Un cantafavole venuto da Marsala, di Emanuele
Trevi
Quindici racconti di un microcosmo rurale scanditi nei
versi di Nino De Vita, pubblicati con il titolo di Cúntura
dalla Mesogea di Messina. Lo abitano insieme animali e umani,
accomunati dal destino di esistere
Esiste ancora, al di fuori del cerchio magico degli studi
accademici, una «questione dialettale» nella
lingua letteraria italiana, o si tratta ormai di un fossile
culturale, uno dei tanti brandelli di una modernità
infranta e irrecuperabile? Paradossalmente, sfogliando il
recente «Meridiano» dedicato alle indagini del
commissario Montalbano, un indizio di crisi profonda lo
si può cogliere proprio nella scrittura di Andrea
Camilleri, e di conseguenza negli sceneggiati tv ispirati
al personaggio. Sembrerebbe a prima vista un trionfo del
dialetto. Ma è un dialetto asservito a una semplice
dimensione folcloristica: molto efficace e (a mio parere)
apprezzabile nella misura in cui contribuisce a rafforzare
l'aura di simpatia umana che circonda l'eroe e i comprimari
- ma nulla di più. Questo accade ogni volta che l'inserto
dialettale assume un ruolo, per così dire, esclusivamente
«coloristico», frutto di una strategia tutto
sommato prevedibile e fondata esclusivamente sul lessico.
Su una base di italiano letterario medio, in altre parole,
una singola parola «in lingua» viene sostituita
con il suo, più o meno esotico, corrispondente dialettale,
spesso addirittura ingenuamente sottolineato con il corsivo,
e il gioco è fatto. Esistono, naturalmente, campi
di espressione verbale contemporanea e sensibilità
artistiche di ben diverse ambizioni. Penso al teatro, ancora
prima che alla poesia: dai mirabili squarci romagnoli nei
testi di Mariangela Gualtieri al recentissimo e splendido
coro palermitano della Medea di Emma Dante. Punte di diamante
di una ricerca che prende per le corna il toro dell'ispirazione
dialettale: ottenendo il risultato (sempre difficilissimo)
di trasformare la memoria in un futuro possibile, o, per
meglio dire, la regressione vernacolare in eversione, esperimento,
fuga dei significati.
In un contesto politico come quello italiano (ed europeo,
purtroppo), dove il fascismo delle «piccole patrie»
si nutre del culto dei «modi di dire» del bel
tempo andato, e dove vediamo trionfare sulle strade e sulle
autostrade la stolida idiozia leghista dei cartelli bilingue
(Bergamo/Bèrghem; Udine/Udin...), il campo del dialetto
potrebbe venire facilmente disertato dal pensiero critico,
e dalla ricerca artistica più autentica. A risparmiarci
questa perdita di prospettive non servono più, a
quanto pare, le teorie, ma le opere e le poetiche che le
presuppongono. E ancora una volta, un'autentica boccata
d'aria fresca e stimolante ci arriva dalla Sicilia, o, per
essere più precisi, dal contado marsalese.
A Marsala è nato nel 1950 Nino De Vita, poeta di
fama crescente, ma ancora non conosciuto quanto meriterebbe,
nonostante al sua opera sia capace di illuminare di una
luce originale (insieme intima e coinvolgente) l'eterno
legame tra infanzia, memoria e narrazione. Un'occasione
ce la offre la Mesogea di Messina, piccola e coraggiosa
impresa editoriale con vocazione mediterranea, che ha (ri)pubblicato
i Cùntura, cioè i «racconti» di
De Vita (pp.285, euro 13,50), finora conosciuti (e ammiratissimi)
solo dai duecento amici che nel 1999 ne avevano ricevuto
una deliziosa edizione privata, stampata in proprio. Tra
i protagonisti di questi quindici racconti in versi di De
Vita, possiamo annoverare, senza pretese di completezza,
volpi e lombrichi, ricci e maiali, lucertole e gazze ladre.
Anche gli uomini hanno diritto, certamente, ad apparire
in questo microcosmo narrativo rurale, governato da leggi
che la voce del narratore, con sapiente naturalezza, ci
svela poco a poco. Ma la presenza umana non è mai
sottolineata gerarchicamente, e si direbbe che l'importante,
per questo cantafavole, è l'appartenenza di tutti,
uomini e bestie, al passeggero destino di esistere.
È bene concentrarsi su questo narratore, non solo
per la sua notevole capacità di intrecciare, quasi
dal nulla, racconti avvincenti e sorprendenti, pieni di
quella saggezza che, come negli apologhi zen, tanto più
è efficace quanto meno dichiara esplicitamente i
suoi contenuti. Questo personaggio che parla, infatti, questo
squisito cronista dell'aia e dell'orto, non svolge solo
la basilare funzione di articolare lo spazio narrativo,
ma è in fondo la più importante invenzione,
il personaggio centrale di tutte le storie. Come il narratore
(più mitico che storico) di Walter Benjamin, pensato
sul modello dei pellegrini incantati di Leskov, anche quello
di De Vita affonda le sue radici nella dimensione dell'oralità,
e sembra disposto a consumare la sua vita alla fiammella
del racconto. Anche i brevi capitoli che suddividono e scandiscono
le sue storie intendono probabilmente mimare, di questa
oralità primigenia, il gesto del riprendere fiato,
magari per una sorsata di vino o qualche tiro a una sigaretta,
stimolando nello stesso tempo l'attenzione e la partecipazione
emotiva degli ascoltatori. I quali, per conto loro, conoscono
così bene il piccolo mondo evocato e trasfigurato
dalle storie, che non c'è mai bisogno di dilungarsi
in spiegazioni, così come non c'è bisogno
di nessun trucco retorico, in fin dei conti, per immergersi
in questa materia e condividerne la visione. Il verso libero
contribuisce perfettamente a questa fondamentale naturalezza
dell'enunciazione, e se il narratore non cerca mai un particolare
piedistallo, non suggerisce mai un punto di vista privilegiato
che lo separi dai suoi ascoltatori, mentre leggiamo comprendiamo
pienamente il senso profondo di questa istintiva umiltà.
Se parla, infatti, e riallaccia gli eterni fili del racconto,
a sua volta ha ascoltato quelle stesse storie, ne è
l'artefice perché ne è anche, sempre, il destinatario,
in una circolarità virtuosa che all'arbitrio dell'
«invenzione» concede, a conti fatti, poco spazio.
Ma è soprattutto, ecco il punto fondamentale, l'impiego
di questo bellissimo dialetto marsalese, con la dolcezza
delle sue parole che sembrano deformarsi nella bocca come
caramelle, a dare forma - l'unica forma possibile - all'evento
del racconto. Con l'aiuto del testo a fronte, praticamente
indispensabile, ci si potrà tuffare nel corpo vivo
di una lingua che non si limita mai a designare i suoi oggetti,
anzi ci rivela come la loro sostanza più intima,
il loro midollo segreto. «'A giannoria ri l'arba/arruspigghiau
l'aceddi aggiuccatizzi» («Il pallore dell'alba/risvegliò
gli uccelli accoccolati»); «Vivia, `sta vurpi,
sula./'U cumpagnu, pigghiatu a chiummatuna,/avia tummuliato,/nsangatu,
una matina,/ncapu r'a mazzulina» («Viveva, questa
volpe, sola./Il compagno, preso a fucilate,/era stramazzato,/insanguinato,
una mattina,/sopra l'erba codina»). Con le sue parole,
De Vita traccia un cerchio, simile al cerchio di un'aia,
e non ne esce mai fuori, per esempio esplicitando una «morale»
che necessariamente non apparterebbe all'organismo dei racconti.
In quello che forse è il più bello dell'intera
raccolta, C'erano tutti nella grande aia, c'è un
maiale che, pochi giorni prima di venire scannato e macellato,
vede per la prima e ultima volta la ruota di un pavone.
Questo incontro è il cuore della storia, e nessuna
idea astratta potrebbe prelevarlo dal suo tessuto linguistico,
trasformandolo in un significato, in un'idea astratta. Solo
nella lingua del narratore il triste destino del maiale
e le bellissime piume della coda del pavone si incontrano,
nello spazio di un paio di versi, generando una commozione
e una vertigine poetica alle quali non sappiamo dare nome.
Eppure, anche e proprio perché non sappiamo spiegarcelo,
qualcosa ci ha commosso, ci ha toccato in profondo. Merito
di questi Cùntura che, per dirla con Valéry,
possiedono la giusta leggerezza: quella dell'uccello, e
non quella della piuma.
[L'articolo di Emanuele Trevi è stato pubblicato
su: il manifesto - 11 Maggio 2004]
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