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Abbiamo visto nel corso di
questo breve saggio l'importanza e le caratteristiche degli insegnamenti
di Stanislavskij sulla recitazione dell'attore e sulla creazione del
personaggio. Nella storia del teatro, altri attori e uomini di teatro
hanno lasciato pagine e scritti contenenti indicazioni e consigli; i
loro scritti si sono fermati per la maggior parte allo stadio di semplici
notazioni. Chi voleva imparare a recitare si basava sull'esempio diretto
del maestro, o doveva procedere a una cernita di tali scritti, brogliacci,
notazioni vari. Una pratica artigianale e lasciata alla buona volontà
dell'attore e alla sua curiosità o voglia di crescere e imparare. Solo
con Stanislavskij si è cercato di definire all'interno di un unico "sistema"
il problema della recitazione dell'attore, il rapporto dell'attore con
il personaggio. L'idea di "scuola" e di "studio"
ha permesso il superamento del limite artigianale e del fai-da-te, per
un approccio professionale, "scolarizzato" della professione
d'attore, con un evidente salto in avanti per la stessa coscienza di
sé e della propria funzione che l'attore ha all'interno del teatro novecentesco.
La mancanza di indicazioni
ideologiche nei suoi scritti ha permesso l'uso "tecnico" di
tali indicazioni, e la sua diffusione e influenza all'interno del teatro
occidentale contemporaneo. Le implicazioni delle sue indicazioni, sull'importanza
dell'attore e della personalità reale dell'attore nella creazione del
personaggio ne hanno permesso l'uso quale pratica affine a quella "psicoanalitica"
e con finalità "esistenziali" (che ne hanno permesso il successo
negli Stati Uniti). Oggi il metodo Stanislavskij continua a essere studiato
e seguito nella pratica del teatro tradizionale e sperimentale occidentale,
quale strumento d'approccio indispensabile per la formazione dell'attore
e per la recitazione.
Con Stanislavskij siamo all'interno
di quel postulato sull'epoca moderna, individuato da Walter Benjamin e che riguarda la "riproducibilità tecnica dell'opera d'arte".
Stanislavskij vuole elaborare e individuare le tecniche che permettano
di formare gli "operai dell'esecuzione" (gli attori), in modo
che la "bravura" dell'attore non sia il risultato della casualità
e dell'aleatorio, ma conquista solida e soprattutto estendibile, per
un innalzamento qualitativo di tutti. Una idea non di casta (l'aristocrazia
solitaria del "grande attore", sia esso "mostro sacro"
o peggio "mattatore") ma di formazione e di professionalizzazione.
Né è un caso, crediamo, che una esperienza fondamentale per la storia
del teatro europeo come quella del Teatro d'Arte nasca proprio mentre
in Francia i fratelli Lumière iniziano le proiezioni pubbliche
del nuovo mezzo di formazione dell'immaginario collettivo, che dominerà
tutto il Novecento, il cinema. Con il cinema la cultura occidentale
inizia un nuovo, tecnologico discorso, nei riguardi della verità e della
realtà, dell'immagine e dello sguardo: tutti elementi su cui Stanislavskij
e il suo teatro avevano fatto i conti, provenendo entrambi da quella
cultura del realismo che era stata alla base della formazione ottocentesca.
Il romanticismo ha imposto
una nuova idea e una nuova visione del modo di vedere la realtà con
il naturalismo. All'interno del cerchio della realtà, anche la finzione
(e l'arte che ne dà rappresentazione e se ne fa veicolo) deve ridefinire
metodi e contenuti. Non è più "credibile" l'attore che gesticola
in maniera enfatica oppure rifà la propria "maschera" alla
tipologia di un mondo culturale (quello aristocratico, e della commedia
dell'arte) che non ha più aderenza con la realtà - che risulta "superato".
La "rivoluzione" di Stanislavskij si pone all'interno del
processo di rivoluzione borghese che l'Europa continentale conosce con
la rivoluzione francese e non è decisamente un caso né la provenienza
di classe di Stanislavskij né quella del suo pubblico al Teatro d'Arte.
Un tipo di rivoluzione che proprio il rapido progresso tecnologico impone
come necessario: si pensi all'immediatezza del "ridicolo"
suscitato non solo ai nostri occhi di oggi, ma a quelli contemporanei,
primo-novecenteschi, dalle pellicole del primo cinema muto di carattere
"culturale" riproducenti opere e romanzi famosi con il tipo
di recitazione gestuale e enfatica propria degli attori "ottocenteschi".
Della "rivoluzione" di Stanislavskij beneficerà proprio il
cinema (statunitense) oltre al teatro che anche grazie a lui potrà superare
il passaggio del mezzo alla nuova realtà di classe (l'aristocrazia borghese
degli inizi del secolo, la cultura massificata dagli anni Trenta in
poi).
C'è un ulteriore insegnamento
che non deve essere sottovalutato, e che all'interno di questa ricerca
ci siamo sforzati di rilevare. L'approccio di Stanislavskij come pratica,
come contatto diretto e "manuale" con la "cosa teatrale".
Non dall'esterno né letterario, e soprattutto senza mai pensare che
ciò che si impara sia una acquisizione ferma, data una volta per tutte.
Ogni cosa va continuamente riformulata attraverso la continua messa
in pratica.
Scrive Malcovati che con Stanislavskij:
"Per la prima volta il
processo creativo dell'attore è stato sottoposto a un'analisi rigorosa,
da parte di un competente, lui stesso attore, da parte di un 'addetto
ai lavori' conscio di tutte le asperità, le complicazioni, i trucchi,
i malintesi [...]. Un competente che odiò sempre l'esteriorità, l'affettazione,
il birignao, che credette nella possibilità di disciplinare il mestiere
dell'attore, di sottrarlo alla approssimazione, alla faciloneria con
una serie di indicazioni che vennero definite più da altri che da lui,
«sistema» o «metodo». Il sistema, continuò a ripetere Stanislavskij
[...] non è e non vuol essere un insieme di regole da eseguire ordinatamente
come un corso di ginnastica, sono indicazioni per l'organizzazione del
lavoro di palcoscenico che non hanno nessuna pretesa di essere definitive
e sistematiche" [].
Il "sistema Stanislavskij"
era un sistema aperto, non un sistema chiuso. Da qui anche la sua efficacia,
la capacità di adattarsi ai mutamenti e ai tempi. Nella fedeltà dell'attore
a se stesso, alla propria misura e al proprio limite di attore, parte
di una rappresentazione (insieme al testo, al lavoro drammaturgico,
alla scenografia, e, perché no, al pubblico). Senza sconfinamenti. Un'idea
"sostenibile e corretta" di verità all'interno di quella costruzione
della finzione che è il racconto teatrale.
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