Nicola Misasi scrittore d’appendice, di Maria
Lorella
Il romanzo d’appendice, detto in
gergo letterario “feuilleton”, cioè foglio aggiunto, nasce appunto per riempire
spazio in un foglio aggiunto ai giornali. Il suo livello letterario si mantiene
piuttosto basso, poiché gli scrittori, essendo pagati a puntate, hanno
interesse ad ampliare la trama, anche senza apparente motivo, ed a ripetere
episodi già narrati.
L’autore calabrese, nel Commiato a La badia di Montenero, narra in che modo e in
quanto tempo –nel giro di una settimana- si era svolta la stesura del romanzo e
la contemporanea pubblicazione sul quotidiano “Il Mattino”.
Egli ammette:
“Non sempre la pubblicazione di un
romanzo nelle appendici di un giornale incomincia quando già lo scrittore ha
compiuta l’opera sua; spesso non ne ha composte che le prime puntate, dopo le
quali ha il vuoto a sé dinanzi. È vero che per certuni, ed io sono del numero,
è indispensabile perché il cervello funzioni in tutta la sua energia, il
pungolo del dovere da compiere; e le cosucce mie che son vive ancora sul
mercato librario, come spremute da una mano di ferro che parea si comprimesse
il cervello, vennero fuori senza un concetto prestabilito, ma si svolsero man
mano sulla carta come si svolge un filo raccolto intorno ad un rocchetto
invisibile”.
Più oltre egli scrive:
“la sera scrissi la prima appendice.
Dove sarei giunto? Quali sarebbero stati i particolari, le scene, i personaggi
secondari del romanzo? Sentivo che erano me,
ma in confuso, senza poter determinare né il prima né il poi”.
L. Reybaud, in una specie di
2manifesto” letterario della
narrativa d’appendice, afferma:
“Prendete, signori, prendete per
esempio una donna giovane e infelice, e perseguitata. Le metterete vicino un
tiranno sanguinario e brutale, un paggio sensibile e virtuoso, un confidente
ipocrita e fervido. Quando avrete in mano tutti questi personaggi, mescolati
insieme, vivacemente in sei otto, dieci feuilletons: e servite caldo”.
Molti personaggi dell’autore
cosentino rispondono ai requisiti espressi da Reybaud; uno di questi personaggi
è la marchesa Lisa di Monserrato, la cui eterna tristezza viene così spiegata
dai contadini del paese elle vive contro la propria volontà
“Poverella, col marito accidentato,
con lo zio del marito burbero per natura e vieppiù burbero, più aspro ora che è
colpito dalla cecità, sola in un paesello come il nostro, in un palazzo come il
suo, vasto al par di un carcere immenso, ove ella è costretta ad aggirarsi
sola, senza amiche, senza parenti che possano confortarla, è naturale che debba
ignorare che cosa sia il riso. Quando venne sposa parea un occhio di sole;
aveva venti anni, usciva allora di collegio, era fresca, rosea, allegra, talché
a vederla ti si allargava il cuore: poi a poco a poco deperì. Chiudi un fiore
in una fossa senza aria e ssenza luce, e in men di un’ora lo troverai senza
profumi e senza odore”.
Un secolo fa le appendici dei
giornali erano il mezzo più immediato di educazione letteraria delle masse
popolari; esse corrispondevano, più o meno, all’attuale fotoromanzo, sia per la
forma dilazionata nel tempo che per la categoria culturale di lettori a cui
erano rivolte. La maggior parte dei lettori di appendici sono persone che non
hanno bisogno di una eccessiva cultura per arrivare a comprendere il messaggio.
È al pubblico femminile che soprattutto si rivolge il Misasi; in particolare
modo a quelle gentili e romantiche lettrici che egli presume possano essere
assidue acquirenti dei giornali su cui egli scrive. Nel commiato al già citato
romanzo, egli si rivolge loro direttamente, con toni melodrammatici cari alle
persone assorte e romantiche:
”Ed ora, buona e cara lettrice, se
hai pianto per la morte di Giacomo letificata dall’amore di Marcella che sente
nell’anima sua fondersi lo spirito di Giacomo, tergi gli occhi e ascoltami, ché
in compenso della tua pietà ti narrerò come si svolse un tal romanzo che ben
potrebbe essere una storia vera”.
L’autore, riferendosi a questa
ipotetica donna che leggerà il suo romanzo, cerca di renderla partecipi del
“travaglio” che ha accompagnato la stesura del racconto e della vicinanza
affettiva dell’autore ai due sventurati protagonisti:
“Io le avevo con me da gran tempo
queste epiche figure dell’amore, con nomi diversi, ma con diverso cuore; pur
non mi era mai venuto in mente di narrane i casi miserandi perché temevo non
giungessi a renderla così come io le vedevo, così le loro anime mi si erano
rivelate, ed anche perché mi occorreva un quadro nel quale fissarle per
presentarle a te, cara e dolce amica, mio pensiero perenne, mio conforto soave,
mia compagna diletta nella solitudine in cui io vivo”.
Anche altrove l’autore calabrese
ripete lo stesso entusiasmo per l’ipotetica destinataria delle sue narrazioni:
“È pur dolce il pensare che quella
donna nel segreto della sua stanzetta da lavoro ricorse a noi per alleviare un
dolore, per dimenticare anche per un istante un’amarezza, e noi le parliamo
come ad amica, la facemmo sorridere e forse anche piangere, di quel pianto che
fa bene e sgrava il cuore dalle lacrime accumulate dentro, perché nelle nostre
storie malinconiche trovò qualcosa dei suoi dolori e delle sue amarezze”.
In molti suoi scritti l’autore di
Cosenza, influenzato da quella letteratura “terrificante” sorta nel 1700 e
popolata di fantasmi, banditi, monaci e sotterranei, si perde dietro a fantasie
macabre. Visitando il castello di Cosenza, egli sente:
“gemiti di feriti, rantolo di
agonizzanti, urla di torturati”.
Raccapricciante è la descrizione
della visione del vallone di Rovito, nel quale venivano eseguite le
decapitazioni di condannati politici o di malfattori:
“Un lampo bianco dall’alto in basso,
un tonfo sordo si udiva, una testa di qua, un corpo di là cadevano tra fiotti
di sangue. Quella testa, presa pei capelli, era mostrata al popolo silenzioso
da quell’uomo rosso che aveva le braccia e il viso macchiato di sangue: poi
quel corpo che ancora torcevasi, quel capo che apriva e chiudeva le palpebre,
digrignava i denti e pioveva sangue dalle carni sfilacciate del colo, erano
gittati in una cassa. Fra il cerchio, in luogo di una testa, striata di sangue
vedovasi la mannaia”.
Molto spesso nelle opere di Nicola
Misasi, e non solo in quelle destinate alla pubblicazione nelle appendici dei
giornali, si incontrano notturni senza luna ed ambienti tetri e oscuri, sovente
in concomitanza con drammi violenti che si sono svolti o stanno per svolgersi.
La certosa di un piccolo paesino della Calabria, luogo che vede il dramma
d’amore di un monaco e di una baronessa, è così descritta:
“Di notte quel convento ha un aspetto
fantastico e pauroso. In quelle senza luna vi è colà come un condensamento
d’ombre, rotto da punti bianchicci. Le stelle scintillavano attraverso i fori,
gli archi, le fessure: il vento fischia
fra le mura screpolate, agitando le erbe parassite, scotendo i sassi
caduti, che talvolta vengono giù con sordo rovinio”.
Ma accanto al romanticismo di gusto
macabro, si trova nelle opere dell’autore cosentino, anche quello dal contenuto
umanitario e sociale. Il romanzo popolare, avendo bisogno di un’ideologia che
rispecchi gli ideali e le necessità dell’epoca in cui viene scritto, è spesso
una fucina di denunce sociali, che non sono mai rivoluzionarie, dato che il
romanzo popolare dà soluzioni consolatorie.
Così nasce il “superuomo” della letteratura popolare, il vendicatore, un
personaggio, cioè, che possiede un potere che il lettore non ha.
Spesso la presenza di un “vendicatore”
e la contemporanea lotta tra il debole e il forte costituiscono la trama dei
racconti più suggestivi e più significativi del Misasi, nei quali sono messi in
rilievo la grande miseria dei protagonisti, la prepotenza dei ricchi e il
vergognoso regime politico. Egli è perciò uno scrittore popolare nel senso che
il Gramsci dà al termine.
I romanzi e i racconti del nostro
autore appaiono a puntate sul quotidiano napoletano “Il Mattino”, prima di
essere pubblicati in volumi. Molto spesso tali volumi sono in edizione
economica e hanno un formato ridotto; famosa è la collana che raccoglie romanzi
che “si leggono tutti d’un fiato”. Il romanzetto Resurrezione è contenuto, ad esempio, in un mini-volume di circa
centimetri 8 x 9, sulla cui copertina è ricordato al lettore:
“La Biblioteca Diamantina esce ogni
otto giorni con eleganti volumetti come il presente. È una scelta raccolta di
Romanzi, Novelle illustrate, d’autori italiani ed esteri, che per la loro
natura possono servire d’amena lettura a tutti ed entrare anche, per il loro
tenue costo, in ogni famiglia, essere letti dallo studente, dalla signorina,
dall’uomo d’affari, da chi viaggia, ecc.”
le opere dello scrittore calabrese
sono ricercatissime dai suoi contemporanei e suscitano il massimo interesse
nelle classi popolari, verso cui erano principalmente rivolte. Tali opere
contengono quasi tutte gli ingredienti d’obbligo del romanzo d’appendice:
sventurati perseguitati, amori sovrumani, pericoli terrificanti, colpevoli
puniti, rapimenti, lontananze, separazioni, nonché agnizioni, ricongiungimenti
e vendette. L’autore, nel rivelare la fonte dei suoi scritti, ricorda:
“Ed eran drammi di passione, di
vendetta, di odi, ed eran avventure romanzesche nel rozzo stile, nell’aspro e
pur efficace dialetto siano, che mi tenevano intento e facevano rivivere
innanzi ai miei occhi i fieri personaggi che ne erano stati gli eroi”.
Lo stile classico di una letteratura
rivolta alle masseè
senz’altro caratterizzato dalla presenza del dialogo e il nostro autore, rivolgendosi a un pubblico di estrazione
socio-culturale non molto alta, adopera molto spesso e abbondantemente tale
forma.
Sempre nella sua analisi della
letteratura popolare Antonio Gramsci afferma che
“una certa fortuna ha avuto in Italia
la letteratura popolare sulla vita dei briganti”,
ma subito dopo tiene a precisare che
“la produzione è di valore
bassissimo”.
Fra i nomi menzionati dal critico in
proposito, non c’è quello del Misasi, anche se lo scrittore calabrese ha
trattato diffusamente il brigantaggio e i briganti. Il brigante descritto
dall’autore cosentino è “il vendicatore”, è
“il difensore, l’amico, il protettore
della povera gente”,
è colui che risponde all’esigenza di
giustizia e di punizione del potente. Dice un uomo del popolo a proposito del
brigante:
“Non fa male a noi povera gente, anzi
molte volte ci ha fatto bene. se la piglia coi galantuomini”.
Ma nella letteratura popolare,
accanto alla figura del vendicatore-giustiziere, c’è anche quella del
superuomo, nata probabilmente dall’esigenza popolare di evadere dalla vita
meschina di tutti i giorni. Tale necessità è rivelata indubbiamente da alcuni
motti popolari, come quello che fa auspicare “un anno da leone piuttosto che
cento anni da pecora”.
“meglio un anno tori che cento anni
bue”, è il motto del brigante; a lui non importa se la sua vita eroica duri
poco o tanto tempo; egli sarà contento se proverà
“la voluttà di sentirsi lupo, lui che
per tanti anni era stato agnello”.
Non gli importa:
“se domani, sorpreso in mezzo a un
banchetto, o un ballo, o un tripudio di passione, una palla di fucile lo farà
rotolare cadavere in fondo a un burrone…o se, dopo aver lottato come un cignale
inferocito e aver ferito ed ucciso, sarà tratto dagli uomini della legge in un
carcere oscuro”
in quanto
“per un anno, per pochi mesi avrà
goduto, lui nato per soffrire la brutalità e l’ingordigia dei signori; si sarà
pasciuto di cibi succulenti, lui che si sfamava con un pezzo di pane d’orzo o
di granone, avrà dormito avvolto nell’ampio e ricco mantello presso un buon fuoco
scoppiettante in una vasta caverna o sotto i pini maestosi, lui che per tanti
anni averva dormito nei fetidi canili e nell’immonde stalle presso i buoi ed ai
maiali: avrà amato e sarà stato amato dalle più belle contadine, lui che aveva visto le sorelle, le mogli, le
figlie in braccio ai signori ingordi e
feroci”.
Il romanzo d’appendice ha molto
spesso un finale che appaga il lettore; al termine di complicati intrecci il
“cattivo” viene punito e il “buono” viene finalmente premiato. Ciò avviene per
Riccardo, personaggio principale della trilogia di romanzi incentrati sulla
figura storica di Carolina d’Austria e intitolati rispettivamente S.M La regina, Capitan Riccardo, Sola
contro tutti. Ha un lieto fine la vicenda di Riccardo, povero
trovatello dalle oscure origini, e di Alma, figlia del duca di Fagnano. Già nel
primo romanzo della suddetta trilogia è rivelata, ma sotto forma di
pettegolezzo non del tutto credibile, il mistero che circonda i natali del
giovane, ma solo nell’ultimo è esplicito, sia al lettore che ai personaggi
della vicenda: il giovane capitano è il cugini di Alma e per di più erede
legittimo del titolo e dei beni del duca di Fagnano, essendo nato da regolari
nozze tra una giovinetta morta subito dopo il matrimonio e ilk fratello maggiore
del padre di Alma, il quale era stato costretto a fuggire all’estero perché
denunciato dal fratello come rivoluzionario ed eretico. Dopo lunghe e intricate
vicende, Riccardo può finalmente congiungersi alla sua amata e l’ultimo romanzo
che pone fine alla trilogia termina con la visione della meritata felicità dei
due giovani:
“Il sole in tutta la maestà, in tutto
il fulgore avvolgeva nella sua porpora i giovani sposi stretti l’uno all’altra
e che avevano nel cuore un sole assai più sfolgorante: quello dell’amore”.
Qualche volta però i romanzi del
nostro autore hanno un finale inatteso, non necessariamente a lieto fine. Non è
raro trovare, alla fine della narrazione, la morte del protagonista e spesso
tale morte è un elemento purificatore, quasi una catarsi, una componente
inevitabile, che serva a giustificare la simpatia del lettore per un
personaggio il quale magari è condannabile per la morale comune. Sotto questo
aspetto va vista senz’altro la morte del brigante Giacomo ne La badia di Montenero; sarebbe stato assurdo,
infatti, che egli, dopo una vita di omicidi e di rapine, potesse diventare
felice sposo di “ragazza d’angelo”. La morte, perciò, più che la vita, serve al
brigante per poter ottenere una completa e indiscussa riabilitazione. Nella
narrativa dell’autore preso in esame, in parallelo al dualismo tra il “buono” e
il “cattivo”, è presente la lotta tra il bene e il male. Essa rappresenta uno
di quegli atteggiamenti che sono insiti
nell’uomo e che proprio per il fatto di essere comuni a tutti, sono ritenuti
dai narratori gli ingredienti necessari di una letteratura rivolta alle masse.Molto
spesso incontriamo nel Misasi questa tesi manichea dell’esistenza, ma non
sempre lo scioglimento della vicenda, pur col trionfo del bene, porta la
felicità: Marcella riesce ad avere la meglio su Anna, ma ciò è accompagnato
dalla morte del suo amato; Ruggero Silvestri, dopo avere dimostrato la propria
innocenza e provocato la morte del suo odiato persecutore, muore colpito
durante la fuga. In Carmela abbiamo addirittura
un finale inatteso che lascia personaggi e lettori in sospeso. La vicenda non
si evolve secondo lo schema tradizionale, che vuole, cioè, la riconosciuta
malvagità e la necessaria punizione del personaggio che rappresenta il male, ma
fa rimanere Carmela e il marito nella penosa attesa di una giusta vendetta. È
tipico della letteratura popolare e dell’autore in questione il conflitto di
sentimenti contrastanti, come quello che si agita nella mente di capitan
Riccardo, combattuto tra l’amore platonico verso Alma e quello esclusivamente
sensuale verso la regina; analoga lotta è in Demetrio, sposo e sacerdote
albanese, combattuto tra l’attrattiva e la ripulsa per la propria moglie:
“come lui, anche ella forse trasaliva
quando i loro sguardi s’incontravano, anche ella si sentiva preda a un demone
inesorabile che le dava né pace né tregua, e Dio, in nome del quale si compiva
quel martirio, non aveva per lei, come non aveva per lui, né misericordia, né
conforti, né pietà”.
Il conflitto odio-amore in Demetrio è
però più visibile in tale brano:
2
si lasciò cadere sul lettuccio e
scoppiò in singhiozzi. Stette così per più ore, e intanto a poco a poco si
sentiva assalito da brividi acuti e da struggimenti. No, Dio, non aveva pietà
per lui, se nel corpo e nel cuore gli aveva messo tanto strazio, se, pur
maledicendola, ei si sentiva come inseguito da quella immagine di donna. In
quel silenzio alto e solenne, sentiva come un ronzio nelle orecchie, un confuso
balbettio di voluttà, misto a scoppi di baci, a sospiri di piaceri. In quella
stanza fredda e malinconica, negli angoli oscuri, in piena luce, vedeva errare
cento immagini con le carni nude, con le pupille di fuoco e, cosa strana!
Quelle immagini non avevano che un viso, una fisionomia; il viso, la fisionomia
di quella donna che era sua, sua in cospetto di Dio e degli uomini, e nondimeno
ne era separato da un abisso. Ne vedeva il sorriso rosso che scopriva i denti
bianchi ed aguzzi, le pupille nere che sprizzavano scintille, le sinuosità
voluttuose del corpo, il rotondo delle anche, il bianco smagliante del petto e
delle spalle che egli aveva la sera avanti sfiorato”.
Continua ancora, con un pizzico di
compiaciuto senso erotico, la descrizione della lotta interna cui è sottoposto
il povero Demetrio, che sogna ad occhi aperti:
“Essa si muoveva, si stendeva,
restava immobile con la bocca tumida e socchiusa, mentre le pupille lo
fissavano, lo pungevano, gl’inviavano lampi di luce, guizzi di fiamme e che
egli sentiva fuggir per le membra…Egli tendeva l’orecchio, immobile, tremante e
pensava con sgomento che se quella donna comparisse là, in quella stanza, così
come la vedeva in immagine, nuda e bianca e gli tendesse le braccia e gli
parlasse d’amore, di voluttà, d’ebbrezza, egli, non avrebbe avuto forza di
lottare, egli sarebbe caduto nell’abisso della colpa e della vergogna…No, non
l’avrebbe data vinta alla carne, lui ministro, lui sacerdote del Signore…E
immerso in tali pensieri, non sapeva tôrre gli occhi dalla striscia di luce in
cui si disegnava un’ombra di donna riversa; non sapeva chiuder l’orecchio al
leggiero mormorio che a lui veniva dalla stanza nuziale. Si sentiva
profondamente infelice”.
Non è raro trovare nel Misasi
elementi erotici descritti con evidente compiacimento e il continuo riferimento
al seno muliebre è l’elemento più ricorrente. Anche nelle situazioni meno
opportune il nostro autore indulge nella descrizione maliziosa del corpo
femminile. Ecco come viene descritta una bella e giovane vedova che assiste al
funerale del marito:
“I suoi occhi avevano lo sguardo
lucido, insistenete, di chi è fuor di sé per un gran dolore. Le vesti scomposte
lasciavano vedere le carni bianche degli omeri e del seno su cui si spargevano
i riccioli dei capelli biondi”.
Un archetipo della letteratura
popolare è la donna fatale. Esempio tipico di donna fatale è Fosca,protagonista
di Devastatrice, il cui
corpo e i cui gesti sono in funzione permanente della seduzione; donna fatale è
anche Carolina d’Austria, il cui personaggio, negli scritti dell’autore, è
frutto della fantasia popolare, più che attestato da veri epropri documenti
storici.
La donna bella per il Misasi deve
avere tutti i requisiti della bellezza classica: capelli biondi, viso pallido e
pupille penetranti. Eccone un esempio:
“La signorina Emma Alimondi dei baroni
di S. Giulio era proprio quel che si dice una bellezza. Alta, slanciata,
bionda, bianchissima, di un’eleganza deliziosa, nell’incesso”.
Anche quando Emma entra in chiesa non
fa che suscitare ammirazione:
“Tra le sforacchiature delle trine e
biondi capelli avevano riflessi aurei e le guance bianche e rosee sfumature
delicate.era stupendamente bella, e il corpo molle e grassoccio mostrava tutte
le sue bellezze, stretto nella veste
nera. Aveva negli occhi un certo languore e nel camminare un certo abbandono
deliziosissimo: quell’anno di matrimonio e quella vedovanza avevano maturato la
sua bellezza; sicchè quando entrò in chiesa, rispondendo con un cenno di testa
fra il modesto, il severo e il malinconico al saluto dei conoscenti, vi furono
esclamazioni irriverenti forse per il Creatore, ma di ammirazione pwer quella
creatura”.
Donna fatale è anche Monna Lisa di
Ligny, la cui luminosa bellezza fa sospirare invano le rozze anime dei paesani,
non abituati a una “civetteria” tipicamente cittadina. Ecco come Lisa viene
descritta nell’episodio in cui ella conosce Guglielmo:
“Intanto premeva con le le due mani
leggermente i capelli per rassettar l’acconciatura che quella sera dava maggior
risalto al bel viso; con rapido atto passò la mano pel collo lucidamente
bianco, arabescato di fili d’oro su la nuca, per stirare la piega della veste,
chiusa al principio del seno da un fermaglio scintillante di gemme; si sdraiò
più mollemente sulla dormeuse, strinse alle dita affusolate e piccolette gli
anelli contesti di pietre preziose e attese con la sua grande aria di signora
altera ma garbata”.
Il comportamento di Lisa, nei momenti
in cui ella vuole “ammaliare”, è del tutto simile a quello di Fosca: analoghi
sono i gesti e ugualmente ricercato il modo di vestire. In altre pagine viene
detto su questo personaggio:
“Saliva lenta, come una dea, con una
stupenda veste a fiorami, dalle maniche larghe, che lasciavano vedere il
braccio bianco, tornito, con due cerchietti d’oro ai polsi; sul seno la veste
si apriva e una spume di trine velava ma pur non ne nascondeva le rotondità
delicate; i capelli biondi e luminosi, in trecce grosse e molli le si
avvolgevano sul capo, e alcuni riccioletti folti, sottili ne indoravano la
nuca”.
Nei racconti e nei romanzi del nostro
autore è frequente un procedimento tipico della letteratura d’appendice: l’agnizione.Già
le prime pagine della narrazione fanno comprendere, mediante allusioni
frequenti, pettegolezzi, insinuazioni, la vera identità delle persone, che sarà
svelata in seguito, quando il lettore ha già intuito tutto. Molto spesso la
tecnica del riconoscimento è inutile e per tale motivo perde ogni potere
drammatico. Il nostro autore fa cadere tanti e tali sospetti da far sembrare
inverosimile che proprio gli interessati non abbiano compreso nulla. In tutto
il romanzo “Frate Angelico” si accenna ai sospetti che sorgono circa l’identità
del frate, mentre fin fin dalle prime pagine il lettore sa che sotto le vesti
di frate Angelico si cela Ruggero Silvestri. L’identità sarà svelata a quei
personaggi che non avevano ancora compreso –la moglia di Ruggero, il Guercio,
don Jacopo- quasi alla fine del romanzo, quando ormai la tecnica dell’agnizione
ha perso la sua carica di “suspence”. Donna Maria, allorché vede il frate per
la prima volta, ha subito dei dubbi:
“Ella trasalì a quella voce che nel
primo udirla non le era parsa nuova”.
Analoghi “trasalimenti” sono
avvertiti da don Jacopo:
“Ma chi più di tutti pareva colpito
dalle parole del monaco era don Jacopo Rinaldi. Ai primi accenti aveva impallidito
e il cuore gli era balzato nel petto: ascoltava come intontito, rabbrividendo
talvolta, talvolta crollando la testa come per respingere un dubbio atroce.
-Pare impossibile, pare impossibile:
si direbbe che è lui. Lui! Monaco! Priore! Qui! No, no, ho male all’orecchio, o
meglio, è la fantasia che è malata. E ascoltando con avidità più il suono delle
parole che le parole, perché appunto il suono gli aveva destato nel cuore il
dubbio atroce, cercava di fissare gli occhi in fondo al cappuccio, ma non discerneva
che la lunga barba fluente e i confusi tratti del viso”.
Soltanto un personaggio riconosce
Ruggero non appena lo vede:
“Il sordomuto ebbe come un rantolo
nella gola, aprì la bocca, stese le braccia, poi cadde in ginocchio ai piedi
del monaco e si diè a baciare il lembo della tonaca.
-Giovanni, povero Giovanni, -fece il
frate mettendo le mani tra i fulvi e intricati capelli del prostrato- mi hai riconosciuto. Me ne ero accorto.
Mentre ero sul pulpito non sapevi distogliere gli occhi da me. Povero
Giovanni!…
il muto gli gagnolava come un cane ai
piedi”.
Nell’episodio in cui il frate si reca
nella casa di Maria, si ripete nella donna il sorgere del sospetto, ma non
ancora la certezza; tutto il tono della narrazione è melodrammatico, parole e
gesti sono teatrali e contribuiscono a dare alla narrazione la ridondanza e
l’inutilità di alcune situazioni:
“I quell’atto il cappuccio gli cadde
e apparve la testa di lui tutta rosa da cicatrici, da rughe. Donna Maria di
Santafiora diede un grido; alzando gli occhi aveva incontrati quelli del monaco
che sfolgoravano accesi.
-Ma chi siete voi, chi siete?-
mormorò la poveretta, colpita da uno spavento mortale”.
Più oltre è ribadito:
“Nel breve istante in cui per la
caduta aveva potuto vederne in piena luce il viso, un dubbio angoscioso che a
poco poco diveniva certezza ne sconvolgeva tutto l’essere suo: che quell’uomo,
che quel monaco fosse Ruggero Silvestri”.
Ruggero si svela al suo nemico, un
tempo amico fraterno, con la stessa tecnica adoperata da Dumas per le agnizioni
ne Il conte di Montecristo:
“Io sono Edmondo Dantès”, dice il
conte di Montecristo a coloro che hanno ordito inganni nei suoi confronti e
tali parole, nella loro sinteticità, vogliono dire più o meno: “Tu sei colui
che mi ha tradito e che mi ha denunciato ingiustamente; io mi vendico
uccidendoti”. Analogo significato ha il discorso di Ruggero Silvestri nel
momento in cui si svela a Jacopo:
“Jacopo Rinaldi, assassino, ladro, violatore di donne.
Jacopo Rinaldi, che pur sapendomi innocente, mi facesti condannare nel capo;
Jacopo Rinaldi, usuraio e spia; Jacopo Rinaldi, che hai mangiato il mio pane,
che hai bevuto il mio vino; che hai dormito nel mio letto, e mentre io ti
chiamavo fratello, il tuo cuore fremeva d’odio, e mentre io ti stringevo al seno,
la tua mente infernale macchinava la calunnia che dar dovevo la mia testa al
carnefice; Jacopo Rinaldi, che non contento d’avermi condannato alla vita
dell’esule, all’infamia, alla miseria, pur sapendomi vivo, hai fatto proclamare
la mia morte e volevi insozzar così con le sacrileghe nozze la donna che
portava il mio nome? Jacopo Rinaldi, perverso per quanto vile, ora dopo cinque
anni di dolori, di torture senza nome, ti ho in mia balia… Qualunque vendetta,
per quanto feroce, mi sarebbe perdonata da Dio”.