Nicola Misasi: Poetica – Linguaggio- Stile, di
Maria Lorello
La poetica dello
scrittore è facilmente intuibile da quando egli stesso afferma in ampie e
prolisse prefazioni o introduzioni ad alcuni suoi racconti. I ricordi
autobiografici sparsi qua e là nelle sue opere, più che i documenti veri e
propri, rivelano utili notizie circa la sua prima formazione culturale. Il
Misasi, rimasto estraneo alle grandi correnti filosofiche europee del suo
tempo, nutre grande ammirazione verso pensatori suoi conterranei, quali
Bernardino Telesio, Tommaso Campanella, Valentino Gentile; tale ammirazione è
però motivata più da campanilismo che da profonda adesione ai principi espressi
dai suddetti filosofi. Egli, infatti, anche se sovente indulge a narrazioni
fantastiche, predilige lo studio della realtà umana alla teoria o ideologia di
correnti filosofiche.
I soggiorni dell’autore a Napoli
nel 1880 e a Roma nel 1882 determinano una positiva evoluzione della sua arte;
si ha, infatti, in tale occasione, un passaggio quasi repentino da una
produzione poetica appartenente al romanticismo deteriore, a una narrativa di
carattere prevalentemente sociale. L’ambiente culturale napoletano, teso verso
una nuova forma di letteratura, spinge l’autore cosentino ad andare oltre il
chiuso ambito del provincialismo letterario. Le parole di Francesco Bruno ne La
capigliatura napoletana e meridionale danno un quadro abbastanza fedele
della vita fervida di iniziative culturali della Napoli fine Ottocento:
“Gran parte degli autori
rivolava, in serata, verso Piazza Dante, dove si accampava la notissima
libreria Pierro. Il casotto, che costituiva il regno limitato di Luigi Pierro,
audace e intrepido libraio-editore, era frequentatissimo da lettori poco esigenti,
che compravano, con puntualità, i celebri romanzi di Dumas padre e figlio e di
altri narratori popolari, a dispense illustrate, come venivano edite dalla casa
Sanzogno di Milano. C’ erano poi i clienti fissi, le élites culturali, gli
scrittori, che Pierro aveva lanciato e che convenivano ogni giorno nel locale,
trattenendosi a discutere e a commentare i fatti di cronaca”.
Il nostro scrittore attua la sua
formazione culturale nella seconda metà dell’Ottocento, periodo in cui in
letteratura scompaiono a poco a poco gli ormai triti motivi “socializzanti” del
tardo manzonianesimo. Nello stesso periodo i contenuti della narrativa spostano
il loro fulcro intorno a interessi documentari della realtà quotidiana. Il
siciliano Luigi Capuana proprio in quegli anni espone i principi della nuova
corrente letteraria d’oltralpe: il naturalismo. “Il naturalismo e il verismo
sembravano lo specchio sconcertante che abbacinava un po’ tutti”,
scrive il Bruno. Gli scrittori che riscuotono maggior successo in Europa in
questo periodo sono infatti Maupassant, Flaubert, Zola, Balzac; mentre in
Italia, contemporanei ad essi, scrivono i loro romanzi Gabriele D’Annunzio,
Grazia Deledda e Matilde Serao. Sotto l’influsso del naturalismo e del verismo,
lo scrittore in questione aderisce a tali correnti letterarie più per amore
verso la sua terra che per fede nei principi. Egli è lo scrittore che meglio ha
rappresentato lo spirito della sua regione, è cioè il “pittore delle Calabrie”,
come scrisse di lui il Croce. I racconti del Misasi, risentendo in parte,
quindi, delle istanze letterarie dell’epoca, trovano ambientazione in
situazioni realistiche ed emblematiche della società del Sud. La sua narrativa,
del resto, è facilmente collocabile nel quadro di quella letteratura minore di
carattere didascalico-sociale fiorita nella seconda metà del secolo
diciannovesimo. Quella letteratura popolare e rusticane, che, accogliendo varie
componenti, quali le istanze umanitario-sociali degli illuministi e le prime
inquietudini socio-politiche espresse dal socialismo utopistico, ha origine in
Italia soprattutto dall’esigenza manzoniana di una maggiore attenzione verso il
mondo degli umili, nonché dalla pedagogia del secolo e dai presupposti
romantici intorno all’arte, alla letteratura, alla funzione dello scrittore
nella società.
I due articoli pubblicati dallo
scrittore casentino nel “Corriere del Mattino” e utilizzati in seguito come
prefazione a Racconti calabresi possono essere considerati quasi come un
“manifesto” della tematica di tutta la sua produzione letteraria. Protagonista
delle opere del Misasi è la Calabria, con i suoi costumi, le sue tradizioni e
le sue vicende storiche. I suoi scritti sono un documento sugli interni
familiari e sull’ambiente calabrese dell’epoca, anche nei minimi usi e nelle
consuetudini di famiglia. Ne è conferma, ad esempio, la descrizione minuta e
realistica della “torre2 di una massaro:
“la torre era arredata come si
addice ad agiato contadino; un letto largo quanto lungo occupava tutto il lato
della stanza; vicino al focolare il letticciuolo dell’Anna dalle lenzuola
rimboccate su di un copertino di cotone. In un angolo un canterano nero e
polverone, sulla cui tavoletta eran disposte in bell’ordine quattro bicchieri e
una zuccheriera di porcellana greggia, una caffettiera di rame ed un mulinello
pel caffè; e l’un sull’altro due libracci dalla coperta di pergamena rosa dai
tarli. Attorno al focolare alcuni sgabelli di legno, sotto il letto due casse
di abete, e presso al canterano una cassapanca; nelle pareti del focolare una
rastrelliera con due padelle, una casseruola, alcuni piatti e un gran bacile di
terra cotta compivano il mobilio e le masserizie della torre”.
Realistiche sono anche le
ripetute descrizioni del folklore paesano, dalle quali traspare il senso di nostalgia
dell’autore per fatti e persone di altri tempi:
“Un lieto scampanio si spandeva
per l’aria calda di una luminosa mattina. Era di domenica e il paesello in
festa, chiamato alla messa dallo scampanio, ora affollato dai convenuti delle
circostanti campagne. Gli uomini in abito festivo, con la scure infilata alla
cinta dei calzoni e il cappello a cono infettucciato, seguivano le mogli e le
figliole che facevano sfoggio della gonna rossa e dei corpetti azzurri lucenti
di collane e di grosse spille. Passavano le brigatelle salutando gli amici fra
gli abitanti del villaggio che aspettando l’ora della messa chiacchieravano in
gruppi, innanzi la porta della chiesa”.
Per il continuo accenno a
credenze, a usanze, a riti e a feste,
le opere dell’autore calabrese sono, come già detto, un vero e proprio
documento etnografico. Il paesaggio della Calabria, con la Sila e le montagne
minori, domina incontrastato nelle sue narrazioni, così come il lupo, più volte
ricordato quale simbolo di forza e di ferocia, domina sulle montagne silane,
temuto e rispettato dagli latri animali e dagli uomini. Il Misasi ambienta i
suoi racconti, preferibilmente, sui monti della Sila:
“La Sila è un mondo a parte,
inesplorata anche oggi, come una grande prateria d’America. Ha bellezze di paesaggi
quali non vanta la Svizzera, ed è rude, selvaggia, aspra, come una giogaia
della Scozia”.
Le descrizioni del paesaggio
silano rivelano il profondo amore dello scrittore di Cosenza per la sua terra e
il fascino di una natura selvaggia, non ancora contaminata dall’uomo:
“Da Acri a Taverna per circa
cento chilometri la Sila eleva i suoi monti ove l’inverno cade la neve che
imbianca le foreste, seppellisce le case, colma i sentieri e segrega dal resto
del mondo i paeselli; e l’estate sfolgora il sole che feconda gli altipiani. Di
un tratto, dopo una gola angusta piena di tenebre, si apre una valle verde
coperta di erba foltissima, nella quale affonda il bufalo selvaggio, solitario
signore di quelle solitudini: dopo una immensa distesa di piani acquitrinosi
ove erran le mandre, nereggia la foresta immane coi pini fitti e giganti
allacciati da’ pruni e dall’eriche”.
Brani come i precedente hanno
tutto il sapore di un moderno depliant turistico con le relative descrizioni di
“picchi giganteschi”, di “pianure immense”, di “foreste folte”, di “acque
limpide e fresche, di “paeselli bianchi per le chine”, di “casette bianche pei
lembi delle foreste” e così via.
Nelle opere dell’autore casentino
si trovano, però, anche molti motivi romantici: vicende avventurose,
idealizzazioni di fanciulle, riflessioni sull’aldilà e sull’amore più forte
della morte”. Abbondano nondimeno conventi e monaci travestiti, storie fatali
d’amore e di morte, atteggiamenti eroici, tragedie di onore che si lavano col
sangue, rapimenti di donne, giuramenti di sangue e di vendetta. Nel proemio
alla novella Il povero Rospo, pubblicata nella “Domenica letteraria” il
26 agosto 1883, inquadrabile nell’ambito di quel romanticismo europeo espresso
da Madame de Stäel in Della letteratura considerata nei suoi rapporti con le
istituzioni sociali, il Misasi manifesta l’esigenza che l’arte non sia
dilettevole, ma utile. Egli vuole, infatti, che
“l’arte riesca utile a qualcuno,
col far conoscere la vita, i costumi, l’indole, i bisogni, le miserie di certa
gente che vive come dimenticata nei boschi nevosi, nella campagna deserta, nei
casolari cadenti, nei tuguri stretti, bui, umidi”.
Ciò è da porsi in relazione agli
interessi sociali dell’autore, il quale crede
“utile che il novelliere, povero
ed oscuro che sia, incoraggi, sproni l’economia a studiare certi gravi
problemi”.
Egli contesta anche la narrativa
a lui contemporanea, dove si incontrano
“passioni strane e mostruose,
forse non mai provate da cuor di uomo e di donna”.
Egli nega che questo tipo di arte
possa essere effettivamente “vera”, in quanto le figure che vi si muovono “non
sono studiate dalla vita reale, sono invece fantasticate dal cervello dello
scrittore”.
Il risultato è quello di creare
“caratteri falsi e convenzionali” e perciò lo scrittore calabrese manifesta
l’esigenza che
“l’artista studi nella via i
caratteri e le passioni”.
Questa esigenza avvertita
dall’autore non sembra, però, molto radicata in quanto non tutti i suoi
personaggi sono creature tratte dalla realtà; talvolta, invece, sono figure
idealizzate, come alcuni “angelicati” personaggi femminili o alcuni briganti
“dal cuore d’oro”. Tuttavia non si può negare che il Misasi abbia attinto dalla
realtà per evocare i paesaggi silani, gli interni delle case, il carattere
impetuoso del popolo calabrese. Anche nella descrizione degli abiti l’autore si
rivela un acuto osservatore dei particolari; ne è un esempio il “ritratto di
Giovannuzzo, uno sposo:
“Era vestito di una giacca di
velluto nero coi risvolti verdi, i cui bottoni di ferro luccicavano al sole; e
di brache di grosso panno nero, che gli scendevano fino al ginocchio. Le gambe
eran coperte di grosse calze di filo blu, e grossi scarponi di cuoio greggio ne
calzavano i piedi larghi e massicci. Il collare della camicia di tela si
riversava fin sugli omeri, ed al corpetto di panno verde-scuro abbottonato fino
al mento erano appese alcune medagliette raffiguranti San Francesco di Paola e
la Madonna del Carmine”.
I frequenti accenni dell’autore
al fatto che gli episodi narrati non sono stati inventati, fa capire come egli
abbia sentito il problema dell’arte e la sua aderenza all’ambiente e alla
realtà. La tendenza alla concretezza storica è senz’altro un retaggio della
scuola romantica, filtrata attraverso il “vero storico” del
e la letteratura risorgimentale in genere. I contenuti della prosa
manzoniana sono facilmente riscontrabili negli inizi di molti romanzi di
pretesa storica. Eccone un esempio:
“La nebbia grigia, densa, pesava
sul bosco che pareva come sommerso. Non stormir di foglie, non garriti di
uccelli, non mugghi di buoi, quei mugghi sonori e lieti che rompono di tratto
in tratto la tristezza silente del paesaggio silano. La nebbia qua e là si
sfioccava diradandosi, ma il cielo attraverso gli strappi di quell’enorme lenzuolo
appariva anche esso plumbeo e le cime degli alberi parea che ne toccassero la
volta”.
Fra gli alberi serpeggiava la
stradicciuola fangosa, rotta da pozzanghere: per quella stradicciuola in una
fredda mattina di febbraio del 1866 camminava un drappello di venti
bersaglieri, avvolti nelle mantelline, con le piume del cappello floscio e
cascanti, inzaccherati fino alla cintola”.
Anche altrove l’autore sente il
bisogno di datare le vicende narrate, anche se non si tratta di fatti storici;
nelle prime pagine di Frate Angelico, ad esempio, egli scrive:
“Questa storia incomincia quattro
anni dopo la morte dell’ultimo barone di Sperlinga, avvenuta nel 1840”.
In Giosafatte Tallarico il
Misasi afferma:
“Io conosco il figlio di Filomena
e di Giovanni, fu lui che mi narrò quel che io ho narrato”.
L’autore crede ai racconti orali
che gli capita di ascoltare in quanto fermamente convinto che
“la tradizione non mente perché
essa è l’anima di tutto un popolo che sopravvive e ricorda”.
Nella prefazione a Racconti calabresi
il nostro autore dichiara di
“aver ottenuto dalla cortesia del
Procuratore del Re presso il Tribunale di Cosenza il permesso di rovistare fra
i processi che si conservano negli archivi di quel tribunale”.
e che perciò non farà opera di
fantasia: Ne L’assedio di Amantea egli, infatti, cita due storici,
l’Ulloa e il Greco, dai quali,
“oltre che dai documenti che si
conservano negli archivi”,
egli attinge. Sempre nello stesso
romanzo lo scrittore ribadisce che
“nulla la fantasia ha aggiunto”
all’argomento della sua
narrazione e acclude a pagina 229 una nota in cui afferma:
“Tutto è scrupolosamente storico
in questa narrazione, come nei precedenti e susseguenti capitoli”.
Nel breve racconto intitolato Il
dramma di Pizzo nel 1815, in una nota apposta al primo capitolo, il Misasi
avverte scrupolosamente il lettore:
“da un manoscritto tuttora
inedito di un tal Condoleo, dalle memorie del canonico Mandea, confessore di
Murat, e da alcuni più che ottantenni cittadini del Pizzo, testimoni oculari,
raccolsi i particolari di questa narrazione ignorati dal Colletta e dagli altri
storici”.
A conclusione di molte novelle,
l’autore tiene a far notare al lettore da chi e in che modo gli venne narrata
la vicenda che ha costituito l’argomento del racconto, come, ad esempio, per Civetta
e collegiale:
“Questa storia mi fu narrata,
così come l’ho narrata”.
Questo modo di procedere e questo
genere di affermazioni sembrano rivelare la componente verista della sua
poetica. L’autore esprime il gusto romantico-verista dello stile che nasce
dalle cose, della lingua che nasce dall’argomento, così col suo lessico, con le
sue immagini, con la sua sintassi. J. Tynjanov, a questo proposito, afferma cle
il lessico di una data opera d’arte è in correlazione non solo con il lessico
letterario e con quello del linguaggio comune; ma anche con gli altri elementi
dell’opera data.
La funzione di termini
dialettali, ad esempio, può dipendere dal “sistema” in cui vengono impiegati.
Dai temi il Misasi ricava lo stile; in questo senso si spiega la presenza del
dialetto, latente o no, nella sua prosa. Egli, a questo proposito, afferma:
“Per maggiore efficacia e verità
ho usato molti vocaboli e modi di dire del dialetto calabrese, pur disperando
di serbare nello stile e nel dialogo, quella vivezza, quella forza, quella
maschia espressione del dialetto, evidentissimo nella sua rozzezza.
Un narratore meridionale è
potenzialmente più favorito e nello stesso tempo più svantaggiato rispetto ad
uno scrittore del Nord o del Centro Italia; egli è nato e vissuto in paesi nei
quali le passioni allignano ad uno stadio ancora primitivo, facili quindi a
esplosioni improvvise, paesi fecondi di tradizioni popolari, dove il
cristianesimo si è sovrapposto ad elementi pagani senza distruggerli e nei
quali la gente crede ancora ai proverbi ed alle superstizioni.
Questo mondo suggestivo, proprio
per la sua molteplicità di aspetti, rischia continuamente di essere frantumato;
perciò si finisce per cogliere dalla realtà i lati meno essenziali.
Il Misasi può essere inserito tra i continuatori di un verismo bozzettistico
che indugia nella descrizione di riti e di feste, affiancando un folklorismo
convenzionale al macchiettiamo più gratuito. Spesso si nota la compiacenza
dello scrittore nel proporre temi folkloristici esaminati solo in superficie
oltre a figure standardizzate; un esempio si ha quando descrive la festa che si
svolge nel paesello di Monteleone. Egli fa, in un primo momento, la descrizione
realistica delle vesti dei contadini e delle contadine, gli uni
“con gli abiti della festa,
brache di felpa allacciate al ginocchio, calze di lana azzurro e scarpe grosse
di vacchetta, camicia dal largo collare rivolto sugli omeri, berretto frigio
pendente sulla spalla destra, e col nocchioruto bastone sotto il braccio”
e le altre
“con le vesti azzurre e le
tovagliuole bianche, che è l’abito delle contadine lungo il litorale tirreno”.
Non manca inoltre la coreografia
d’obbligo di ogni festa paesana:
“i venditori di sonaglini, di
paste, di balocchi, di formaggetti a forma di cavallucci, vociano la loro
merce; nelle botteghe si affollano gli avventori , su le balaustrate dei
balconi si stendono i tappeti: lunghe file di mortaretti nereggiano in un
angolo della piazza”.
E ancora:
“Venditori di santini che vociano
a cadenza; mortaretti che scoppiano, squilli incessanti di campane, salmodie di
chierici, suoni d’organo gravi e lenti…I pretonzoli coi turiboli fumanti tra le
contadine accocciate che gridano il rosario…Venditori di arance e di castagne,
di carrube e di frittelle, merciaiuoli e sorbettieri ambulanti gridano la loro
merce fra il vocio generale, il rullo dei tamburi e i colpi rimbombanti delle
grancasse. In alto, su i balconi coperti di tappeti, la signoria di città”.
Abbiamo infine la descrizione del
rito religioso, cioè “l’Affrontata”. Il Misasi, a questo proposito dà
“ad altri la cura di studiarla
nei suoi rapporti con le rappresentazioni sacre del Medio Evo”,
egli si limita a descriverla “tal
quale la videw”. Egli così spiega il significato del nome che si dà al rito:
“È la Madonna che si “affronta”
col figliuolo; ella da prima non vuol credere alla resurrezione di lui, e San
Giovanni dovrà durar molta fatica a persuaderla; infine madre e figliuolo
s’incontrano nel mezzo della piazza”.
Sulla funzione del dialetto nella
prosa dell’autore casentino, non si può certamente ripetere ciò che la critica
ha affermato circa la “dialettalità” del Verga, ma si può solo parlare di un
certo “impressionismo” dialettale che dà una nota di colore ai suoi romanzi.
Ci sono, nella prosa del nostro
autore, molte iterazioni, oltre che di temi, anche di vocaboli. Ne troviamo un
esempio ne Il castello di Corigliano:
“Una Madonna che sorride buona
e pia, con un bambino che sorride buono e pio, sorride
alle dame e ai signori prostrati sugli inginocchiatoi di velluto e
sorride ai servi prostrati sul marmo del pavimento”.
Sono frequenti, del resto, anche
le ripetizioni di epiteti riferiti agli oggetti
“Gli alberi neri all’ombra
pareano fantasmi che lo guardassero taciti…La doppia gigantesca
fiamma rischiarò di una luce sanguigna il dorso della montagna, i cui abeti neri
ed immobili sembravano spettri neri e taciti”.
Abbondano, anche a breve distanza
l’una dall’altra, le metafore e le analogie dello stesso tipo:
“Un bambino che non abbia baci e
carezze di madre, parmi debba illanguidire come pianticella cui manchino baci e
carezze di sole…Un fanciullo che non abbia madre è come una rosa che non abbia
stelo… è lo stelo che dà il succo, i bei colori, e tiene uniti i petali
gentili; ed è la madre che coi suoi baci, con le sue carezze mette quel bel
rosso sulle guance dei fanciulli e quel lampo di gioia serena e fidente nei
loro occhi”.
Tali iterazioni, e soprattutto
quelle che riguardano il lessico, sono molte volte indice di povertà
linguistica; raramente esse scaturiscono dal bisogno di essere fedele al
linguaggio improprio, saturo di ripetizioni e di idiotismi, propri dei suoi
personaggi, spesso semplici e rozzi montanari. Sulla presenza del dialetto, si
può dare, come già espresso. Un giudizio fondamentalmente negativo. La
componente dialettale, talora fuori luogo, può essere giustificabile solo in
quanto utile a caratterizzare l’ambiente d i personaggi. Quasi mai il dialetto
entra “nudo e crudo” nel racconto,ma
viene spesso “filtrato” dal nostro autore, forse per una sorta di rispetto
furbesco per il lettore non calabrese. Il dialetto è spesso latente e può
essere svelato solo da un orecchio “allenato” alla parlata calabrese. Qua e là
si possono trovare, infatti, delle espressioni che sono la traduzione letterale
di battute dialettali. Nel seguente brano è facilmente intuibile la presenza
del linguaggio calabrese, anche se l’autore si esprime apparentemente in un
italiano quasi perfetto:
“Il silenzio profondo del bosco
le rassicurava, impietosita dallo stato in cui era ridotta la giovinetta, che
ansava non ne potendo più dal cammino e dall’angoscia”.
Sono tipiche della lingua parlata
alcune espressioni, quali: essere “col morto davanti” o “un morto che cammina”
(entrambi stanno ad indicare una persona sempre triste e taciturna. Sono
frequenti i vocaboli dialettali veri e propri, come tamarre, tata, torre,
moglieta, grasta. Talvolta alcuni vocaboli qui sopra riportatti sono
trascritti in corsivo, proprio perché l’autore, pur non volendo abbandonarli in
quanto evocatori dell’ambiente che li ha prodotti, li avverte in tutto il loro
idiotismo. Molto spesso, dai discorsi dei personaggi che si incontrano nelle
opere del Misasi sono facilmente intuibili, come già espresso, modi di dire ed
espressioni del dialetto, sotto forma di proverbi e di allocuzioni. Ne è un
esempio quel “fatto vecchio” per indicare il termine “invecchiato” e
così pure: “un vero chiappo di ‘mpiso”, cioè:”una faccia da impiccato”;
nonché l’espressione adoperata da Jacopo Rinaldi sul punto di escogitare nuovi
tranelli e angherie nei confronti di Don Ruggero: “ora acqua in bocca, e : dove
vai, porta cipolle”. Caratteristico del dialetto è anche l’uso della
preposizione semplice a in luogo della più appropriata di:
“figlia a tuo padre; ora sarei moglie a voi”. Per indicare un
avvenimento del tutto non usuale e sorprendente (cioè una gita della marchesa
di Monserrato) viene detto da un guardiano: “Vorrà nevicare di luglio”.così
pure di impronta dialettale sono le analogie, tipo:
“ci vuole dello stomaco”;
l’amico ha del cuore”; in cui entrambe le parole sottolineate hanno il
significato di “coraggio; oppure espressioni come queste:
“Qui si muore ammazzato
per queste cose. Quella lì ha il marito che non la porta per mostra l’accetta
alla cintura”; “vi farà
accogliere dai suoi guardiani a schioppettate”;
“gli ho detto che per agosto si
fosse trovato un altro padrone”,
ecc.
Anche i proverbi che ricorrono
sulla bocca dei personaggi misasiani sono molto spesso la traduzione di
proverbi indigeni, quale quello che afferma:”i veri parenti sono i denti”, per indicare che i parenti sono le persone
che possono far più male di chiunque altro; oppure: “le parole le porta il
vento”,
il quale invita all prudenza nel parlare e sparlare degli altri.
“Ricorreva la festa della Madonna
di mezzo agosto”,
scrive il Misasi a proposito del Ferragosto, che in provincia di Cosenza viene
chiamato “Menzagustu”. Senza una precisa conoscenza della parlata calabrese,
molti vocaboli potrebbero sembrare del tutto immuni da ricordi dialettali; quel
“bambinella”, ad esempio, ad un calabrese fa subito venire in mente il
“guagnunedda”, di cui bambinella è l’esatta traduzione italiana; così
pure “poverella” che è l’esatta traduzione di “poveredda”.
Di estrazione letteraria potrebbe sembrare il verbo adoperato da
un contadino nel comunicare a una donna l’arrivo del proprio marito: “Mariuzza,
Mariuzza, è giunto Michele”.
La forma è giunto, certamente più letterario di è arrivato. È
adoperata unicamente perché è la più diretta trascrizione di è jiuntu.
Il dialetto è riportato in tutta
la sua “genuinità” in canzoni di contenuto amoroso, che incontriamo più di
frequente nei momenti precedenti una situazione drammatica. Si tratta spesso di
bellissime e suggestive nenie di orgine popolare, di carattere madrigalesco:
“Brunetta virgantina, fuoco
ardente,
Spina dell’alma mia, stella
bruciante,
Chi te li ha fatti st’uocchi
risplendenti?
Ti l’ha fatti nu Dio che ni fa
tanti.
Mammata ti li ha fatti ppi la
gente”.
Oppure:
“Aquila, chi ssi nata intra lu
granu
Sei nata bella ppe mi dare pena;
Miensu a stu piettu tuo ssu due
funtane
Cchi viernu e stata l’acqua
frisca vene.
Aquila chi ssi nata intra lu
granu,
ssi nata bella ppe si dare pena.”
Più breve è invece:
“O brunnettella, ccu ssi ricci
attuornu,
Chiudili sti uocchi ca mi fai
muriri,
La notte mi fai perdere lu
suonnu,
Lu jiurnu senza core mi fai
jiri”.
Di carattere prettamente locale
sono i soprannomi di alcuni personaggi, fantasiosi e densi di significato: Scuoia-cristiani,
Orecchiemozze, Sciancato, Mezzaorecchia, Sparviero, Lupacchiotto, Diavolone,
il manzoniano Nibbio.
Nella Calabria settentrionale e
centrale il carattere morfologico più importante è l’assenza del futuro, la
rarità del congiuntivo e la limitazione dell’infinito.
Nella lingua del Misasi o, per
meglio dire, in quella dei suoi personaggi, possiamo cogliere talvolta tale
caratteristica. Nella costruzione del periodo e nella sintassi della frase il
dialetto è spesso latente, come nell’uso del passato remoto al posto del
passato prossimo; ecco come Cola si rivolge ad a
Anna:
“È una bella accoglienza che mi
fai! Disse dopo un istante di silenzio. Sono stato tutt’oggi con le pecore
sulla montagna, tornai alla torre all’avemaria, chiusi le pecore
nell’ovile, e per andar presto a letto non volli il mio piatto di
minestra”.
Accanto a termini dialettali o
per lo meno d’impronta dialettale, si trovano, per contrasto, vocaboli di
origine dotta. Senz’altro l’autore, accusato dai contemporanei di essere
scrittore esclusivamente provinciale, sia nei contenuti che nella forma,
avverte in determinati momenti il bisogno di elevare il tono della sua
narrativa. Ecco che allora adopera termini “colti” e assolutamente estranei al
periodare dei suoi personaggi. Talora può accadere un fatto abbastanza curioso
e cioè che dei popolani privi di cultura usino un linguaggio aulico,
assolutamente inadatto e del tutto estraneo alla loro parlata corrente. Una
costruzione sintattica come quella sotto riportata, ad esempio, è una vera e
propria stonatura nella bocca di un contadino:
“Credo si tratti di una
gita per far divertire la baronessa.”certamente
“dotto” è il linguaggio del brigante Marco, almeno insospettabile in un
individuo della sua risma. In tutta la novella che lo ha per protagonista,
anzi, sono frequenti vocaboli latineggianti, appartenenti semmai a u lessico
trecentesco; eccone un esempio:
“Pria che tu risponda, fa
d’uopo che tu conosca chi fui”
oppure”esponghiamo il
petto” e “noi erriamo”.
Accade anche che vengano
adoperati vocaboli tipici del linguaggio fiorentino, come ad esempio,
nell’interrogativo che Cola pone a se stesso:
“E perché il padrone, che non fa nulla,
mi piglia a calci se non l’ubbidisco a puntino?”.
Sempre lo stesso personaggio usa
la forma, più frequente in Toscana, di vo invece di vado, ma
subito dopo egli si “riscatta” con una immagine che poteva nascere solo in una
mente meridionale:
“Quando vo a portare la
ricotta al padrone… lo trovo… in una stanza parata come la chiesa quando è
la festa di San Francesco”.
Toscaneggiante è pure quel “è bellina”
detto da Caterina, una giovane contadina, oppure quel “l’ho fatta tardi
forse?”, oppure la domanda che il farmacista rivolge a Angiol Antonio: “Cosa
avete a desinare stamane?”,
nonché l’appellativo di esoso riferito a don Jacopo.
A proposito dell’uso di un
lessico a volte di origine letteraria e classicheggiante, c’è da chiarire che è
difficile per uno scrittore meridionale, in genere, affrontare la realtà senza
richiami letterari. Nel Misasi, oltre a percepire qua e là la presenza di un
Vergao
di un Manzoni,si può
addirittura notare qualche reminescenza dantesca: riferendosi alla protagonista
femminile de La badia di Montenero, egli scrive che
“ella è tale che la umana miseria
non la tange”,oppure
quando definisce il povero come colui che “va mendicando la vita frusto a
frusto”.
Da collegare all’Alighieri è
anche il motivo della veglia solitaria di un personaggio:
“E mentre nella casa tutto era
silenzio, e i servi dormivano placidamente, ed ella forse placidamente dormiva;
mentre di fuori tutto era silenzio, il silenzio dolce di una notte di una notte
d’estate rotto di tanto in tanto da un latrato lontano, dal grido di un uccello
notturno, dalle note di un usignolo innamorato, dal roco gracidar delle rane,
egli col cervello in tumulto si aggirava per la stanza”.
Sia in Dante che in altri autori
classici questa veglia solitaria acquista maggiore forza evocativa poiché
intorno al personaggio regna la pace più assoluta, compresa quella di tutti gli
altri esseri viventi, nell’autore casentino la pace non è mai totale e il
silenzio della notte è sempre interrotto dal grido lugubre di un uccello
notturno, oppure dal canto melodioso di un usignolo in amore. Ai ricordi
letterari scolastici, oltre ai motivi espressi nelle pagine precedenti, si
possono collegare i frequenti vocaboli di origine illustre ed aulica e
particolari latinismi: “sei usata a non avere rivali”; “un nome che i
suoi maggiori avevano onorato”; “aveva cercato di sottrarsi a suo padre temendo
non le leggesse in viso l’irrequietezza”;
“la bella villana”. Identica matrice ha quello stile melodrammatico caro
agli ultimi romantici, zeppo di esclamative ed interrogative retoriche. Ne può
essere prova questo brano de La badia di Montenero, in cui la presenza
iperbolica di esclamative ed interrogative retoriche, vorrebbe riprodurre il
dramma che si svolge nell’animo di Giacomo:
“Ma perché, ma perché il destino
gli aveva fatto balenare innanzi agli occhi quella luce dopo averlo per tanti
anni spinto innanzi fra le tenebre in cui aveva incontrato la colpa o il
destino? Perché proprio quando egli per l’orrendo impulso che lo aveva sospinto
verso l’abisso era per precipitarvi finendo una vita di violenza con la
violenza, di sangue nel sangue, di tragiche scene con una tragica catastrofe,
perché lo aveva soffermato proprio sull’orlo dell’abisso e aveva fatto apparire
quella visione di altri tempi, degli anni suoi giovanili, che era dileguata
allorché si era lasciato prendere all’ingranaggio della colpa? Non era quella
la ironia atroce, la più orrenda perfidia del suo destino che aveva chiuso una
vita di brutture fra due purissimi sogni? Era risorta più bella, più radiosa,
più celestiale quella visione divenuta una realtà, una realtà fatta di quanto
la femminilità ha di soave, il sentimento di più puro, la bontà di più pio, la
bellezza di più luminoso? Perché a lui che si avviava verso la morte con un
profondo disdegno della vita, di cui non aveva conosciuto che il male, era
apparsa quella impromessa di ogni felicità, quel raggio di luce? Non era un
fargli più orrenda la morte, più acuti i rimorsi? Non era un fargli rimpiangere
la vita or che ne aveva visto nella realtà il bene? Ed era degno il cuor suo di
custodire per poco quello amore, di accogliere anche per poco quell’immagine? Non
era il cuor suo una busta ben lurida per quella gemma sì preziosa? Ah, no, no,
chè egli si era inteso assolto delle sue colpe da quell’amore che aveva fatto
rigermogliare in lui tutti i più puri sentimenti giovanili, che gli aveva
rifatto una giovinezza”.
D’altronde la ridondanza nello
stile dell’autore di Cosenza è da ascrivere a gran parte degli autori del Sud.
“I meridionali – afferma
Francesco Bruno – in genere, sono indotti a esagerare e a ingrandire anche le
inezie, e dilatare e abbellire le immagini, le metafore, le perifrasi, le
similitudini; La loro opera in versi e in prosa si determina come esigenza
morale tendente al solenne e al grandioso”.
Molti episodi sono ricchi di
“pathos”, ma la drammaticità, in essi, sfiora talvolta il ridicolo; i gesti dei
personaggi sono, in effetti, teatrali e degni di un dramma greco. Eccone un
esempio:
“La marchesa ebbe un grido di
suprema angoscia, di spavento supremo: con gli occhi sbarrati come da un folle
pensiero guardò il giovane che aveva incrociate le braccia sul petto e la
fissava pensoso; poi avventandosi quasi alla bambina, le strappò una medaglia,
la girò e rigirò fra le mani, parve riconoscerla, e mentre la bambina scoppiava
in pianto, volse di nuovo gli occhi al giovane e cadde riversa con un grido”.
Le descrizioni della natura nella
narrativa misasiana hanno spesso la funzione di collegare i periodi tra di loro
e di dar respiro a tutto il racconto; in tali casi, però, si avverte tutta la
prolissità e la ridondanza tipica dell’autore. In certi altri tuttavia queste
descrizioni costituiscono dei veri e propri momenti lirici di abbandono a
reminescenze bucoliche:
“Era un mattino splendidissimo
d’agosto, il cielo di un azzurro cupo, era macchiato qua e là di bianco: il
sole copriva della sua luce immobile le campagne che si stendeano come stanche
e sonnacchiose sotto quelle carezze di fuoco. Le acque del fiumicello
scorrevano lampeggiando giù per la valle; e da lungi le colline, i monti, i
burroni rivestiti di boschi erano come avvolti in una nuvola azzurrina, fra le
quali spiccavano i bianchi paeselli. Quel silenzio veniva rotto di tanto in
tanto dal grido di un uccello che fendeva l’aria e da una sorda schioppettata,
cui tenevano dietro lontani latrati. Nei campi mietuti pascolava zoppicando
qualche giumenta impastoiata; e presso i salici del fiume grufolavano alcuni
maiali guardati da un contadinello, che di tratto in tratto da un fischietto
traeva certi suoni monotoni e pur dolci, discordi e pur piacevoli”.
Ma tale calma del paesaggio è
spesso solo apparente e preannunzia sovente drammatici avvenimenti. Nessun
elemento fa supporre l’addensarsi di un dramma violento, di vendetta e gelosia,
per il quale ben due persone verranno uccise:
“Di tanto in tanto a lui <
l’uccisore> d’intorno guizzavano le lucciole, saltavano zirlando i grilli, e
qualche uccelletto, incerto ancora del ricovero, volava di cespuglio in
cespuglio. Però nulla turbava il silenzio solenne e malinconico di quel luogo:
solo ad un trar di fucili uditasi il mormorio del Jassi, e qualche canto
lontano di contadino, fioco come un sospiro, triste come un gemito”.
È frequente l’abbrivo esclamativo
di tipo foscoliano; spesso la descrizione della natura dà inizio al racconto.
Contrariamente a ciò che avviene nei racconti di scuola romantica, nei racconti misasiani può accadere a volte che la natura
sia in contrasto con l’animo dei personaggi. Il romanzo Sacrifizio d’amore
inizia, infatti, con una lenta e pacata descrizione della sera in una capanna,
nella quale si assiste a tutto un tripudiare di animali e di cose; questa
serenità del paesaggio è contrapposta, quasi con violenza, al dramma di Luciano
Certaldo, protagonista del suddetto romanzo:
“Nell’ombra che già era scesa
nella campagna, il silenzio profondo era rotto dal fiume che scrosciava in
fondo alla collina. In cielo si accendeva qualche stella e su i monti lontani qualche fuoco di
pastore. Il lamentoso gracidio delle rane era rotto dal grido d’un uccello
tornato al nido, poi silenzio di nuovo nello scroscio lungo e sordo del fiume”.
Visioni idilliche di tipo
leopardiano fanno da sfondo a un tentativo di suicidio. Gli esseri animati di
specie inferiore vivono tutti in serena tranquillità; la vita del paesello si
svolge secondo il modo consueto: solitario è perciò il dramma di Luciano Certaldo.
Egli
“alzò il capo e volse gli occhi
alla finestra aperta donde in quella sera dolce e malinconica di maggio entrava
col lieve venticello il sottile profumo dell’erba fresca e degli alberi in
fiore. Le casette coloniche che biancheggiavano qua e là fra gli oliveti e i
gelseti intorno la sua casa, tacevano in quell’ora della sera, ed egli sapeva
che le famigliuole dei terrieri ivi raccolte erano tutte intorno al focolare,
ove ardeva malgrado il tepore primaverile una gran fiammata sulla quale cuoceva
la magra cena. Dalla finestra aveva visto tornar con la zappa o con la vanga in
ispalla gli in numeri contadini che coltivavano la sua vasta tenuta, e nel
passar sotto alla sua finestra, si eran tolto il berretto salutandolo con un
“santa notte” cui egli aveva risposto con un lieve chinar del capo. E poi li
aveva visti entrar nelle casette, dai comignoli delle quali già si elevava un
sottil fil di fumo. Aveva visto tornar le greggie belanti e i buoi lenti che
mugghiavano a sentir la stalla; aveva visto uscir dai tuguri le contadine per
ricondurre all’appollatoio il pollame razzolante per l’aia e per i senteriuoli
che fra le due siepi di more selvatiche menavano ai campi; aveva inteso
grugnire i maiali che tornavano dal pascolo, e il dialogar breve dei lavoratori
innanzi agli usci con le vanghe e le zappe tuttora in ispalla; poi la quiete si
era stabilita, e con la quiete il silenzio, ed egli era rientrato e si era
seduto innanzi allo scrittoio”.
Sempre nello stesso romanzo
troviamo un vero e proprio inno a una natura in cui tutti gli esseri viventi
sono in amore, il che fa sentire ancora più angoscioso il dramma del
protagonista, colpito da una grave deficienza fisica, l’impotenza. Questo è lo
scenario che si presenta agli occhi di Luciano:
“Ovunque, su gli alberi, sui
tetti, fra le zolle erano i nidi, e per l’aria eran farfalle che si
inseguivano, ed ogni calice di fiore era un talamo, e tra i cespugli in fiore,
nelle folti vegetazioni dei sambuchi e negli spineti, e nelle edere e nelle
orticarie delle ampie siepi, sentiva fremere la vita e quindi l’amore in tutte
le sue manifestazioni potenti”.
L’abbondanza delle congiunzioni,
in questo caso, non è un difetto, ma acquista un particolare valore semantico;
infatti le congiunzioni servono per rafforzare e mettere in maggior contrasto
la vita degli insetti, cui è permesso di godere, con quella di Luciano, a cui
questo piacere è negato. Sempre nella stesa opera incontriamo immagini
dannunziane che fanno ricordare quel modo di sentire la natura che si può
riscontrare ne La pioggia nel pineto. L’uomo s’immerge in essa
identificandosi quasi con essa:
“Stando così assorta alla
finestra, vide passar le greggi belanti che ivano alla pastura, i buoi lenti e
gravi, e uscir dal pollaio le oche e i tacchini che una fanciulla si menava
innanzi, ed ella rispondea con un lieve chinar del capo al saluto dei
mandriani, dei bovari, delle contadine e dei terrieri che partivano per i
campi. Poi si sentì attratta da quel delizioso paesaggio, dalla luce deliziosa,
e intese un bisogno acuto di uscir fuori all’aperto per immergersi in quel
nembo di rose che pioveva dall’alto, in quella nuvola di profumi che saliva dal
basso, e di vagar per quei campi che destati al sole, fremevano di sussurri di
aliti, di trilli, di voci, di gorgheggi, col fiume in fondo che scrosciava fra
le elci ed i canneti”.
Francesco Bruno, nella già citata
opera sulla narrativa meridionale, a proposito di questo modo di sentire la
natura, osserva che
“nella coscienza degli scrittori
meridionali, da Telesio a Campanella in poi, è presente il fervido attaccamento
alla natura, che si confonde con l’universo e si identifica con l’essere
umano”.
Nicola Misasi è scrittore
popolare non solo per quanto riguarda il contenuto, ma anche per quanto
concerne la forma, pur restando fermo il concetto che forma e contenuto, in
qualsiasi opera d’arte sono in stretta correlazione. Nella prosa dell’autore
calabrese ci sono elementi discordanti che possono ricondurre la lingua dei
personaggi a quella tipica della letteratura avulsa dalla realtà; tuttavia una
tale prosa è nel complesso popolare, cioè alla portata delle menti di tutti i
lettori, anche di coloro che non hanno grande cultura. Una caratteristica
sintattica dell’autore cosentino è quella di iniziare il periodo con delle
congiunzioni (molto spesso ma ed e), riproducendo in tal modo il
dialogare aconnesso e asintattico del dialetto:
“Ma si sentiva una voglia
matta di chiacchierare e volgeva gli occhi alla padrona per cogliere l’istante
favorevole in cui l’avesse vista disposta ad ascoltarla. E poiché la
signora non gliene dava l’occasione non sapendo più trattenersi, disse…”
frequentemente la congiunzione e
si incontra subito dopo la virgola e tale particolarissimo uso è giustificato
dal fatto che l’autore vuole in questi casi mettere in evidenza lo stato
d’animo del personaggio. Nel brano seguente la ripetizione della congiunzione
suddetta riproduce l’interno orgasmo di Maria costretta, contro sua voglia, ad
agghindarsi per la cerimonia nuziale:
“Ella sedette innanzi allo
specchio, lasciò che il parrucchiere le sciogliesse la folta chioma, e
la pettinasse, e l’intrecciasse, e l’annodasse, e gliele
raccogliesse intorno al capo”.
Elemento caratterizzante di una
prosa popolare, oltre al legame sintattico suddetto, mediante le congiunzioni,
è la frequente presenza di immagini prese dal vivere quotidiano. Massaro Tonno,
rivolgendosi a un giovane per fargli comprendere quale rovina abbia colpito la
famiglia dei marchesi di Monserrato, si esprime con queste parole:
“Sappi, per tua norma, che
ricchezza senza padrone è povertà, che l’occhio del padrone ingrassa il
cavallo, che quando il gatto ha le unghie rotte i topi ballano. Famiglia
rovinata, sissignore, come è rovinata la mandra quando i cani non sono più
buoni a lottare coi topi”.
Anche i modi di dire seguenti
richiamano la vita contadina:
“Le parole non danno farina”;
“che bella cosa la confessione! Si può avere l’anime nera come la bocca di un
forno… e in men di un quarto d’ora diventare candido come una ricotta vergine”.
Altro elemento tipico di una
prosa popolare è la frequenza del dialogo. Ludwig distingueva due tipi di
tecniche narrative: il “racconto in quanto tale” e il “racconto scenico”. Nel
primo tipo il raccontare si trova in primo piano, in quanto l’autore stesso
narra, rivolgendo il proprio discorso agli ascoltatori; nel secondo tipo,
invece, è il dialogo la componente essenziale e la parte “narrata” ha la
funzione di commento e di didascalia. In quest’ultimo caso, in cui appunto il
dialogo è alla base del racconto, il lettore diventa anche spettatore, giacché
percepisce il tutto non in quanto raccontato, ma in quanto si verifica davanti
agli occhi, sulla scena. I dialoghi dei personaggi misasiani sono quasi
esclusivamente articolati secondo il principio della conversazione e hanno il
colorito sintattico e lessicale del linguaggio dialettale. Accade, infatti, che
l’autore adoperi molto spesso le parole stesse dei personaggi, come in un
copione teatrale. Eccone una breve sequenza:
“-Hai inteso, brutta bestia?”
“-Chi? Quel figlio di malafemmina?
Sì, me ne ero accorto, ma lo mandai via con due buoni calci. Se l’avea fatti
bene i conti quella faccia d’impiccato! Ma la mia figliuola non era pecorella
per le zanne di quel lupo”.
“Mogliema è mogliema, e a
te do da mangiare per fare il Michelaccio, forse?”.
“ –Ah, mulo! Ah, figlio di
una malafemmina! Ah, carogna!”.
“-Va bene, va bene, qua sotto non
piove”
“-Me l’avevano detto in Sicilia,
me l’avevano scritto anche:…Venni qui e mi nascosi sulla montagna. Quando fui
sicuro della tresca, quando ieri vi sorpresi, l’ora non era
propizia…Aspettai…Massaro Mico non me la farà più…me lo ho visto cadere
dinanzi come una pera fradicia”.
Nei racconti e nei romanzi del
Misasi si incontrano pagine intere contenenti il discorso diretto, che ha la
funzione di rendere più immediato e più vivo il racconto, molto di più che se
il racconto fosse fatto dalla voce esterna di un narratore; l’autore si limita,
cioè a fare da espositore di ampie didascalie. Vediamone un esempio:
“-Perdio- diceva un vecchio, ma ancora vigoroso
squadrigliere- perdio, ha tenuto testa
a dieci di noi, e se non l’avessi ferito al fianco se la sarebbe
svignata. Pure ha lasciato qualche ricordo: Giovanni e Tonno sono feriti e Beppe
ha una costola rotta.
- E il capitano intanto è furioso perché abbiamo fatto
scappare gli altri.
- Vorrei vedere un po’…rispose il vecchio montanaro: e finì
la frase borbottando non so che parole.
-
Non son mai contenti costoro, esclamò un altro: Marco solo
valeva tutta la banda.
-
Lo fucileranno, non è vero?
-
E che vuoi ne facciano?
-
Povero Marco: via bisogna convenire che ne ha cuore in petto,
e che oramai non ce ne è, né ce ne saranno più di quello stampo lì.
-
No, non ce ne saranno più, disse un altro con un tal qual
rammarico. Dove sono ora i Tallarico, i Mazza, i Pezzafanti, i Benincasa, i
Palma? Quelli sì che eran lupi, gli altri son pecore. Marco era degno di
nascere in altri tempi.
-
Sì, ma non so perdonargli l’assassinio di quella poveretta.
Pugnalare una femmina! Un uomo passi, si sa… chi di noi non ha dato un colpo di
coltello in vita sua? L’avete vista, compagni? Ha un viso di Madonna
addolorata.
-
Io non credo che sia stato Marco a pugnalarla. Del resto,
quando il sangue è montato in testa… sapete il proverbio. Intanto la morte di
quella povera ragazza ha salvato massaro Giuseppe. Bisogna davvero crede che i
briganti l’obbligarono col coltello alla gola a ricoverarli, altrimenti, che
diavolo! Avrebbero ucciso la nipote? Ti pare?
-
Io però non gliela sapeva questa nipote. Volete che parli
schietto? Non la veggo liscia come vogliono dirla: Basta, se la vedrà con il
giudice.
-
Il giudice, interloquì un altro sopraggiunto, il giudice ha
fatto arrestare i due massari ed a mio parere ha fatto bene. stasera il
cadavere della giovinetta sarà portato qui.
-
Qui?
-
Sicuro! Lo metteranno nella prigione di Marco.
-
Oh, oh! Fecero gli squadriglieri, è ben crudele il giudice!
-
No, il giudice fa bene: sapete che penso? E abbassò la voce:
gli latri si fecero intorno premurosi ed attenti.
-
Penso, continuò lo squadrigliere, che il giudice voglia fare
una prova.
-
Una prova?
-
Già. Egli non crede a quel che narrano i massari. Quella
nipote scesa giù dal cielo proprio ieri notte… capite che è starno. Eppoi si
sono raccolti altri indizi. È un gran volpone, il giudice! Egli starà in
ascolto e di sicuro Marco in presenza di quel cadavere dovrà dir qualcosa.
-
Ben pensato, ma crudele. Io affronterei venti briganti, ma non
starei un istante solo con un cadavere. Morirei dallo spavento”.
Nell’esempio
del dialogo qui sotto riportato manca addirittura l’intercalare dell’autore:_
-
“Ci è dunque un uomo che vi ama?
-
Sì, di una amore assai basso.
-
E che voi non amate?
-
No, padre mio, no.
-
Perché ne amate in altro?”.
Molto spesso il dialogo è, come
precedentemente espresso, alla base del racconto, con l’intervento o senza
dell’autore. Ecco un esempio del periodare secco a botta e risposta:
“- Già. Ma parlasi
d’altro. Dite, che novità abbiamo?
-
Le solite. Le castagne e il grano sono andati a male, non
abbiamo speranza che nel granturco.
-
E del resto, null’altro?
-
Ah, sì; stanotte fu trovato ucciso massaro Mico.
-
Massaro Mico? Quello che ha la vigna presso il vallone?
-
Per l’appunto!
-
O poveretto! E chi l’ha ucciso?
-
Non ne so nulla ancora.
-
Oh, che mi dite. Era tanto un brav’uomo.
-
Sì, ma un po’ donnaiuolo.
-
Infine non faceva male a nessuno: andava appresso alle femmine
di male affare, ma rispettava le oneste. Non credo avesse nemici.”
I dialoghi senza intromissione
dell’autore sono molto frequenti. Eccone un ulteriore esempio:
- Tu dici che
Peppe Carbonelli si terrà l’offesa?
- Se non lo
conoscessi! Ma non ci è che dire: il giovanotto è bene ardito.
- Vedrai che
coglierà questa occasione per raggiungere lo Sciancato sulle montagne.
- Lo Sciancato
non lo vuole, non se ne fida.
- E dimmi:
come ti regolerai tu, se Peppe Carbonelli l’affronterà in mezzo a noi?
- Farò il mio
dovere: son pagato per questo, e quando son pagato…
- Hai ragione.
- Ma non vi è
pericolo: Peppe Carbonelli è uccello di notte; le sue cose se le sbriga al
buio.
- Peccato, il
giovanotto mi piace. Ha un certo sguardo…Ma sai che quello sguardo non mi è
nuovo? Quattro anni or sono conobbi un tenente dei bersaglieri che comandò per
due giorni la squadriglia della quale io faceva parte. Sono passati quattro
anni ormai, eppure a me pare che quel giovane lì gli somigli molto”.
Il dialogo è
spesso interrotto da lunghe riflessioni di questo o quel personaggio, il più
delle volte ripetizioni inutili che appesantiscono il racconto, il quale in
questo modo perde la sua caratteristica di racconto “scenico” in tali occasioni
soprattutto la prosa dell’autore si carica di quella prolissità e di quella
retorica tipica dei meridionali. Per evidenziare la catena di dubbi e di
pensieri molteplici che turbinano, ad esempio, nella mente di Giorgio, il
Misasi scrive ben tre pagine intere di esclamative ed interrogative. A chiusura
di queste lunghe serie di interrogativi angosciosi, sono poste osservazioni di
questo tipo:
“Così stette
lungamente tutta data a tali pensieri, lei sola vegliante nel sonno profondo
della casa”;
oppure:
“Quanto stette
così immersa nei suoi torbidi pensieri non avrebbe saputo dire”.
Parallelamente
all’analisi della forma narrativa adottata dall’autore casentino, è
interessante esaminare anche il rapporto narratore-opera. Il Tomaševskij, uno
dei formalisti russi, afferma in tale proposito:
“vi sono vari
tipi di narratore: il racconto può essere condotto come una semplice
comunicazione di fatti oggettivi da parte dell’autore, senza che si spieghi in
che modo si è venuti a conoscenza degli avvenimenti (racconto astratto), può
essere attribuito al narratore come a una qualche persona concreta. Questi è
talora presentato come la persona che ha udito i fatti da altri o come un
testimone, o infine come uno dei partecipanti alla vicenda. In tal modo vi sono
due tipi fondamentali di narrazione, il racconto astratto e quello concreto.
Nel primo caso l’autore è al corrente di tutto, anche dei pensieri più
reconditi degli eroi. Nel secondo caso (il racconto è fatto in prima persona)
tutta la narrazione è filtrata attraverso la psicologia del narratore. Sono
possibili anche dei sistemi misti.”
Il Misasi può
essere collocato in quest’ultima categoria contenuta nella citazione. Egli,
anche se sovente assume il ruolo di colui che narra, più spesso si limita, come
già è stato detto, a brevi commenti e didascalie; sono i personaggi stessi che
parlano, come se lo scrittore fosse testimone di quello che accade. Il nostro
autore preferisce scrivere in prima persona, come colui che racconta episodi,
cui se non ha partecipato, ha almeno assistito. Non di rado accade che sia lo
stesso personaggio protagonista a “narrare” i fatti: ne è un esempio la novella
di Francesco il mendico. L’autore si rivela appieno nella prefazione
oppure nelle lunghe digressioni di carattere morale che si possono incontrare,
inserite nel contesto di un racconto. In tali casi, anzi, l’autore,
abbandonando i canoni veristi della imparzialità e dell’indifferenza verso gli
argomenti trattati, ribadisce i suoi principi riguardo alla morale. Esemplare a
tale proposito è il racconto Il povero Rospo, nel quale l’autore
praticamente non narra niente, ma espone le sue osservazioni sul problema dei
figli illegittimi prendendo spunto proprio dal povero ragazzo abbandonato, che
tutti chiamano Rospo. Comunque, anche nel caso in cui il Misasi narra i fatti
dall’esterno, si avverte la sua presenza, a dispetto della impersonalità
proclamata dal verismo. A pagina 194 di Frate Angelico, dopo una
riflessione sul comportamento dei personaggi trattati, c’è, ad esempio, il
sintomatico: “Torniamo al racconto”.
La prosa
dell’autore calabrese, in ultima analisi, talora attraente per la sua vivacità,
tal’altra satura, al contrario, di prolissità, manca di un’adeguata
maturazione. Solo raramente egli riesce ad ottenere un discorso lineare,
rapido, scorrevole. Il brano qui sotto riportato, in cui lo stile è talmente
asciutto e scarno da far comprendere l’allegra confusione di una festa paesana,
è quindi una delle poche eccezioni:
“Poi, ad un
tratto, echeggiano le musiche, rullano i tamburi, rimbombano le gran casse,
salmodiano i preti, cantano le contadine, squillano i campanelli. La folla si
agita, ondeggia, sussurra; le donne salgono su le seggiole, le contadine
accosciate s’ergono, gli uomini s’appuntellano ai bastoni per non cadere
all’urto dei dietrostanti; i venditori fan riparo del corpo alle merci”.
Gli elementi
rinvenuti nella prosa dell’autore casentino –arcaismi, parole dialettali,
francesismi, toscanismi,ecc.- sono troppo slegati fra loro e non intimamente
rivissuti dallo scrittore per poter dar vita a una lingua originale e nuova
come è stata quella di Giovanni Verga delle grandi opere. Sulla lingua senza
stile e coordinazione dello scrittore di Cosenza, può essere valida
l’osservazione del Russo sulla lingua del Verga giovane:
“la <lingua
fatta> di Verga… è per una parte il dialetto siciliano tradotto
approssimativamente in un italiano illustre (o, se piace meglio, in un
siciliano illustre), e dall’altra è la lingua dei romanzi francesi anch’essa
tradotta e ricondotta a un astratto e immaginario modello di una lingua
nazionale.”
Luigi Capuana,
teorico del verismo italiano, in questo modo sintetizza le sue idee circa la
lingua dei nuovi scrittori:
“Dovevam o
rimanere con le mani in mano, aspettando la prosa nuova di là da venire? E ne
abbiamo imbastita una purché sia , mezza francese, mezza regionale, mezza
confusionale, come tutte le cose messe in fretta.”
Sono molti i
francesismi adoperati dal Misasi; tale componente del suo linguaggio è dovuta a
quel “francese bastardo”,
imparato sul testo di scrittori francesi d’appendice, come scrive il Russo nel
già citato studio sul Verga. Sono frequenti, infatti, i participi presenti alla
francese e la costruzione del di partitivo (es. molti di danari).
Sono presenti anche vocaboli di tipica impronta francese (es.: avea deciso di rendersi
all’invito) oppure termini della lingua francese, come “dormeuse”, più volte
rammentata in Devastatrice. In una lingua così ibrida, non potevano
certamente mancare i toscanismi, (io mi fo gli affari miei; di molti;
anella; l’Anna; l’è un uomo come ogni altro) e nel fare
ciò, l’autore di Cosenza, oltre a seguire i canoni espressi dal Capuana, segue
le orme del Manzoni e, in minor misura, del Verga delle opere giovanili. Sono
frequenti i diminutivi di stampo toscano ed anche quelli coniati dall’autore
sul modello di quelli toscani.
Non mancano,
nella prosa del nostro autore, errori di grammatica e di sintassi, errori che
gli hanno procurato notevoli critiche. Qua e là, si possono addirittura incontrare
delle incongruenze, come di chiamare Rosa , personaggio de Il tenente
Giorgio, “la bella vedova”, mentre invece ella ha il marito in America.
Come riferisce la Jannuzzi nella biografia contenuta in Pagine calabresi,
il Misasi stesso confessava spesso:
“Io sono operaio
della penna e lavoro a giornate”.
Con l’avallo di
un tal genere di affermazioni proprio da parte dello stesso autore, si è venuta
maturando nei critici l’idea di un Misasi produttore a “getto continuo”. Egli,
stimolato dagli amici e dagli editori, che lo incalzano con richieste sempre
più pressanti di racconti e di romanzi, scrive trascurando molto spesso, non
solo lo stile, ma addirittura la revisione definitiva dei suoi scritti, che
contengono perciò frequenti errori di ortografia. La negligenza stilistica,
perciò, giustifica il severo giudizio di alcuni critici, quali il Sapegno e il
Cattaneo ( quest’ultimo lo definisce “uno sgrammaticato romanziere
d’appendice”.).
Nell’ ottavo
volume di Storia della Letteratura italiana, sempre il Cattaneo si
esprime in questi termini:
“Nicola
Misasi è considerato il rappresentante verista della Calabria. Si tratta di un
romanziere d’appendice che col verismo non ha niente di comune e appartiene a
una deteriore letteratura popolare”.
Giudizio
favorevole viene espresso solo dal Croce:
“Le
Calabrie ebbero il loro pittore in Nicola Misasi, che continuò nei suoi
racconti e nei suoi quadri di costume il romanticismo calabrese d’intorno il
1840, di Domenico Mauro, di Vincenzo Padula e di Pietro Giannone. Lo continuò
anche in certa, non si vuol dire approvazione, ma pure simpatia ammiratrice per
le violente passioni d’amore, di gelosia e di vendetta, che erano di quella
gente, e, e per il brigantaggio che, al tempi dei Francesi, si tinse non solo
di consimili passioni ma anche di una sorta di offeso sentimento patrio o
regionale. Così ispirato il Misasi narrava bene, con quella particolarità ed
evidenza che nasce dall’adesione alle cose narrate… Il Misasi descrisse la Sila
(Il gran bosco d’Italia), con molta sagacia analizzò la vecchia vita
provinciale e lo sconvolgimento e distruzione di essa al quale egli aveva
assistito, illustrò i sentimenti del popolo calabrese nei suoi canti e
ricelebrò il loro gran santo, san Francesco di Paola”.
Nonostante
i validi motivi di fondo che si possono riscontrare attraverso una lettura
attenta delle opere misasiane, l’autore calabrese è noto soprattutto come
narratore di inverosimili storie di briganti, di fanciulle eteree, di femmine
perverse e di intrecci complicatissimi con finale spesso drammatico.
Attualmente l’opera e il nome del Misasi sono quasi del tutto sconosciuti,
anche se vasta è stata la sua produzione e lusinghiero il successo ottenuto
presso un pubblico abbastanza eterogeneo di lettori. Il destino dell’autore
calabrese è perciò da accomunare a quello degli scrittori che, rivolgendosi in
maggior misura a un pubblico di elementare capacità comprensiva, cadono nel più
completo oblio. Si tratta di quella letteratura di consumo, che è fucina eterna
di “best-sellers”, ma che, con l’arte, non ha niente a che vedere. Mario Praz,
scrive a tale proposito:
“ci sono
geni supremi e anche maestri minori che, grazie al loro vasto appello umano,
godono una certa popolarità in ogni tempo: non questi sono gli indici del
gusto, per esprimerci in termini di borsa, subiscono oscillazioni violente.
Costoro sembrano passare come comete nell’età in cui vissero, con un bagliore
che ha del prodigioso, poi scompaiono, pare, dal firmamento.”
Lo
stesso critico, sempre sul medesimo tema, afferma che la grandezza di uno
scrittore è
“in
ragione diretta della sua perenne contemporaneità, essendo egli ricco da poter offrire a ogni nuova epoca un aspetto
in cui essa può specchiarsi”.
Un concetto assai simile è espresso dal formalista russo Tomaševskij
sul carattere effimero della “letteratura di consumo”. Egli è del parere che le
opere letterarie che si occupano solo dei problemi di attualità, non riescono a
sopravvivere nel tempo; al contrario, andando oltre i limiti dei problemi
quotidiani e prendendo come tema quegli interessi che sono rimasti immutati
durante tutto il corso della storia umana ( es.: problema dell’amore, della
morte, ecc.), l’opera d’arte può sopravvivere al passare del tempo.