Due
occhi azzurri, di Thomas Hardy
Due occhi azzurri, di Thomas Hardy
Lirico e psicologico il terzo romanzo scritto da Thomas Hardy,
Due occhi azzurri (A pair of blue eyes, 1873), basato
sul corteggiamento di Hardy per la prima moglie, nello scenario
romantico della Cornovaglia settentrionale. Protagonista femminile
del romanzo è Elfride, giovane e piuttosto volubile figlia
di un parroco anglicano della Cornovaglia. Segretamente fidanzata
con un giovane architetto, che però è dovuto andare
in India, conosce Henry Knight, un amico della matrigna della
ragazza, uomo più anziano di lei e pieno di interessi culturali.
Henry Knight le fa delle avances, la ragazza si sente sempre più
colpevolmente attratta. Lei decide di portare un telescopio sulla
cima dell'alta scogliera prospiciente il canale di Bristol, per
osservare la nave che sta riportando in patria dall'India il suo
giovane fidanzato segreto. La accompagna Henry Knight. Mentre
siedono sulla cima della scogliera, il cappello di Knight viene
trascinato via dal vento. Knight cerca di recuperarlo, ma la scogliera
è scivolosa e lui si accorge di non essere più in
grado di riarrampicarsi. Dietro a lui, uno strapiombo. Elfride
cerca di aiutarlo, ma peggiora la situazione. Lei risale con difficoltà
al sicuro, lui scivola giù vero lo strapiombo:
"Mentre scivolava lentamente un centimetro dopo l'altro
[...] Knight fece un ultimo tentativo disperato, protendendosi
verso il ciuffo di vegetazione sottostante - l'ultimo intrico
isolato di erbe inaridite dove la roccia appariva in tutta la
sua nudità. Esso arrestò la sua ulteriore caduta.
Knight era adesso letteralmente sospeso per le braccia".
Elfride scompare alla vista di Knight. Knight si ritrova solo,
disperato: sa che anche se Elfride fosse andata a cercare aiuto,
essi si trovavano a parecchi chilometri di distanza da qualsiasi
presenza umana. La suspance viene aumentata da Hardy puntando
la narrazione su Knight e sui suoi pensieri in quella situazione.
I pensieri di Knight sono quelli di un intellettuale vittoriano:
"La scogliera formava la parete interna della prozione
di un cilindro cavo, con il cielo per coperchio e il mare come
fondo, che racchiudeva la baia fino a formare quasi un semicerchio;
egli vedeva perciò la parete verticale curvarsi attorno
a lui sui due lati. Guardò in giù fino alla base
della superficie rocciosa e si rese conto fino in fondo di come
questa lo minacciasse. Ogni cosa aveva un aspetto sinistro e
fin dentro le sue stesse viscere quella forma ostile era un
luogo di desolazione.
Per una di quelle comuni concomitanze di eventi grazie alle
quali il mondo inanimato attira la mente dell'uomo quando egli,
nei momenti di apprensione, fa una pausa, Knight si trovò
di fronte agli occhi un fossile pietrificato, stagliato in bassorilievo
sulla roccia. Era una creatura provvista di occhi. Gli occhi,
morti e trasformati in pietra, lo stavano fissando ancora adesso.
Era uno dei primi crostacei, detti Trilobiti. Milioni di anni
separavano le loro vite, eppure Knight e quell'essere inferiore
parevano essersi incontrati nel luogo della loro morte. Era
l'unico esemplare entro il raggio della sua visuale di qualcosa
che fosse mai stato vivo e avesse avuto un corpo da salvare,
come egli stesso lo aveva in quel momento".
Knight acquista una nuova consapevolezza, amara e desolata,
della propria mortalità. Per alcune pagine il narratore
si dilunga in riflessioni sulla geologia, la preistoria, la
malignità della Natura. Il vento sferza gli abiti di
Knight, la pioggia gli punge la faccia, un sole rosso lo osserva
con "un ghigno da ubriaco": "non osava spostarsi di un centimetro.
La Morte stava veramente per ghermirlo?".
La situazione è risolta grazie all'intervento di Elfride,
che salva Knight, utilizzando i proprio vestiti come corda (la
svestizione della donna, nella repressiva dal punto di vista
sessuale società vittoriana, possibile solo in virtù
dell'emergenza).
Il romanzo fu molto apprezzato da Marcel Proust.
© Antenati - 1999
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