri
delle emozioni umane.
In mezzo ci sono altre prove straordinarie. Monologhi che
valgono più di un saggio di storia, come Qualcuno era
comunista, e grandi prove d'attore, come ne Il Grigio (1989),
dove per la prima volta si cimenterà solo con la parola
teatrale, senza canzoni. Ed è qui che forse raggiunge
il punto più alto della sua vita d'artista. Il Gaber
che cantava quindici anni prima Libertà e partecipazione,
ora si chiede come si può amare senza retorica, come
si può trasformare l'amore in qualcosa che "Non
sia una farfalla che si posa di fiore in fiore", ma diventi
davvero "Terra e materia..., cosa".
Forse, come canterà in un altro dei suoi spettacoli,
la sola risposta è affidarsi ai Piccoli spostamenti
del cuore. Ma chi ha davvero una risposta per un amore che
finisce, come dirà nelle parole de Il dilemma, la sua
canzone probabilmente più bella. Sono gli ultimi anni
della sua carriera, e sono lontani i tempi della clamorosa
invettiva contro Aldo Moro, pronunciata in Io se fossi Dio
dopo l'uccisione da parte delle Brigate Rosse. Ma Gaber non
ha smesso mai del tutto di parlare di "politica".
Solo che la sua politica, il suo mondo, sono ormai il teatro
di una sconfitta. Lo dirà nel suo ultimo lavoro, La
mia generazione ha perso, prima di un nuovo disco ("Io
non mi sento italiano") che ora uscirà postumo.
Una sorta di testamento, anche se sfogliando gli spartiti
e i testi di trent'anni di teatro-canzone, almeno un altra
pagina meriterebbe di recitare, insieme al suo autore, l'epitaffio
per una vita d'artista vissuta pericolosamente in bilico tra
dramma e sarcasmo. "Qualcuno era comunista perché
pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche
gli altri...", cantava Giorgio Gaber raccontando l'anima
e il cuore di una generazione. Quella che ha perso, certo,
ma che probabilmente se n'è andata con lo stesso sogno
di allora.
(1 gennaio 2003)
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