Biografia di Iano Planco
di Antonio Montanari
1.
Iano Planco è lo pseudonimo assunto (ufficialmente
per questioni di omonimia), dal medico riminese Giovanni Paolo
Simone Bianchi, vissuto dal 1693 al 1775. Le usanze letterarie
del suo tempo prevedevano un nom de plume, che talora è
anche una specie di maschera. Bianchi non vi si sottrae, anzi
sembra abusarne, se per intervenire "pro Iano Planco"
si firma poi Simone Cosmopolita.
L'incarico più alto da lui assunto, è quello
di cattedratico di Anatomia umana all'Università di
Siena dal 1741 al '44, a cui fu chiamato dal Granduca di Toscana
grazie a meriti, e non a suoi "maneggi", come lo
stesso Bianchi sottolinea con orgoglio. Bianchi godeva allora
di notorietà scientifica anche per un trattato apparso
a Venezia nel '39, il De Conchis minus notis liber, sui foraminiferi.
E' figlio di un farmacista, Gerolamo, che gestiva a Rimini
la Spetiaria del Sole, e che scompare nel 1701 quando Planco
ha otto anni. I suoi primi studi li compie presso il Collegio
dei Gesuiti. All'Università arriva nel novembre 1717.
Si laurea in Medicina e Filosofia meno di due anni dopo, il
7 luglio 1719.
In un'autobiografia latina pubblicata a Firenze nel 1742,
Bianchi si racconta come un ragazzo prodigio, tutto rivolto
agli studi, e dotato di eccezionali capacità. In casa,
invece, come emerge da lettere dei suoi famigliari, che ho
pubblicato nel 1993, lo giudicano un perdigiorno che frequenta
cattive compagnie. Anche l'immagine che, della famiglia Bianchi,
risulta da questo epistolario, è diversa rispetto a
quella che Giovanni ci offre nei suoi scritti.
Il padre gli lascia in eredità soltanto debiti. Ha
tre fratelli: di sei, due ed un anno. Sua madre ne ha 29.
A prendere le redini della Spetiaria del Sole, è Francesco
Bontadini da Ravenna, che si firma "aromatarius"
(profumiere) ed "agente del Sig. Bianchi". La madre,
Candida Cattarina Maggioli, scompare prima che Giovanni si
trasferisca a Bologna. Francesco Bontadini, da commesso diventa
una specie di secondo padre per Planco. Le lettere che gli
invia a Bologna, contengono precetti pedagogici che avrebbero
dovuto calmare le sue giovanili inquietudini, e che si ispirano
al binomio "lamore al studio et anco il timor di Dio".
L'autobiografia latina del 1742 è anonima. Essa è
impostata da Bianchi come una vera e propria opera letteraria,
seguendo precisi modelli che appartengono sia al genere biografico
sia a quello autobiografico. Da questa specifica e composita
impostazione tecnica, deriva lo scarto tra le notizie rintracciate
nell'epistolario famigliare, e quelle che lui stesso ci offre
nell'opera. Il fondamentale (e segreto) significato di quel
testo, non è mai stato ovviamente colto dai suoi numerosi,
saccenti (e non disinteressati) avversari. Costoro seppero
soltanto accusare Bianchi (in modo fin troppo facile), di
millanterie da doctor gloriosus, da medico vantone, per quanto
egli narra nell'autobiografia.
Sottolineerei un altro aspetto, che obiettivamente pare di
grande importanza. Se in quelle pagine la verità cede
il passo all'invenzione, ciò accade non soltanto per
motivi di imitazione letteraria, ma pure per una questione
che chiamerei esistenziale, cioè per un bisogno di
rimozione psicologica di momenti vissuti e ripensati con umiliazione
e dolore. Sono i momenti dell'infanzia povera, dell'adolescenza
disordinata, del bisogno di trovare una strada per la propria
vita: e questo avviene soltanto quando Bianchi va a Bologna,
a 24 anni, su consiglio di un insegnate del Seminario riminese,
mons. Antonio Leprotti, che era anche medico (e fu poi archiatro
pontificio).
Credo che per interpretare pure certe sue successive (ed eccessive)
ambizioni, sia necessario affrontare il personaggio alla luce
di questi documenti, e non limitarsi alle vecchie biografie
dell'ultimo Ottocento, moralistiche, pedanti, e persino reticenti
per timore di scalfire il monumento che Planco si era eretto
con l'autobiografia.
2.
Bianchi è uno scienziato enciclopedico. Vuole occuparsi
di tutto: dalla botanica alla zoologia, dall'idraulica all'antiquaria.
Pratica la Medicina pure come medico pubblico di Rimini, con
un successo che lo fa richiedere per consulti nelle città
vicine della Romagna. Dal 1720, sia a Rimini sia a Siena,
gestisce un Liceo privato. Gli allievi studiano come materia
obbligatoria e comune Medicina, e poi Logica, Geometria, e
Lingua greca. "La nostra setta", chiama questa scuola
uno di loro. Un altro parla di "Bianchisti", con
l'orgoglio di appartenere ad una comunità eletta, sul
modello degli antichi circoli filosofici. Da fuori, però
si accusa questa "Scuola di Rimino" di segnare le
proprie pagine con "velenoso inchiostro", "quando
per essa vuolsi a qualchuno stringer adosso il giubbone, o
quando si pretende avilirlo" [lettera del forlivese dottor
Vincenzo Galbani a Bianchi].
L'Anatomia è la materia principe del suo operare scientifico.
Bianchi considera l'Anatomia "il fondamento della Filosofia
naturale, siccome lo è per certo della Medicina e della
Cirurgia". Ma nello stesso tempo, come Malpighi (maestro
di Anatomia comparata e di Embriologia), definisce la Filosofia
sperimentale uno dei fondamenti "della vera Medicina
Prattica". La Filosofia finisce per essere qualcosa di
diverso da ciò che dovrebbe, un'indagine che trovi
in se stessa gli strumenti con cui operare, e gli orizzonti
entro cui muoversi. Per Planco, la Filosofia, anziché
ancilla della Teologia, lo è delle Scienze mediche
e naturali.
Tra le affermazioni di Planco si crea non un circuito logico,
ma una concatenazione retorica in cui si perdono di vista
i collegamenti razionali tra le discipline, e li si sostituisce
con un erudito gioco linguistico, che, mutando gli aggettivi,
crede di poter determinare diversi campi gnoseologici e differenti
criteri epistemologici. E' il procedimento opposto rispetto
a quello degli Enciclopedisti francesi, per i quali in principio
c'è la Ragione, da cui derivano "Filosofia o Scienza".
Filosofia naturale e sperimentale, agli occhi di Bianchi,
sono realtà molto differenti (come voleva anche la
parte meno aggiornata della cultura del suo tempo), mentre,
in senso moderno, il loro significato teorico è lo
stesso. La distinzione tra Filosofia naturale e sperimentale
non regge davanti agli esiti della Scienza Nuova che è,
allo stesso tempo, Natura ed esperimento. Ciò che Galileo
ha unito, Bianchi divide.
In uno scritto autobiografico anteriore a quello latino del
1742, Bianchi ricorda la sua giovanile esperienza quale segretario
dell'Accademia vescovile del cardinal Davìa. In tale
scritto, egli usa come intercambiabili i termini di Erudizione
e Filosofia, all'interno dello stesso contesto e della medesima
definizione. Per i "dotti" del suo tempo, ai quali
tanto rassomiglia, Filosofia e Scienza sono sinonimi. Dunque,
per elementare sillogismo, con Planco si finisce col porre
sullo stesso piano anche Erudizione e Scienza. Il che è,
per noi posteri, un bel guazzabuglio dell'intelletto umano,
considerato soprattutto il fatto che Bianchi usa poche volte
la parola Scienza, preferendole di gran lunga il termine Filosofia,
in quell'accezione ambigua (appena considerata), per cui essa
finisce per imparentarsi od incarnarsi addirittura con la
Erudizione stessa.
L'Erudizione di cui parla Planco, è quella che Ezio
Raimondi definisce "oratoria o all'antica", secondo
un concetto umanistico; e del tutto diversa dal principio
muratoriano di un'Erudizione "di gusto moderno, sul tipo
scientifico", che si traduce in metodologia innovativa,
"legata allo spirito critico e nutrita di ragione moderna".
3.
Ai tempi di Bianchi, lo studio dell'Anatomia comporta, in
campo medico-filosofico, qualcosa di paragonabile alla rivoluzione
copernicana. Gli ambienti ecclesiastici inevitabilmente ne
osteggiano insegnamento e pratica, perché essa mette
in crisi l'impianto aristotelico-tomista delle loro scuole.
Ciò contribuisce a creare attorno a Bianchi un clima
di ostilità, a cui concorre pure il fatto che il suo
Liceo privato è in concorrenza con le attività
pedagogico-istruttive del clero. L'attrito alla fine provoca
una scintilla, e la scintilla suscita l'incendio.
Nel 1745, dopo il ritorno da Siena, Bianchi rifonda a Rimini
la celebre accademia dei Lincei, creata da Federico Cesi nel
1603, e silente dal 1630. Essa sarà attiva almeno fino
al 1765, con ventuno accademici e trentuno dissertazioni documentate
da mie recenti ricerche.
Tra gli accademici ne ho scoperto uno sinora mai citato, il
ravennate Giuseppe Zinanni, autore di una sconosciuta dissertazione
del 1747, La generazione delle lumache terrestri, conservata
nella Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [fasc. 221, Fondo
Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, ad vocem Bianchi
Giovanni].
L'attività dei Lincei riminesi procede apparentemente
tranquilla sino al 1752, quando (per l'ultimo venerdì
di Carnovale), Bianchi organizza una radunanza speciale. Prima
fa esibire una giovane e bella cantante romana, Antonia Cavallucci,
poi recita un suo discorso intorno all'Arte comica. Il vescovo
di Rimini presenta a Roma quelle che un corrispondente di
Bianchi chiama "illustrissime e reverendissime insolenze"
per il concerto di Antonia Cavallucci. Pure il terribile teologo
domenicano padre Daniele Concina si scaglia contro la giovane,
gratificandola del grazioso titolo di "puttanella",
per il semplice fatto di lavorare come attrice. Il qual mestiere,
per padre Concina, equivaleva all'esser parte di una schiera
di creature diaboliche, responsabili del traviamento di tanta
nobile gioventù che perdeva così anima e patrimonio.
In fretta e furia, a Roma, presso la Sacra Congregazione dell'Indice,
s'istruisce un processo contro Bianchi, che si conclude con
la condanna del discorso sull'Arte comica. Bianchi ottiene
da papa Lambertini, Benedetto XIV (con il quale poteva vantare
un'antica amicizia), che la condanna rechi soltanto il titolo
dell'opera, e non anche il nome dell'autore.
Tra le carte di Bianchi nella Biblioteca Gambalunghiana, ho
rinvenuto un inedito sonetto anonimo, di sua mano (scritto
o ricopiato da lui, non so): è una satira contro lo
stesso Benedetto XIV. Per capirne lo spirito, basta citare
la prima quartina:
Ma cazzo! Santo Padre ogni ordinario
ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli,
e voi posate quieto il tafanario
grattandovi i santissimi testicoli.
Bianchi, per la condanna all'Indice, era stato accusato
di aver fatto l'apologia della religione protestante, più
libera in materia di teatro rispetto al controriformismo cattolico.
In sostanza Planco, da buon erudito, aveva soltanto difeso
la tradizione classica, ponendosi due domande semplici, ma
fondamentali: se la Chiesa permette la lettura delle commedie
di Plauto e di Terenzio, perché nega il permesso della
loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati
"infami" qui comici che "le rappresentano venalmente",
mentre "diventano onesti quei che le rappresentano gratis?".
Ciò che, di Planco, dava in realtà fastidio
agli ecclesiastici, erano i suoi studi scientifici come quell'epistola
del 1749 (edizione a stampa di una dissertazione lincea),
dedicata ai "mostri". In essa, si mette in dubbio
il concetto di perfezione naturale del sistema aristotelico-tomista.
L'opera sui "mostri" è oggi considerata il
più importante scritto scientifico di Bianchi [De Carolis].
L'insegnamento svolto da Planco e l'attività dei suoi
Lincei, potevano facilmente essere accusati di allontanarsi
dall'ortodossia (teologica e filosofica) della Chiesa: questo
fatto inquieta il clero cittadino che approfitta della "scandalosa"
apparizione di Antonia Cavallucci nel Carnovale del '52, per
vendicarsi, creare un scandalo, imbastire un processo, preparare
e far pronunciare una condanna formale. Una condanna che,
però, Roma dimentica quando sul trono di Pietro sale
Giovanni Vincenzo Ganganelli, papa Clemente XIV, che Bianchi
aveva educato tra le proprie mura domestiche, e dal quale
egli è addirittura nominato archiatro segreto onorario,
in segno di stima per la sua attività di studioso e
di educatore, con l'ordine di raddoppiargli lo stipendio che
Rimini gli passava quale medico primario della città.
(Altro famoso ecclesiastico allievo di Bianchi, è il
cardinal Giuseppe Garampi, nunzio apostolico e grande studioso
di Storia).
Per la dissertazione sull'Arte comica, Planco riceverà
nel 1761 gli elogi addirittura da Voltaire: "Vous avez
prononcé, Monsieur, l'eloge de l'art dramatique, et
je suis tenté de prononcer le votre", comincia
una lunga lettera del filosofo francese, in cui è esposta
una difesa del teatro e della sua funzione nella società.
Il messaggio di Voltaire forse infastidì ancor di più
gli ecclesiastici riminesi che, alla morte di Bianchi, cercarono
di ostacolare la pubblicazione della Orazion funerale composta
in suo ricordo da un ex allievo, il sacerdote Giovanni Paolo
Giovenardi, passato alla storia per aver difeso, assieme allo
stesso Planco, il fiume Uso quale "vero Rubicone degli
Antichi". Giovenardi racconta che, per il nipote di Bianchi,
Gerolamo, medico all'ospedale della città, si temeva
una "vendetta trasversale" del vescovo di Rimini,
nel caso avesse contribuito a diffondere l'opuscolo in ricordo
dell'illustre zio.
4.
Un altro lavoro, Bianchi poteva considerare a suo vanto: la
Storia medica d'una postema nel lato destro del cerebello,
dove dimostra che una lesione del cervelletto provoca segni
neurologici nel corpo dalla stessa parte del lobo offeso,
e non in quella opposta come accade per il cervello. (Oggi
sappiamo che il ruolo principale del cervelletto è
il coordinamento e l'apprendimento motorio.) Per effettuare
l'autopsia dell'involontario protagonista di quel caso medico
(il contino Giambattista Pilastri di Cesena, di soli nove
anni), Planco deve scontrarsi con due chirurghi cesenati,
che egli definisce semplici "barbieri".
La Storia medica è un testo del 1751 che trae origine
da una dissertazione accademica lincea dello stesso anno,
anticipata però in appendice alla seconda edizione
del trattato sui mostri. Secondo il celebre Morgagni, già
il proprio maestro Antonio Maria Valsalva aveva sostenuto
la diversità tra cervello e cervelletto, circa le conseguenze
delle offese subìte, dandone "la vera dimostrazione
anatomica e clinica". E Morgagni scrive a Bianchi: "A
me parve degna di lode la Diligenza di Lei in riosservare
attentamente ciò che tanti altri Notomisti osservando,
non avevano con pari esattezza descritto". Morgagni,
in sintonia con il proprio carattere ilare, sembra quasi sottintendere
un ironico accenno ad una 'scoperta dell'acqua calda' fatta
da Bianchi.
5.
In tutte le biografie di Planco si ricorda che egli avversò
l'inoculazione del vaiolo. Di recente ho pubblicato una lettera
di un suo allievo, dalla quale appare che Bianchi nel 1766
ritratta "la sua contrarietà" all'argomento,
cedendo "all'evidenza" dei fatti.
Questo allievo è Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-92),
considerato l'ispiratore della "bolla" con cui papa
Ganganelli nel 1773 decreta la soppressione della Compagnia
di Gesù. Amaduzzi fu anche autore di tre importanti
discorsi filosofici, uno dei quali almeno merita di essere
citato, quello sulla Filosofia alleata della Religione (1778).
Per esso Amaduzzi finisce in sospetto di eresia, avendo sottolineato
l'importanza del nuovo pensiero di Locke, autore già
all'Indice dal 1734. Amaduzzi collabora intensamente con i
cosiddetti giansenisti italiani, per usare una definizione
ambigua, al posto della quale sarebbe meglio di parlare, come
faceva Rodolico, di cattolici che si opponevano a condanne
e persecuzioni. Il Giansenismo era stato condannato nel 1713
con la "bolla" Unigenitus di Clemente XI.
A salvare Amaduzzi è la protezione di un altro pontefice
romagnolo, Pio VI, successore di Ganganelli. (Clemente XIV
aveva nominato Amaduzzi docente di Greco alla Sapienza, e
Sovrintendente alla Stamperia di Propaganda Fide, dietro raccomandazione
di Planco).
Amaduzzi non fu soltanto un erudito raffinato, come aveva
appreso alla scuola di Bianchi, ma sempre dimostrò
un acceso spirito critico in campo filosofico, che non risparmia
neppure il suo maestro. (Dopo la sua morte, Amaduzzi celebra
Planco con un Elogio sull'Antologia Romana, in cui si legge:
"Mancò di un certo criterio, per il che fu soggetto
talvolta a qualche paralogismo", cioè a sillogismi
falsi con apparenza di verità.) Con i propri discorsi
filosofici, Amaduzzi rovescia le posizioni emergenti dalle
leggi accademiche dei Lincei planchiani. In queste leggi,
la lettura delle opinioni dei "dottissimi filosofi"
ed "uomini eruditissimi" si antepone all'"investigazione
della stessa natura".
Con questi princìpi Bianchi accantona il metodo della
"sensata esperienza". Ne deriva una totale divergenza
tra la sua pratica scientifica in campo anatomico, ed il suo
modus operandi di accademico linceo. In tal modo, Planco in
ambito teorico nega i presupposti di quella stessa pratica
scientifica. Per questo motivo egli si colloca tra vecchia
erudizione e Nuova Scienza, in una posizione che ha parecchie
ombre oltre a molte luci, e che rispecchia fedelmente il complessivo
andamento di un processo più generale che caratterizza
la storia del pensiero settecentesco. Sopravvive talora in
lui una particolare concezione della cultura, intesa come
riservato dominio dell'uomo dotto, il quale ha il privilegio
di sentenziare grazie al suo ruolo di maestro, e non per il
valore dei risultati a cui perviene.
Il superamento dei limiti teorici e dottrinali delle leggi
lincee, avviene (in ambito locale) grazie ad un altro scienziato
che fu allievo di Bianchi, e che oggi è purtroppo non
molto ricordato, anche se nel '700 ebbe fama europea. Si tratta
di Giovanni Antonio Battarra. Egli scopre che la generazione
dei funghi procede "per semenza e non spontaneamente
dalla putredine". Battarra applica correttamente il metodo
di indagine sperimentale nei confronti di quella Natura che,
con i suoi misteri, tanto appassiona Planco.
Al proposito, Bianchi scrive: "la Natura pare che ami
di far palesi a poco a poco i suoi segreti". E' una sentenza
che, con una formula di apparente perfezione, sembra sigillare
tutto il discorso scientifico in una solennità che
dovrebbe spingerci a considerare la Natura quale depositaria
della Sapienza da essa somministrataci. L'opinione di Planco
rimanda al pensiero di Epicuro, secondo cui le cose si rivelano
a noi attraverso il "flusso" che esse emettono;
pensiero che Bianchi aveva conosciuto certamente attraverso
Diogene Laerzio: "è per la penetrazione in noi
di qualcosa dall'esterno che vediamo le figure delle cose
e le facciamo oggetto del nostro pensiero".
Quanto l'immagine della ricerca scientifica offertaci da Bianchi,
sia distante dalle pagine che in quegli anni apparivano nell'Encyclopédie,
lo dice il confronto di essa con una semplice citazione da
Diderot: "Noi disponiamo di tre mezzi principali: l'osservazione
della natura, la riflessione e l'esperimento. L'osservazione
raccoglie i fatti; la riflessione li combina; l'esperimento
verifica il risultato di questa combinazione. Occorre che
l'osservazione della natura sia assidua, che la riflessione
sia profonda e che l'esperienza sia esatta. Di rado si trovano
uniti questi mezzi; ed anche i geni creatori non sono comuni."
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