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Giovanni Cristofano Amaduzzi e gli abati filosofi del Settecento romagnolo
5. Amaduzzi

di Antonio Montanari

Amaduzzi è autore di tre Discorsi filosofici: Sul fine ed utilità dell'Accademie (1776), La Filosofia alleata della Religione (1778), e Dell'indole della verità e delle opinioni (1786).
Nato a Santa Maria di Fiumicino (Savignano) il 18 agosto 1740, Amaduzzi è indirizzato al Seminario di Rimini dallo zio paterno, don Giovanni, parroco del suo paese. A 15 anni, passa alla scuola di Iano Planco, dove studia Greco e Filosofia, materia nella quale, come lui confessa, si pone "con giovanile ardore a cozzare con gli ultimi avanzi dell'Aristotelico rancidume". Planco lo avvia a Roma, dove Amaduzzi trova un protettore ed amico nel cardinale santarcangiolese Lorenzo Ganganelli, il futuro Clemente XIV. Amaduzzi ha 22 anni, Ganganelli 57. Fra la visita ad un museo e la consultazione di una biblioteca, Amaduzzi ha anche tempo per allacciare rapporti con altri studiosi.
Dotato di un carattere vivace e battagliero, Amaduzzi per le sue idee politiche e religiose, nella Roma di Clemente XIII (1758-69) non ha vita facile. Agli occhi di molti lo rendono sospetto i rapporti che intrattiene con ecclesiastici chiamati giansenisti. La propensione da lui dimostrata verso i cambiamenti politici che in Francia sono sostenuti dagli scrittori illuministi, ne fa un personaggio pericoloso. Lo accusano infatti di essere indifferente ed eretico in materia di Religione.
Planco, ex allievo della Compagnia del Collegio di Rimini, è anch'egli contro i "Loyolisti": al suo pupillo Amaduzzi, raccomanda di prender contatto con mons. Giovanni Bottari, considerato il capo degli antigesuiti. L'abate dà ascolto al dotto maestro. I rapporti fra Amaduzzi e Bottari saranno frequenti e cordiali. In casa Bottari, è spesso ospite mons. Scipione de' Ricci che nel 1780 viene nominato vescovo di Prato e Pistoia: con lui, Amaduzzi entrerà in una fitta corrispondenza.
La carriera di Amaduzzi, per quanto folgorante, nei suoi inizi è stata tuttavia in salita. Il suo ingresso nella Stamperia di Propaganda Fide, avviene per gradi: dopo essere stato fatto lettore di Greco alla Sapienza nel '69, l'anno successivo finalmente viene nominato da Clemente XIV soprintendente alla Stamperia, al posto di Costantino Ruggeri, contro il parere del Prefetto di Propaganda Fide, cardinal Castelli. Amaduzzi non piace a Castelli, che lo ritiene antigesuita. In base a tale opinione, Castelli ha già respinto un precedente intervento a favore dell'abate, fatto da papa Ganganelli.
Cura articoli per riviste, anche se a malincuore, perché (come confida) sulle gazzette non si può disgustare nessuno. In Arcadia, pronuncia i tre Discorsi, che fanno scandalo (35).
Mentre cresce la sua fama nel mondo letterario italiano come erudito e pensatore illuminato, gli ambienti conservatori gli si mostrano ostili.

L'argomento del primo Discorso (1776, Sul fine ed utilità dell'Accademie), si può riassumere in questa citazione: "Lo scopo principale, che aver debbono le Accademie", è quello "di detronizzare gli errori dominanti" [p. 12, I], proseguendo nell'opera svolta dai Lincei (1603-1630), "la primogenita di tutte le Accademie scientifiche, che fu cuna d'una miglior Filosofia" [ib.].
Questa "miglior Filosofia" ha iniziato a combattere contro l'"irragionevole autorità" ed il "cieco dispotismo" che caratterizzano la cultura del XVII secolo [ib.]. L'esempio italiano dei Lincei è stato poi ripreso nel resto d'Europa (a Parigi nel 1638, a Londra nel 1662), sempre con lo "stesso fine glorioso di porre sul trono la verità, e la ragione" [p. 18, I].
La filosofia è una scienza "sperimentale" [p. 6, I], che ci mostra "essere la semplicità il carattere della natura" [p. 29, I]. A questa semplicità deve ispirarsi anche l'attività letteraria. Per tale motivo, Amaduzzi rifiuta il "ridicolo ammasso di metafore, e quella gonfiezza di stile, che or dicesi seicentismo" [corsivo nel testo, p. 23, I].
Sul piano filosofico, il primo Discorso vuol confutare superstizioni ed errori, in base al principio di ragione. In campo letterario, condanna pedantismo ed imitazione in nome del "buon gusto".
Il concetto di "buon gusto" è una categoria critica già presente in Muratori, in un saggio del 1708 (Riflessioni sopra il buon gusto…), dal quale Amaduzzi ricava anche altri due aspetti di questo primo Discorso: il tema dell'importanza delle Accademie, e la critica alla cultura barocca.
Amaduzzi definisce la Filosofia "dono prezioso del cielo", per sottolineare come non esista nessuna contraddizione tra ragione e Religione [p. 21, I], i "due lumi" che "assistono l'uomo" [p. 6, II].

La ragione "insegna di dubitare", ma non si può procedere "dubitando in tutto". Amaduzzi così nel secondo Discorso (1778, La Filosofia alleata della Religione), critica il "dubbio metodologico" che Cartesio aveva riassunto in queste parole: "…considerando che gli stessi pensieri, che noi abbiamo quando siam desti, possono venirci anche quando dormiamo…, mi decisi di fingere che tutto quanto era entrato nel mio spirito sino a quel momento non fosse più vero delle illusioni dei miei sogni".
La Religione, spiega Amaduzzi, domina un territorio all'interno del quale la ragione deve sottomettersi [p. 6, II]. Però, la stessa Religione ha bisogno della ragione. È questo l'aspetto più illuministico di Amaduzzi: "Se si rinuncia ai principi della ragione, la nostra Religione diverrà ben presto assurda e ridicola" [p. 7, II].
È la Filosofia che mostra "colle sue sagge analisi i giusti confini" tra cose divine ed umane. L'indagine filosofica riguarda soltanto i "fenomeni della natura", e non tocca i "celesti misteri", adorando "l'onnipotenza del grand'Autore della stessa natura" [ib.]. Per questo, la Filosofia non è "la fonte delle eresie, e la sorgente dell'irreligione" [p. 13, II]. Purtroppo, "il falso zelo" ha fatto le sue vittime, come Galileo [pp. 14-15].
La Filosofia a cui Amaduzzi pensa, è quella che segue "lo spirito riformatore dell'immortale Bacone" [1561-1626, è del 1620 il Novum Organon, dove si parla degli idòla, complessi di dottrine erronee e di superstizioni, che bloccano la via per la verità]. È la stessa Filosofia che ha introdotto "la più regolata analisi della mente umana", per conoscerne limiti e capacità [p. 10, II].
Tale Filosofia (con Cartesio, Galileo e Newton), "sbandì tutto il meraviglioso, tolse i prestigi dell'ignoranza, detronizzò la superstizione…, seppe discuoprire le forze della natura, e spiegarne gli arcani, e i fenomeni più astrusi" [ib].
La parte centrale del secondo Discorso, è il tema della conoscenza, dove Amaduzzi attua una sintesi tra sensismo, Cartesio e Pascal [pp. 15-17]. La sensazione è il punto di partenza di ogni atto del conoscere, ma l'attività unificante e critica della riflessione sulla realtà, tocca al pensiero, inteso come l'"azione dell'intelletto" che medita sulle immagini ricevute.
Anima e cervello sono i due canali che in "intima unione" forniscono al pensiero rispettivamente idee ed immagini che vengono confrontate tra loro, per ricavare la verità mediante dei giudizi.
Attraverso questo processo, "l'uomo giunge così a conoscere la sua esistenza" ("Cogito, ergo sum", aveva detto Cartesio), e "mentre si vede dotato della potenza di pensare… si riconosce per la più eccellente creatura; e quando risente la limitazione del suo intendimento, e delle sue facoltà, forz'è, che si confessi la più misera" (è, ripreso all'incontrario il pensiero pascaliano sull'uomo che "è una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante").
Questa Filosofia non soltanto insegna la verità della Scienza, ma educa anche a quel senso di "umanità" e alla "civile tolleranza" che sono "diramazioni legittime della Cristiana carità", rafforzando "il patto sociale" e migliorando le condizioni di vita degli Stati [pp. 10-11, II].
Dall'accordo tra Filosofia e Religione, secondo Amaduzzi, discendono quelle riforme che mutano la società, e che "onorano e l'umanità, e la Religione insieme" [p. 11, II]. [Il tema delle riforme è vivo in quegli anni, nello Stato della Chiesa: Pio VI (1775-99), tentò un'opera di rinnovamento nel campo agricolo ed in quello finanziario.]
La Filosofia conosce "nella natura alcuni rapporti fra gli uomini" [p. 25, II], la cui scienza forma l'etica. La coscienza ci detta le regole secondo ragione da seguire nel nostro comportamento, culminanti nel "gran principio della morale, fondato nel non fare ad altri ciò, che non si vorrebbe per se medesimo" [pp. 27-28, II].
Il rispetto dei diritti altrui è quel principio di giustizia che costituisce la regola del "patto sociale", e che contribuisce "alla pubblica felicità" [p. 28, II].
I doveri di giustizia "debbono essere comuni a tutti i popoli", per cui i popoli stessi debbono aiutarsi tra loro [pp. 29-30].
Il discorso politico viene esteso da Amaduzzi anche al concetto di Stato. Il depositario della "sociale autorità" è il principe, ma il suddito è pur sempre però "un suo simile, ed un suo fratello" [p. 30, II].
Non è forse senza significato che, a questo punto, l'elenco dei doveri del principe verso il suddito, sia più consistente di quello dei doveri del suddito verso il principe.
L'idea che emerge da queste pagine è quella di un riformismo illuminato, operato sia dai filosofi sia dai politici.
È interessante l'esame che Amaduzzi fa dei miglioramenti introdotti nella vita degli Stati dal superamento delle vecchie regole e strutture (tortura, schiavitù, diritti feudali…), e con iniziative quali gli interventi per le libertà di commercio, o per la cultura, l'economia e la salute pubblica (come quella dell'inoculazione del vaiolo) [pp. 32-35, II].
La nuova Filosofia, dunque, crea secondo Amaduzzi anche una nuova società. Amaduzzi, addirittura, fa un parallelo tra "tirannia feudale" ed età della superstizione, per dimostrare che i "lumi filosofici" [p. 37, II], liberano non solo gli uomini sotto il profilo politico, ma anche la stessa Religione dall'ignoranza, in un processo unitario di miglioramento globale della società.
La vera Religione, scrive Amaduzzi, ha precetti "tutti alla ragione conformi" [p. 39, II]. E i "veri studiosi della Filosofia esser non possono nemici della Religione", come dimostrano Bacone, Newton, Pascal e Locke. Pascal è citato in questo secondo Discorso per ben due volte. Il suo nome era pericoloso da pronunciare, essendo legato alla condanna del Giansenismo, da parte di Clemente XI (1713, bolla Unigenitus). Nel 1734, il Saggio sull'intelligenza umana di Locke era stato messo all'Indice. Queste idee, contenute nel secondo "Discorso", procurano ad Amaduzzi una denuncia all'Inquisizione. Ma la pratica non ha corso. Lo salvano la protezione e l'amicizia del sammaurese padre Agostino Giorgi, consultore del Santo Ufficio. (35 bis)

La teoria della conoscenza, formulata da Amaduzzi sulle orme di Locke, nel terzo Discorso (1786, Dell'indole della verità e delle opinioni), è molto più semplificata rispetto a quella presentata nel secondo. Egli riprende dal Saggio di Locke la distinzione tra sensazione, ragionamento (come confronto di idee ed oggetti), e coscienza (intesa quale fonte della verità morale). Ciò non deve farci concludere che c'è scarsa originalità di pensiero in Amaduzzi: il nostro abate ricerca la strada per arrivare alla verità, con spirito di armonia tra fede e ragione, tra scienza e fede, tra natura e Dio, onde evitare che, in nome di quella verità, si commettano ingiustizie. Locke era un autore proibito, e la sua riproposta significa per Amaduzzi conciliare i diritti della ricerca coi i doveri del credente.
Amaduzzi, verso la fine del terzo Discorso [pp. 44-45], spiega come nasce l'errore che porta poi a quelle che sono chiamate le "opinioni". Ma egli precisa anche che ci sono "opinioni" che poi diventano verità. Ciò è accaduto (dice) pure in tempi recenti, quando alcune "opinioni" sono state dimostrate essere "verità trionfanti", mediante "più squisite osservazioni" [p. 54, III].
È questa l'idea di una cultura che può sempre progredire, secondo il concetto vichiano delle tre età, e mediante il principio galileiano che, per stabile "un grado di vera scienza", occorre un "corredo di esperienze sufficienti" [p. 48, III].
In questo passaggio del terzo Discorso, Amaduzzi parla di Planco, a proposito di Pitagora. La teoria della proporzione di Pitagora, secondo cui "la gravità de' corpi celesti decresce allontanandosi dal sole" [p. 50, III], era anticamente un'"opinione". Ma dopo la scoperta newtoniana delle forze centrali, la "si ricorda per un assioma fisico incontrastabile" [p. 51, III].
Solo "taluno", cioè Planco, l'ascriveva ancora ad una propensione ("trasporto", dice Amaduzzi) di Pitagora "per un certo mirabile e spezioso" [ib.]. Con ciò, Amaduzzi vuole insinuare che Planco nulla avesse compreso delle teorie di Newton?
Le verità di cui Amaduzzi tratta in questo ultimo Discorso, sono di vario tipo: si va da quelle politiche ed economiche (in linea con il riformismo illuminato), a quelle scientifiche od artistiche (con il concetto del "bello ideale" ripreso dal padre Francesco Soave, il traduttore italiano del Saggio di Locke[1785]). [Soave diffonde in Italia il sensismo. Il sensismo italiano, in generale, alla componente edonistica (secondo cui l'apprezzamento estetico dà piacere), unisce una valutazione del contenuto (che deve essere utile e vero)].
La classificazione che Amaduzzi fa, vuole non tanto essere un pedante elenco di princìpi e di modelli a cui ispirarsi; quanto indicare che tutta l'attività umana dev'essere rivolta al conseguimento di una perfezione che non è qualcosa di astratto, bensì ha valore soltanto se si esprime in atti concreti, nella realtà quotidiana.
È per questo motivo che anche nel terzo Discorso Amaduzzi critica "l'universale dubbio Cartesiano" [p. 9], sostenendo un'idea di progresso che coinvolge tutta la vita sociale, la quale è migliorata dalla ricerca filosofica della verità. Non per nulla, il Discorso si conclude con questa affermazione: "Grazie ai nostri lumi scentifici [sic] non può ora prevalere la norma politica, che vi sieno verità, che rese manifeste a tutti addivenir possono pericolose, anzi perniciose" [p. 60, III].
Dopo aver pronunciato questo terzo Discorso, Amaduzzi scrive ad un suo corrispondente (il Pompei, in una missiva del 4 febbraio 1786), che ha intenzione di stampare la sua dissertazione, "senza assoggettarla alle mutilazioni di Frati superstiziosi, e fanatici" [Biblioteca Filopatridi, Savignano, fasc. 28].

Dopo quel terzo Discorso, cominciano le grane per Amaduzzi. L'abate Luigi Cuccagni di Città di Castello, in una Lettera anonima a stampa (del 1790), lo accusa di non conoscere la lingua greca che insegna, di essere "impudente e fanatico…, nemico di tutti ed anche di quelli dai quali suole desinare tutte le settimane", e di non perdonarla "a veruno, se non forse a quei che sono come lui nemici del Papa, di tutto il clero e di Roma". (36) Pio VI (il cesenate Braschi, succeduto a Ganganelli nel '75), sostenendo che "conveniva lasciare una certa libertà ai letterati" su alcune questioni, lo scagiona. Amaduzzi si difende con una Rimostranza umile al trono pontificio che, su consiglio di amici pavesi, non affida alla stampa, ma invia come lettera privata a Pio VI.
Il documento richiama (anche se un po' confusamente) dottrine illuministiche sull'origine del potere politico, lette in chiave cattolica: predisposto da Dio "allo stato sociale", l'uomo obbedisce ad un capo voluto da Dio stesso come suo rappresentante; questo capo deve difendere gli uomini, ma se ciò non avviene, ognuno ha diritto di respingere gli attacchi altrui, però "senza turbare l'ordine sociale".
Amaduzzi vuole ribellarsi alla "cabala" ordita contro di lui da "alcuni falsi zelanti", e conferma la sua ortodossia, rifiutando l'etichetta di eretico che gli è stata appioppata. Egli sa che la sua posizione contro i "Loyolisti" è ben nota, e non soltanto a Roma.
"Nemico della bugia", come si definisce nella Rimostranza, con un carattere comune agli "uomini vivaci e liberi" della sua terra, Amaduzzi però non può ignorare che i rapporti con mons. Ricci ed i cosiddetti pensatori "pistoiesi" considerati giansenisti, lo potevano far sospettare di allontanamento dalla dottrina ufficiale di Roma. Per questo, rivendica la sua fedeltà alla linea della Chiesa. Diversa è la questione politica: se in questo campo ha sentimenti differenti da quelli del papa, tuttavia si dichiara convinto "che il Santo Padre non sarebbe giammai per farmene un delitto", perché l'uomo non può essere privato del diritto a ragionare.
La Rimostranza è inviata al papa il 18 settembre '90. Pio VI siede sul trono di Pietro da 15 anni. Tutto questo lungo periodo non ha cancellato le astiosità accumulatesi attorno alla figura di Amaduzzi, dopo la morte del suo protettore Clemente XIV, avvenuta il 22 settembre '74. Quando papa Ganganelli soppresse l'ordine dei Gesuiti il 21 luglio '73, Amaduzzi fu considerato l'ispiratore della "bolla" Dominus ac Redemptor con cui il provvedimento venne sancito.
L'"atleta dell'antigesuitismo", è stato definito il nostro abate per il suo gran daffare con i "pistoiesi". Le lettere che Amaduzzi scrive a Planco testimoniano che era addentro alle segrete cose. Aveva potuto dichiararsi sicuro dell'abolizione della Compagnia già nel '69, quando papa Ganganelli era afflitto ed angosciato sino all'insonnia per colpa dei "Loyolisti". Nel febbraio '72, assicurava che il papa non dimostrava più incertezze. Nell'aprile '73, annotava che il pontefice, "ilare e brillante", faceva trasparire "sicurezza e tranquillità". Pubblicata la "bolla", Amaduzzi il 7 agosto scrive a Planco che "finalmente si comincia a veder chiaro…".
Il 18 agosto 1794, Pio VI con la "bolla" Auctorem fidei condanna tutte le idee espresse da mons. Ricci. Amaduzzi è denunciato al papa: ha inviato uno scritto a Ricci, anche lui quindi deve essere punito. Pio VI lo assolve: quel testo era anteriore alla "bolla" pontificia, quindi l'abate è innocente. Nelle lettere a Ricci, Amaduzzi si è scagliato spesso contro la "corrutela", l'"anarchia ecclesiastica e politica" di Roma, fino a scrivere nell'86: "Quant'è mai dura la condizione dei nostri tempi. Le verità cattoliche debbono essere reputate eresia e le riforme debbono passare per innovazioni scandalose ed illecite". Con Ricci, Amaduzzi ha assunto il ruolo di 'talpa' in Vaticano, inviando a Pistoia notizie che poi Ricci passa agli Annali ecclesiastici di Firenze, organo dei cosiddetti giansenisti italiani che propugnavano una linea riformatrice, alla vigilia del grande sconvolgimento dell'89. Dopo gli eventi francesi, Amaduzzi osserva che "tutto il mondo è in combustione… Le cose peraltro sono così complicate che se uno piange l'altro non ride e v'è solo da sospirare per tutti".
Amareggiato, egli si ritira tra i suoi quattromila volumi che destina alla "Comunità di Savignano", con un testamento rogato dal notaio Bassetti il 19 gennaio 1792, due giorni prima di morire.

Note:
(35) Di seguito, le citazioni dai Discorsi sono indicate nel corso del testo, in parentesi quadra e numero romano relativo all'opera da cui esse sono riprese.
(35 bis) Cfr. la nota 34 in calce alla ristampa del primo Discorso, a cura di V. E. Giuntella, Palombi editori, 1992.
(36) L'edizione della Lettera consultata presso la Biblioteca Gambalunghiana (13. MISC. CIV. 41), appartenuta al Garampi (come attesta un timbro apposto a pag. XVI, l'ultima), reca in prima pagina sopra il titolo la scritta: "Viene attribuita all'Ab. Cuccagni". È forse l'edizione consultata da G. Gasperoni per il suo Settecento italiano? Recensendo il quale, E. Codignola (cfr. Illuministi, giansenisti e giacobini, cit., p. 272), scrive: "Non condivido la sicurezza del Gasperoni circa la paternità della Lettera…", datata Firenze 4 dicembre 1789, perché in quel periodo Cuccagni era a Roma.

 

 


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