Storia della letteratura europea - Torna in homepageNicola Misasi: Poetica – Linguaggio- Stile, di Maria Lorello


 

Nicola Misasi: Poetica – Linguaggio- Stile, di Maria Lorello

 

La poetica dello scrittore è facilmente intuibile da quando egli stesso afferma in ampie e prolisse prefazioni o introduzioni ad alcuni suoi racconti. I ricordi autobiografici sparsi qua e là nelle sue opere, più che i documenti veri e propri, rivelano utili notizie circa la sua prima formazione culturale. Il Misasi, rimasto estraneo alle grandi correnti filosofiche europee del suo tempo, nutre grande ammirazione verso pensatori suoi conterranei, quali Bernardino Telesio, Tommaso Campanella, Valentino Gentile; tale ammirazione è però motivata più da campanilismo che da profonda adesione ai principi espressi dai suddetti filosofi. Egli, infatti, anche se sovente indulge a narrazioni fantastiche, predilige lo studio della realtà umana alla teoria o ideologia di correnti filosofiche.

I soggiorni dell’autore a Napoli nel 1880 e a Roma nel 1882 determinano una positiva evoluzione della sua arte; si ha, infatti, in tale occasione, un passaggio quasi repentino da una produzione poetica appartenente al romanticismo deteriore, a una narrativa di carattere prevalentemente sociale. L’ambiente culturale napoletano, teso verso una nuova forma di letteratura, spinge l’autore cosentino ad andare oltre il chiuso ambito del provincialismo letterario. Le parole di Francesco Bruno ne La capigliatura napoletana e meridionale danno un quadro abbastanza fedele della vita fervida di iniziative culturali della Napoli fine Ottocento:

“Gran parte degli autori rivolava, in serata, verso Piazza Dante, dove si accampava la notissima libreria Pierro. Il casotto, che costituiva il regno limitato di Luigi Pierro, audace e intrepido libraio-editore, era frequentatissimo da lettori poco esigenti, che compravano, con puntualità, i celebri romanzi di Dumas padre e figlio e di altri narratori popolari, a dispense illustrate, come venivano edite dalla casa Sanzogno di Milano. C’ erano poi i clienti fissi, le élites culturali, gli scrittori, che Pierro aveva lanciato e che convenivano ogni giorno nel locale, trattenendosi a discutere e a commentare i fatti di cronaca”.[1]

Il nostro scrittore attua la sua formazione culturale nella seconda metà dell’Ottocento, periodo in cui in letteratura scompaiono a poco a poco gli ormai triti motivi “socializzanti” del tardo manzonianesimo. Nello stesso periodo i contenuti della narrativa spostano il loro fulcro intorno a interessi documentari della realtà quotidiana. Il siciliano Luigi Capuana proprio in quegli anni espone i principi della nuova corrente letteraria d’oltralpe: il naturalismo. “Il naturalismo e il verismo sembravano lo specchio sconcertante che abbacinava un po’ tutti”,[2] scrive il Bruno. Gli scrittori che riscuotono maggior successo in Europa in questo periodo sono infatti Maupassant, Flaubert, Zola, Balzac; mentre in Italia, contemporanei ad essi, scrivono i loro romanzi Gabriele D’Annunzio, Grazia Deledda e Matilde Serao. Sotto l’influsso del naturalismo e del verismo, lo scrittore in questione aderisce a tali correnti letterarie più per amore verso la sua terra che per fede nei principi. Egli è lo scrittore che meglio ha rappresentato lo spirito della sua regione, è cioè il “pittore delle Calabrie”, come scrisse di lui il Croce. I racconti del Misasi, risentendo in parte, quindi, delle istanze letterarie dell’epoca, trovano ambientazione in situazioni realistiche ed emblematiche della società del Sud. La sua narrativa, del resto, è facilmente collocabile nel quadro di quella letteratura minore di carattere didascalico-sociale fiorita nella seconda metà del secolo diciannovesimo. Quella letteratura popolare e rusticane, che, accogliendo varie componenti, quali le istanze umanitario-sociali degli illuministi e le prime inquietudini socio-politiche espresse dal socialismo utopistico, ha origine in Italia soprattutto dall’esigenza manzoniana di una maggiore attenzione verso il mondo degli umili, nonché dalla pedagogia del secolo e dai presupposti romantici intorno all’arte, alla letteratura, alla funzione dello scrittore nella società.[3]

I due articoli pubblicati dallo scrittore casentino nel “Corriere del Mattino” e utilizzati in seguito come prefazione a Racconti calabresi possono essere considerati quasi come un “manifesto” della tematica di tutta la sua produzione letteraria. Protagonista delle opere del Misasi è la Calabria, con i suoi costumi, le sue tradizioni e le sue vicende storiche. I suoi scritti sono un documento sugli interni familiari e sull’ambiente calabrese dell’epoca, anche nei minimi usi e nelle consuetudini di famiglia. Ne è conferma, ad esempio, la descrizione minuta e realistica della “torre2 di una massaro:

“la torre era arredata come si addice ad agiato contadino; un letto largo quanto lungo occupava tutto il lato della stanza; vicino al focolare il letticciuolo dell’Anna dalle lenzuola rimboccate su di un copertino di cotone. In un angolo un canterano nero e polverone, sulla cui tavoletta eran disposte in bell’ordine quattro bicchieri e una zuccheriera di porcellana greggia, una caffettiera di rame ed un mulinello pel caffè; e l’un sull’altro due libracci dalla coperta di pergamena rosa dai tarli. Attorno al focolare alcuni sgabelli di legno, sotto il letto due casse di abete, e presso al canterano una cassapanca; nelle pareti del focolare una rastrelliera con due padelle, una casseruola, alcuni piatti e un gran bacile di terra cotta compivano il mobilio e le masserizie della torre”.[4]

Realistiche sono anche le ripetute descrizioni del folklore paesano, dalle quali traspare il senso di nostalgia dell’autore per fatti e persone di altri tempi:

“Un lieto scampanio si spandeva per l’aria calda di una luminosa mattina. Era di domenica e il paesello in festa, chiamato alla messa dallo scampanio, ora affollato dai convenuti delle circostanti campagne. Gli uomini in abito festivo, con la scure infilata alla cinta dei calzoni e il cappello a cono infettucciato, seguivano le mogli e le figliole che facevano sfoggio della gonna rossa e dei corpetti azzurri lucenti di collane e di grosse spille. Passavano le brigatelle salutando gli amici fra gli abitanti del villaggio che aspettando l’ora della messa chiacchieravano in gruppi, innanzi la porta della chiesa”.[5]

Per il continuo accenno a credenze, a usanze,  a riti e a feste, le opere dell’autore calabrese sono, come già detto, un vero e proprio documento etnografico. Il paesaggio della Calabria, con la Sila e le montagne minori, domina incontrastato nelle sue narrazioni, così come il lupo, più volte ricordato quale simbolo di forza e di ferocia, domina sulle montagne silane, temuto e rispettato dagli latri animali e dagli uomini. Il Misasi ambienta i suoi racconti, preferibilmente, sui monti della Sila:

“La Sila è un mondo a parte, inesplorata anche oggi, come una grande prateria d’America. Ha bellezze di paesaggi quali non vanta la Svizzera, ed è rude, selvaggia, aspra, come una giogaia della Scozia”.[6]

Le descrizioni del paesaggio silano rivelano il profondo amore dello scrittore di Cosenza per la sua terra e il fascino di una natura selvaggia, non ancora contaminata dall’uomo:

“Da Acri a Taverna per circa cento chilometri la Sila eleva i suoi monti ove l’inverno cade la neve che imbianca le foreste, seppellisce le case, colma i sentieri e segrega dal resto del mondo i paeselli; e l’estate sfolgora il sole che feconda gli altipiani. Di un tratto, dopo una gola angusta piena di tenebre, si apre una valle verde coperta di erba foltissima, nella quale affonda il bufalo selvaggio, solitario signore di quelle solitudini: dopo una immensa distesa di piani acquitrinosi ove erran le mandre, nereggia la foresta immane coi pini fitti e giganti allacciati da’ pruni e dall’eriche”.[7]

Brani come i precedente hanno tutto il sapore di un moderno depliant turistico con le relative descrizioni di “picchi giganteschi”, di “pianure immense”, di “foreste folte”, di “acque limpide e fresche, di “paeselli bianchi per le chine”, di “casette bianche pei lembi delle foreste” e così via.

Nelle opere dell’autore casentino si trovano, però, anche molti motivi romantici: vicende avventurose, idealizzazioni di fanciulle, riflessioni sull’aldilà e sull’amore più forte della morte”. Abbondano nondimeno conventi e monaci travestiti, storie fatali d’amore e di morte, atteggiamenti eroici, tragedie di onore che si lavano col sangue, rapimenti di donne, giuramenti di sangue e di vendetta. Nel proemio alla novella Il povero Rospo, pubblicata nella “Domenica letteraria” il 26 agosto 1883, inquadrabile nell’ambito di quel romanticismo europeo espresso da Madame de Stäel in Della letteratura considerata nei suoi rapporti con le istituzioni sociali, il Misasi manifesta l’esigenza che l’arte non sia dilettevole, ma utile. Egli vuole, infatti, che

“l’arte riesca utile a qualcuno, col far conoscere la vita, i costumi, l’indole, i bisogni, le miserie di certa gente che vive come dimenticata nei boschi nevosi, nella campagna deserta, nei casolari cadenti, nei tuguri stretti, bui, umidi”.[8]

Ciò è da porsi in relazione agli interessi sociali dell’autore, il quale crede

“utile che il novelliere, povero ed oscuro che sia, incoraggi, sproni l’economia a studiare certi gravi problemi”.[9]

Egli contesta anche la narrativa a lui contemporanea, dove si incontrano

“passioni strane e mostruose, forse non mai provate da cuor di uomo e di donna”.[10]

Egli nega che questo tipo di arte possa essere effettivamente “vera”, in quanto le figure che vi si muovono “non sono studiate dalla vita reale, sono invece fantasticate dal cervello dello scrittore”.[11]

Il risultato è quello di creare “caratteri falsi e convenzionali” e perciò lo scrittore calabrese manifesta l’esigenza che

“l’artista studi nella via i caratteri e le passioni”.[12]

Questa esigenza avvertita dall’autore non sembra, però, molto radicata in quanto non tutti i suoi personaggi sono creature tratte dalla realtà; talvolta, invece, sono figure idealizzate, come alcuni “angelicati” personaggi femminili o alcuni briganti “dal cuore d’oro”. Tuttavia non si può negare che il Misasi abbia attinto dalla realtà per evocare i paesaggi silani, gli interni delle case, il carattere impetuoso del popolo calabrese. Anche nella descrizione degli abiti l’autore si rivela un acuto osservatore dei particolari; ne è un esempio il “ritratto di Giovannuzzo, uno sposo:

“Era vestito di una giacca di velluto nero coi risvolti verdi, i cui bottoni di ferro luccicavano al sole; e di brache di grosso panno nero, che gli scendevano fino al ginocchio. Le gambe eran coperte di grosse calze di filo blu, e grossi scarponi di cuoio greggio ne calzavano i piedi larghi e massicci. Il collare della camicia di tela si riversava fin sugli omeri, ed al corpetto di panno verde-scuro abbottonato fino al mento erano appese alcune medagliette raffiguranti San Francesco di Paola e la Madonna del Carmine”.[13]

I frequenti accenni dell’autore al fatto che gli episodi narrati non sono stati inventati, fa capire come egli abbia sentito il problema dell’arte e la sua aderenza all’ambiente e alla realtà. La tendenza alla concretezza storica è senz’altro un retaggio della scuola romantica, filtrata attraverso il “vero storico” del

 

 e la letteratura risorgimentale in genere. I contenuti della prosa manzoniana sono facilmente riscontrabili negli inizi di molti romanzi di pretesa storica. Eccone un esempio:

“La nebbia grigia, densa, pesava sul bosco che pareva come sommerso. Non stormir di foglie, non garriti di uccelli, non mugghi di buoi, quei mugghi sonori e lieti che rompono di tratto in tratto la tristezza silente del paesaggio silano. La nebbia qua e là si sfioccava diradandosi, ma il cielo attraverso gli strappi di quell’enorme lenzuolo appariva anche esso plumbeo e le cime degli alberi parea che ne toccassero la volta”.

Fra gli alberi serpeggiava la stradicciuola fangosa, rotta da pozzanghere: per quella stradicciuola in una fredda mattina di febbraio del 1866 camminava un drappello di venti bersaglieri, avvolti nelle mantelline, con le piume del cappello floscio e cascanti, inzaccherati fino alla cintola”. [14]

Anche altrove l’autore sente il bisogno di datare le vicende narrate, anche se non si tratta di fatti storici; nelle prime pagine di Frate Angelico, ad esempio, egli scrive:

“Questa storia incomincia quattro anni dopo la morte dell’ultimo barone di Sperlinga, avvenuta nel 1840”.[15]

In Giosafatte Tallarico il Misasi afferma:

“Io conosco il figlio di Filomena e di Giovanni, fu lui che mi narrò quel che io ho narrato”.[16]

L’autore crede ai racconti orali che gli capita di ascoltare in quanto fermamente convinto che

“la tradizione non mente perché essa è l’anima di tutto un popolo che sopravvive e ricorda”.[17]

Nella prefazione a Racconti calabresi il nostro autore dichiara di

“aver ottenuto dalla cortesia del Procuratore del Re presso il Tribunale di Cosenza il permesso di rovistare fra i processi che si conservano negli archivi di quel tribunale”.[18]

e che perciò non farà opera di fantasia: Ne L’assedio di Amantea egli, infatti, cita due storici, l’Ulloa e il Greco, dai quali,

“oltre che dai documenti che si conservano negli archivi”,[19]

egli attinge. Sempre nello stesso romanzo lo scrittore ribadisce che

“nulla la fantasia ha aggiunto”[20]

all’argomento della sua narrazione e acclude a pagina 229 una nota in cui afferma:

“Tutto è scrupolosamente storico in questa narrazione, come nei precedenti e susseguenti capitoli”.

Nel breve racconto intitolato Il dramma di Pizzo nel 1815, in una nota apposta al primo capitolo, il Misasi avverte scrupolosamente il lettore:

“da un manoscritto tuttora inedito di un tal Condoleo, dalle memorie del canonico Mandea, confessore di Murat, e da alcuni più che ottantenni cittadini del Pizzo, testimoni oculari, raccolsi i particolari di questa narrazione ignorati dal Colletta e dagli altri storici”.[21]

A conclusione di molte novelle, l’autore tiene a far notare al lettore da chi e in che modo gli venne narrata la vicenda che ha costituito l’argomento del racconto, come, ad esempio, per Civetta e collegiale:

“Questa storia mi fu narrata, così come l’ho narrata”.[22]

Questo modo di procedere e questo genere di affermazioni sembrano rivelare la componente verista della sua poetica. L’autore esprime il gusto romantico-verista dello stile che nasce dalle cose, della lingua che nasce dall’argomento, così col suo lessico, con le sue immagini, con la sua sintassi. J. Tynjanov, a questo proposito, afferma cle il lessico di una data opera d’arte è in correlazione non solo con il lessico letterario e con quello del linguaggio comune; ma anche con gli altri elementi dell’opera data.[23]

La funzione di termini dialettali, ad esempio, può dipendere dal “sistema” in cui vengono impiegati. Dai temi il Misasi ricava lo stile; in questo senso si spiega la presenza del dialetto, latente o no, nella sua prosa. Egli, a questo proposito, afferma:

“Per maggiore efficacia e verità ho usato molti vocaboli e modi di dire del dialetto calabrese, pur disperando di serbare nello stile e nel dialogo, quella vivezza, quella forza, quella maschia espressione del dialetto, evidentissimo nella sua rozzezza.[24]

Un narratore meridionale è potenzialmente più favorito e nello stesso tempo più svantaggiato rispetto ad uno scrittore del Nord o del Centro Italia; egli è nato e vissuto in paesi nei quali le passioni allignano ad uno stadio ancora primitivo, facili quindi a esplosioni improvvise, paesi fecondi di tradizioni popolari, dove il cristianesimo si è sovrapposto ad elementi pagani senza distruggerli e nei quali la gente crede ancora ai proverbi ed alle superstizioni.[25]

Questo mondo suggestivo, proprio per la sua molteplicità di aspetti, rischia continuamente di essere frantumato; perciò si finisce per cogliere dalla realtà i lati meno essenziali.[26] Il Misasi può essere inserito tra i continuatori di un verismo bozzettistico che indugia nella descrizione di riti e di feste, affiancando un folklorismo convenzionale al macchiettiamo più gratuito. Spesso si nota la compiacenza dello scrittore nel proporre temi folkloristici esaminati solo in superficie oltre a figure standardizzate; un esempio si ha quando descrive la festa che si svolge nel paesello di Monteleone. Egli fa, in un primo momento, la descrizione realistica delle vesti dei contadini e delle contadine, gli uni

“con gli abiti della festa, brache di felpa allacciate al ginocchio, calze di lana azzurro e scarpe grosse di vacchetta, camicia dal largo collare rivolto sugli omeri, berretto frigio pendente sulla spalla destra, e col nocchioruto bastone sotto il braccio”[27]

e le altre

“con le vesti azzurre e le tovagliuole bianche, che è l’abito delle contadine lungo il litorale tirreno”.[28]

Non manca inoltre la coreografia d’obbligo di ogni festa paesana:

“i venditori di sonaglini, di paste, di balocchi, di formaggetti a forma di cavallucci, vociano la loro merce; nelle botteghe si affollano gli avventori , su le balaustrate dei balconi si stendono i tappeti: lunghe file di mortaretti nereggiano in un angolo della piazza”.[29]

E ancora:

“Venditori di santini che vociano a cadenza; mortaretti che scoppiano, squilli incessanti di campane, salmodie di chierici, suoni d’organo gravi e lenti…I pretonzoli coi turiboli fumanti tra le contadine accocciate che gridano il rosario…Venditori di arance e di castagne, di carrube e di frittelle, merciaiuoli e sorbettieri ambulanti gridano la loro merce fra il vocio generale, il rullo dei tamburi e i colpi rimbombanti delle grancasse. In alto, su i balconi coperti di tappeti, la signoria di città”.[30]

Abbiamo infine la descrizione del rito religioso, cioè “l’Affrontata”. Il Misasi, a questo proposito dà

“ad altri la cura di studiarla nei suoi rapporti con le rappresentazioni sacre del Medio Evo”,[31]

egli si limita a descriverla “tal quale la videw”. Egli così spiega il significato del nome che si dà al rito:

“È la Madonna che si “affronta” col figliuolo; ella da prima non vuol credere alla resurrezione di lui, e San Giovanni dovrà durar molta fatica a persuaderla; infine madre e figliuolo s’incontrano nel mezzo della piazza”.[32]

Sulla funzione del dialetto nella prosa dell’autore casentino, non si può certamente ripetere ciò che la critica ha affermato circa la “dialettalità” del Verga, ma si può solo parlare di un certo “impressionismo” dialettale che dà una nota di colore ai suoi romanzi.

Ci sono, nella prosa del nostro autore, molte iterazioni, oltre che di temi, anche di vocaboli. Ne troviamo un esempio ne Il castello di Corigliano:

“Una Madonna che sorride buona e pia, con un bambino che sorride buono e pio, sorride alle dame e ai signori prostrati sugli inginocchiatoi di velluto e sorride ai servi prostrati sul marmo del pavimento”.[33]

Sono frequenti, del resto, anche le ripetizioni di epiteti riferiti agli oggetti

“Gli alberi neri all’ombra pareano fantasmi che lo guardassero taciti…La doppia gigantesca fiamma rischiarò di una luce sanguigna il dorso della montagna, i cui abeti neri ed immobili sembravano spettri neri e taciti”.[34]

Abbondano, anche a breve distanza l’una dall’altra, le metafore e le analogie dello stesso tipo:

“Un bambino che non abbia baci e carezze di madre, parmi debba illanguidire come pianticella cui manchino baci e carezze di sole…Un fanciullo che non abbia madre è come una rosa che non abbia stelo… è lo stelo che dà il succo, i bei colori, e tiene uniti i petali gentili; ed è la madre che coi suoi baci, con le sue carezze mette quel bel rosso sulle guance dei fanciulli e quel lampo di gioia serena e fidente nei loro occhi”.[35]

Tali iterazioni, e soprattutto quelle che riguardano il lessico, sono molte volte indice di povertà linguistica; raramente esse scaturiscono dal bisogno di essere fedele al linguaggio improprio, saturo di ripetizioni e di idiotismi, propri dei suoi personaggi, spesso semplici e rozzi montanari. Sulla presenza del dialetto, si può dare, come già espresso. Un giudizio fondamentalmente negativo. La componente dialettale, talora fuori luogo, può essere giustificabile solo in quanto utile a caratterizzare l’ambiente d i personaggi. Quasi mai il dialetto entra “nudo e crudo” nel racconto,[36]ma viene spesso “filtrato” dal nostro autore, forse per una sorta di rispetto furbesco per il lettore non calabrese. Il dialetto è spesso latente e può essere svelato solo da un orecchio “allenato” alla parlata calabrese. Qua e là si possono trovare, infatti, delle espressioni che sono la traduzione letterale di battute dialettali. Nel seguente brano è facilmente intuibile la presenza del linguaggio calabrese, anche se l’autore si esprime apparentemente in un italiano quasi perfetto:

“Il silenzio profondo del bosco le rassicurava, impietosita dallo stato in cui era ridotta la giovinetta, che ansava non ne potendo più dal cammino e dall’angoscia”.[37]

Sono tipiche della lingua parlata alcune espressioni, quali: essere “col morto davanti” o “un morto che cammina” (entrambi stanno ad indicare una persona sempre triste e taciturna. Sono frequenti i vocaboli dialettali veri e propri, come tamarre, tata, torre[38], moglieta, grasta. Talvolta alcuni vocaboli qui sopra riportatti sono trascritti in corsivo, proprio perché l’autore, pur non volendo abbandonarli in quanto evocatori dell’ambiente che li ha prodotti, li avverte in tutto il loro idiotismo. Molto spesso, dai discorsi dei personaggi che si incontrano nelle opere del Misasi sono facilmente intuibili, come già espresso, modi di dire ed espressioni del dialetto, sotto forma di proverbi e di allocuzioni. Ne è un esempio quel “fatto vecchio” per indicare il termine “invecchiato” e così pure: “un vero chiappo di ‘mpiso”, cioè:”una faccia da impiccato”; nonché l’espressione adoperata da Jacopo Rinaldi sul punto di escogitare nuovi tranelli e angherie nei confronti di Don Ruggero: “ora acqua in bocca, e : dove vai, porta cipolle”. Caratteristico del dialetto è anche l’uso della preposizione semplice a in luogo della più appropriata di: “figlia a tuo padre; ora sarei moglie a voi”. Per indicare un avvenimento del tutto non usuale e sorprendente (cioè una gita della marchesa di Monserrato) viene detto da un guardiano: “Vorrà nevicare di luglio”.[39]così pure di impronta dialettale sono le analogie, tipo:

“ci vuole dello stomaco”; l’amico ha del cuore”; in cui entrambe le parole sottolineate hanno il significato di “coraggio; oppure espressioni come queste:

“Qui si muore ammazzato per queste cose. Quella lì ha il marito che non la porta per mostra l’accetta alla cintura”;[40] “vi farà accogliere dai suoi guardiani a schioppettate”; [41]

“gli ho detto che per agosto si fosse trovato un altro padrone”,[42] ecc.

Anche i proverbi che ricorrono sulla bocca dei personaggi misasiani sono molto spesso la traduzione di proverbi indigeni, quale quello che afferma:”i veri parenti sono i denti”,[43]  per indicare che i parenti sono le persone che possono far più male di chiunque altro; oppure: “le parole le porta il vento”,[44] il quale invita all prudenza nel parlare e sparlare degli altri.

“Ricorreva la festa della Madonna di mezzo agosto”,[45] scrive il Misasi a proposito del Ferragosto, che in provincia di Cosenza viene chiamato “Menzagustu”. Senza una precisa conoscenza della parlata calabrese, molti vocaboli potrebbero sembrare del tutto immuni da ricordi dialettali; quel “bambinella”, ad esempio, ad un calabrese fa subito venire in mente il “guagnunedda”, di cui bambinella è l’esatta traduzione italiana; così pure “poverella” che è l’esatta traduzione di “poveredda”.

 Di estrazione letteraria potrebbe sembrare il verbo adoperato da un contadino nel comunicare a una donna l’arrivo del proprio marito: “Mariuzza, Mariuzza, è giunto Michele”.[46] La forma è giunto, certamente più letterario di è arrivato. È adoperata unicamente perché è la più diretta trascrizione di è jiuntu.

Il dialetto è riportato in tutta la sua “genuinità” in canzoni di contenuto amoroso, che incontriamo più di frequente nei momenti precedenti una situazione drammatica. Si tratta spesso di bellissime e suggestive nenie di orgine popolare, di carattere madrigalesco:

“Brunetta virgantina, fuoco ardente,

Spina dell’alma mia, stella bruciante,

Chi te li ha fatti st’uocchi risplendenti?

Ti l’ha fatti nu Dio che ni fa tanti.

Mammata ti li ha fatti ppi la gente”.[47]

Oppure:

“Aquila, chi ssi nata intra lu granu

Sei nata bella ppe mi dare pena;

Miensu a stu piettu tuo ssu due funtane

Cchi viernu e stata l’acqua frisca vene.

Aquila chi ssi nata intra lu granu,

ssi nata bella ppe si dare pena.”[48]

Più breve è invece:

“O brunnettella, ccu ssi ricci attuornu,

Chiudili sti uocchi ca mi fai muriri,

La notte mi fai perdere lu suonnu,

Lu jiurnu senza core mi fai jiri”.[49]

Di carattere prettamente locale sono i soprannomi di alcuni personaggi, fantasiosi e densi di significato: Scuoia-cristiani, Orecchiemozze, Sciancato, Mezzaorecchia, Sparviero, Lupacchiotto, Diavolone, il manzoniano Nibbio.

Nella Calabria settentrionale e centrale il carattere morfologico più importante è l’assenza del futuro, la rarità del congiuntivo e la limitazione dell’infinito.[50]

Nella lingua del Misasi o, per meglio dire, in quella dei suoi personaggi, possiamo cogliere talvolta tale caratteristica. Nella costruzione del periodo e nella sintassi della frase il dialetto è spesso latente, come nell’uso del passato remoto al posto del passato prossimo; ecco come Cola si rivolge ad a

Anna:

“È una bella accoglienza che mi fai! Disse dopo un istante di silenzio. Sono stato tutt’oggi con le pecore sulla montagna, tornai alla torre all’avemaria, chiusi le pecore nell’ovile, e per andar presto a letto non volli il mio piatto di minestra”.[51]

Accanto a termini dialettali o per lo meno d’impronta dialettale, si trovano, per contrasto, vocaboli di origine dotta. Senz’altro l’autore, accusato dai contemporanei di essere scrittore esclusivamente provinciale, sia nei contenuti che nella forma, avverte in determinati momenti il bisogno di elevare il tono della sua narrativa. Ecco che allora adopera termini “colti” e assolutamente estranei al periodare dei suoi personaggi. Talora può accadere un fatto abbastanza curioso e cioè che dei popolani privi di cultura usino un linguaggio aulico, assolutamente inadatto e del tutto estraneo alla loro parlata corrente. Una costruzione sintattica come quella sotto riportata, ad esempio, è una vera e propria stonatura nella bocca di un contadino:

Credo si tratti di una gita per far divertire la baronessa.”[52]certamente “dotto” è il linguaggio del brigante Marco, almeno insospettabile in un individuo della sua risma. In tutta la novella che lo ha per protagonista, anzi, sono frequenti vocaboli latineggianti, appartenenti semmai a u lessico trecentesco; eccone un esempio:

Pria che tu risponda, fa d’uopo che tu conosca chi fui”[53]

oppure”esponghiamo il petto” e “noi erriamo”.

Accade anche che vengano adoperati vocaboli tipici del linguaggio fiorentino, come ad esempio, nell’interrogativo che Cola pone a se stesso:

“E perché il padrone, che non fa nulla, mi piglia a calci se non l’ubbidisco a puntino?”.[54]

Sempre lo stesso personaggio usa la forma, più frequente in Toscana, di vo invece di vado, ma subito dopo egli si “riscatta” con una immagine che poteva nascere solo in una mente meridionale:

“Quando vo a portare la ricotta al padrone… lo trovo… in una stanza parata come la chiesa quando è la festa di San Francesco.[55]

Toscaneggiante è pure quel “è bellina” detto da Caterina, una giovane contadina, oppure quel “l’ho fatta tardi forse?”, oppure la domanda che il farmacista rivolge a Angiol Antonio: “Cosa avete a desinare stamane?”[56], nonché l’appellativo di esoso riferito a don Jacopo.

A proposito dell’uso di un lessico a volte di origine letteraria e classicheggiante, c’è da chiarire che è difficile per uno scrittore meridionale, in genere, affrontare la realtà senza richiami letterari. Nel Misasi, oltre a percepire qua e là la presenza di un Verga[57]o di un Manzoni,[58]si può addirittura notare qualche reminescenza dantesca: riferendosi alla protagonista femminile de La badia di Montenero, egli scrive che

“ella è tale che la umana miseria non la tange”,[59]oppure quando definisce il povero come colui che “va mendicando la vita frusto a frusto”.[60]

Da collegare all’Alighieri è anche il motivo della veglia solitaria di un personaggio:

“E mentre nella casa tutto era silenzio, e i servi dormivano placidamente, ed ella forse placidamente dormiva; mentre di fuori tutto era silenzio, il silenzio dolce di una notte di una notte d’estate rotto di tanto in tanto da un latrato lontano, dal grido di un uccello notturno, dalle note di un usignolo innamorato, dal roco gracidar delle rane, egli col cervello in tumulto si aggirava per la stanza”. [61]

Sia in Dante che in altri autori classici questa veglia solitaria acquista maggiore forza evocativa poiché intorno al personaggio regna la pace più assoluta, compresa quella di tutti gli altri esseri viventi, nell’autore casentino la pace non è mai totale e il silenzio della notte è sempre interrotto dal grido lugubre di un uccello notturno, oppure dal canto melodioso di un usignolo in amore. Ai ricordi letterari scolastici, oltre ai motivi espressi nelle pagine precedenti, si possono collegare i frequenti vocaboli di origine illustre ed aulica e particolari latinismi: “sei usata a non avere rivali”; “un nome che i suoi maggiori avevano onorato”; “aveva cercato di sottrarsi a suo padre temendo non le leggesse in viso l’irrequietezza”;[62] “la bella villana”. Identica matrice ha quello stile melodrammatico caro agli ultimi romantici, zeppo di esclamative ed interrogative retoriche. Ne può essere prova questo brano de La badia di Montenero, in cui la presenza iperbolica di esclamative ed interrogative retoriche, vorrebbe riprodurre il dramma che si svolge nell’animo di Giacomo:

“Ma perché, ma perché il destino gli aveva fatto balenare innanzi agli occhi quella luce dopo averlo per tanti anni spinto innanzi fra le tenebre in cui aveva incontrato la colpa o il destino? Perché proprio quando egli per l’orrendo impulso che lo aveva sospinto verso l’abisso era per precipitarvi finendo una vita di violenza con la violenza, di sangue nel sangue, di tragiche scene con una tragica catastrofe, perché lo aveva soffermato proprio sull’orlo dell’abisso e aveva fatto apparire quella visione di altri tempi, degli anni suoi giovanili, che era dileguata allorché si era lasciato prendere all’ingranaggio della colpa? Non era quella la ironia atroce, la più orrenda perfidia del suo destino che aveva chiuso una vita di brutture fra due purissimi sogni? Era risorta più bella, più radiosa, più celestiale quella visione divenuta una realtà, una realtà fatta di quanto la femminilità ha di soave, il sentimento di più puro, la bontà di più pio, la bellezza di più luminoso? Perché a lui che si avviava verso la morte con un profondo disdegno della vita, di cui non aveva conosciuto che il male, era apparsa quella impromessa di ogni felicità, quel raggio di luce? Non era un fargli più orrenda la morte, più acuti i rimorsi? Non era un fargli rimpiangere la vita or che ne aveva visto nella realtà il bene? Ed era degno il cuor suo di custodire per poco quello amore, di accogliere anche per poco quell’immagine? Non era il cuor suo una busta ben lurida per quella gemma sì preziosa? Ah, no, no, chè egli si era inteso assolto delle sue colpe da quell’amore che aveva fatto rigermogliare in lui tutti i più puri sentimenti giovanili, che gli aveva rifatto una giovinezza”.[63]

D’altronde la ridondanza nello stile dell’autore di Cosenza è da ascrivere a gran parte degli autori del Sud.

“I meridionali – afferma Francesco Bruno – in genere, sono indotti a esagerare e a ingrandire anche le inezie, e dilatare e abbellire le immagini, le metafore, le perifrasi, le similitudini; La loro opera in versi e in prosa si determina come esigenza morale tendente al solenne e al grandioso”.[64]

Molti episodi sono ricchi di “pathos”, ma la drammaticità, in essi, sfiora talvolta il ridicolo; i gesti dei personaggi sono, in effetti, teatrali e degni di un dramma greco. Eccone un esempio:

“La marchesa ebbe un grido di suprema angoscia, di spavento supremo: con gli occhi sbarrati come da un folle pensiero guardò il giovane che aveva incrociate le braccia sul petto e la fissava pensoso; poi avventandosi quasi alla bambina, le strappò una medaglia, la girò e rigirò fra le mani, parve riconoscerla, e mentre la bambina scoppiava in pianto, volse di nuovo gli occhi al giovane e cadde riversa con un grido”.[65]

Le descrizioni della natura nella narrativa misasiana hanno spesso la funzione di collegare i periodi tra di loro e di dar respiro a tutto il racconto; in tali casi, però, si avverte tutta la prolissità e la ridondanza tipica dell’autore. In certi altri tuttavia queste descrizioni costituiscono dei veri e propri momenti lirici di abbandono a reminescenze bucoliche:

“Era un mattino splendidissimo d’agosto, il cielo di un azzurro cupo, era macchiato qua e là di bianco: il sole copriva della sua luce immobile le campagne che si stendeano come stanche e sonnacchiose sotto quelle carezze di fuoco. Le acque del fiumicello scorrevano lampeggiando giù per la valle; e da lungi le colline, i monti, i burroni rivestiti di boschi erano come avvolti in una nuvola azzurrina, fra le quali spiccavano i bianchi paeselli. Quel silenzio veniva rotto di tanto in tanto dal grido di un uccello che fendeva l’aria e da una sorda schioppettata, cui tenevano dietro lontani latrati. Nei campi mietuti pascolava zoppicando qualche giumenta impastoiata; e presso i salici del fiume grufolavano alcuni maiali guardati da un contadinello, che di tratto in tratto da un fischietto traeva certi suoni monotoni e pur dolci, discordi e pur piacevoli”.[66]

Ma tale calma del paesaggio è spesso solo apparente e preannunzia sovente drammatici avvenimenti. Nessun elemento fa supporre l’addensarsi di un dramma violento, di vendetta e gelosia, per il quale ben due persone verranno uccise:

“Di tanto in tanto a lui < l’uccisore> d’intorno guizzavano le lucciole, saltavano zirlando i grilli, e qualche uccelletto, incerto ancora del ricovero, volava di cespuglio in cespuglio. Però nulla turbava il silenzio solenne e malinconico di quel luogo: solo ad un trar di fucili uditasi il mormorio del Jassi, e qualche canto lontano di contadino, fioco come un sospiro, triste come un gemito”.[67]

È frequente l’abbrivo esclamativo di tipo foscoliano; spesso la descrizione della natura dà inizio al racconto. Contrariamente a ciò che avviene nei racconti di scuola romantica, nei racconti  misasiani può accadere a volte che la natura sia in contrasto con l’animo dei personaggi. Il romanzo Sacrifizio d’amore inizia, infatti, con una lenta e pacata descrizione della sera in una capanna, nella quale si assiste a tutto un tripudiare di animali e di cose; questa serenità del paesaggio è contrapposta, quasi con violenza, al dramma di Luciano Certaldo, protagonista del suddetto romanzo:

“Nell’ombra che già era scesa nella campagna, il silenzio profondo era rotto dal fiume che scrosciava in fondo alla collina. In cielo si accendeva qualche stella  e su i monti lontani qualche fuoco di pastore. Il lamentoso gracidio delle rane era rotto dal grido d’un uccello tornato al nido, poi silenzio di nuovo nello scroscio lungo e sordo del fiume”.[68]

Visioni idilliche di tipo leopardiano fanno da sfondo a un tentativo di suicidio. Gli esseri animati di specie inferiore vivono tutti in serena tranquillità; la vita del paesello si svolge secondo il modo consueto: solitario è perciò il dramma di Luciano Certaldo. Egli

“alzò il capo e volse gli occhi alla finestra aperta donde in quella sera dolce e malinconica di maggio entrava col lieve venticello il sottile profumo dell’erba fresca e degli alberi in fiore. Le casette coloniche che biancheggiavano qua e là fra gli oliveti e i gelseti intorno la sua casa, tacevano in quell’ora della sera, ed egli sapeva che le famigliuole dei terrieri ivi raccolte erano tutte intorno al focolare, ove ardeva malgrado il tepore primaverile una gran fiammata sulla quale cuoceva la magra cena. Dalla finestra aveva visto tornar con la zappa o con la vanga in ispalla gli in numeri contadini che coltivavano la sua vasta tenuta, e nel passar sotto alla sua finestra, si eran tolto il berretto salutandolo con un “santa notte” cui egli aveva risposto con un lieve chinar del capo. E poi li aveva visti entrar nelle casette, dai comignoli delle quali già si elevava un sottil fil di fumo. Aveva visto tornar le greggie belanti e i buoi lenti che mugghiavano a sentir la stalla; aveva visto uscir dai tuguri le contadine per ricondurre all’appollatoio il pollame razzolante per l’aia e per i senteriuoli che fra le due siepi di more selvatiche menavano ai campi; aveva inteso grugnire i maiali che tornavano dal pascolo, e il dialogar breve dei lavoratori innanzi agli usci con le vanghe e le zappe tuttora in ispalla; poi la quiete si era stabilita, e con la quiete il silenzio, ed egli era rientrato e si era seduto innanzi allo scrittoio”.[69]

Sempre nello stesso romanzo troviamo un vero e proprio inno a una natura in cui tutti gli esseri viventi sono in amore, il che fa sentire ancora più angoscioso il dramma del protagonista, colpito da una grave deficienza fisica, l’impotenza. Questo è lo scenario che si presenta agli occhi di Luciano:

“Ovunque, su gli alberi, sui tetti, fra le zolle erano i nidi, e per l’aria eran farfalle che si inseguivano, ed ogni calice di fiore era un talamo, e tra i cespugli in fiore, nelle folti vegetazioni dei sambuchi e negli spineti, e nelle edere e nelle orticarie delle ampie siepi, sentiva fremere la vita e quindi l’amore in tutte le sue manifestazioni potenti”.[70]

L’abbondanza delle congiunzioni, in questo caso, non è un difetto, ma acquista un particolare valore semantico; infatti le congiunzioni servono per rafforzare e mettere in maggior contrasto la vita degli insetti, cui è permesso di godere, con quella di Luciano, a cui questo piacere è negato. Sempre nella stesa opera incontriamo immagini dannunziane che fanno ricordare quel modo di sentire la natura che si può riscontrare ne La pioggia nel pineto. L’uomo s’immerge in essa identificandosi quasi con essa:

“Stando così assorta alla finestra, vide passar le greggi belanti che ivano alla pastura, i buoi lenti e gravi, e uscir dal pollaio le oche e i tacchini che una fanciulla si menava innanzi, ed ella rispondea con un lieve chinar del capo al saluto dei mandriani, dei bovari, delle contadine e dei terrieri che partivano per i campi. Poi si sentì attratta da quel delizioso paesaggio, dalla luce deliziosa, e intese un bisogno acuto di uscir fuori all’aperto per immergersi in quel nembo di rose che pioveva dall’alto, in quella nuvola di profumi che saliva dal basso, e di vagar per quei campi che destati al sole, fremevano di sussurri di aliti, di trilli, di voci, di gorgheggi, col fiume in fondo che scrosciava fra le elci ed i canneti”.[71]

Francesco Bruno, nella già citata opera sulla narrativa meridionale, a proposito di questo modo di sentire la natura, osserva che

“nella coscienza degli scrittori meridionali, da Telesio a Campanella in poi, è presente il fervido attaccamento alla natura, che si confonde con l’universo e si identifica con l’essere umano”.[72]

Nicola Misasi è scrittore popolare non solo per quanto riguarda il contenuto, ma anche per quanto concerne la forma, pur restando fermo il concetto che forma e contenuto, in qualsiasi opera d’arte sono in stretta correlazione. Nella prosa dell’autore calabrese ci sono elementi discordanti che possono ricondurre la lingua dei personaggi a quella tipica della letteratura avulsa dalla realtà; tuttavia una tale prosa è nel complesso popolare, cioè alla portata delle menti di tutti i lettori, anche di coloro che non hanno grande cultura. Una caratteristica sintattica dell’autore cosentino è quella di iniziare il periodo con delle congiunzioni (molto spesso ma ed e), riproducendo in tal modo il dialogare aconnesso e asintattico del dialetto:

Ma si sentiva una voglia matta di chiacchierare e volgeva gli occhi alla padrona per cogliere l’istante favorevole in cui l’avesse vista disposta ad ascoltarla. E poiché la signora non gliene dava l’occasione non sapendo più trattenersi, disse…”[73]

frequentemente la congiunzione e si incontra subito dopo la virgola e tale particolarissimo uso è giustificato dal fatto che l’autore vuole in questi casi mettere in evidenza lo stato d’animo del personaggio. Nel brano seguente la ripetizione della congiunzione suddetta riproduce l’interno orgasmo di Maria costretta, contro sua voglia, ad agghindarsi per la cerimonia nuziale:

“Ella sedette innanzi allo specchio, lasciò che il parrucchiere le sciogliesse la folta chioma, e la pettinasse, e l’intrecciasse, e l’annodasse, e gliele raccogliesse intorno al capo”.[74]

Elemento caratterizzante di una prosa popolare, oltre al legame sintattico suddetto, mediante le congiunzioni, è la frequente presenza di immagini prese dal vivere quotidiano. Massaro Tonno, rivolgendosi a un giovane per fargli comprendere quale rovina abbia colpito la famiglia dei marchesi di Monserrato, si esprime con queste parole:

“Sappi, per tua norma, che ricchezza senza padrone è povertà, che l’occhio del padrone ingrassa il cavallo, che quando il gatto ha le unghie rotte i topi ballano. Famiglia rovinata, sissignore, come è rovinata la mandra quando i cani non sono più buoni a lottare coi topi”.[75]

Anche i modi di dire seguenti richiamano la vita contadina:

“Le parole non danno farina”;[76] “che bella cosa la confessione! Si può avere l’anime nera come la bocca di un forno… e in men di un quarto d’ora diventare candido come una ricotta vergine”.[77]

Altro elemento tipico di una prosa popolare è la frequenza del dialogo. Ludwig distingueva due tipi di tecniche narrative: il “racconto in quanto tale” e il “racconto scenico”. Nel primo tipo il raccontare si trova in primo piano, in quanto l’autore stesso narra, rivolgendo il proprio discorso agli ascoltatori; nel secondo tipo, invece, è il dialogo la componente essenziale e la parte “narrata” ha la funzione di commento e di didascalia. In quest’ultimo caso, in cui appunto il dialogo è alla base del racconto, il lettore diventa anche spettatore, giacché percepisce il tutto non in quanto raccontato, ma in quanto si verifica davanti agli occhi, sulla scena. I dialoghi dei personaggi misasiani sono quasi esclusivamente articolati secondo il principio della conversazione e hanno il colorito sintattico e lessicale del linguaggio dialettale. Accade, infatti, che l’autore adoperi molto spesso le parole stesse dei personaggi, come in un copione teatrale. Eccone una breve sequenza:

“-Hai inteso, brutta bestia?”[78]

“-Chi? Quel figlio di malafemmina? Sì, me ne ero accorto, ma lo mandai via con due buoni calci. Se l’avea fatti bene i conti quella faccia d’impiccato! Ma la mia figliuola non era pecorella per le zanne di quel lupo”.[79]

Mogliema è mogliema, e a te do da mangiare per fare il Michelaccio, forse?”.[80]

“ –Ah, mulo! Ah, figlio di una malafemmina! Ah, carogna!”.[81]

“-Va bene, va bene, qua sotto non piove”[82]

“-Me l’avevano detto in Sicilia, me l’avevano scritto anche:…Venni qui e mi nascosi sulla montagna. Quando fui sicuro della tresca, quando ieri vi sorpresi, l’ora non era propizia…Aspettai…Massaro Mico non me la farà più…me lo ho visto cadere dinanzi come una pera fradicia”.[83]

Nei racconti e nei romanzi del Misasi si incontrano pagine intere contenenti il discorso diretto, che ha la funzione di rendere più immediato e più vivo il racconto, molto di più che se il racconto fosse fatto dalla voce esterna di un narratore; l’autore si limita, cioè a fare da espositore di ampie didascalie. Vediamone un esempio:

      “-Perdio- diceva un vecchio, ma ancora vigoroso squadrigliere- perdio, ha tenuto testa      a dieci di noi, e se non l’avessi ferito al fianco se la sarebbe svignata. Pure ha lasciato qualche ricordo: Giovanni e Tonno sono feriti e Beppe ha una costola rotta.

        - E il capitano intanto è furioso perché abbiamo fatto scappare gli altri.

        - Vorrei vedere un po’…rispose il vecchio montanaro: e finì la frase borbottando non so che parole.

-         Non son mai contenti costoro, esclamò un altro: Marco solo valeva tutta la banda.

-         Lo fucileranno, non è vero?

-         E che vuoi ne facciano?

-         Povero Marco: via bisogna convenire che ne ha cuore in petto, e che oramai non ce ne è, né ce ne saranno più di quello stampo lì.

-         No, non ce ne saranno più, disse un altro con un tal qual rammarico. Dove sono ora i Tallarico, i Mazza, i Pezzafanti, i Benincasa, i Palma? Quelli sì che eran lupi, gli altri son pecore. Marco era degno di nascere in altri tempi.

-         Sì, ma non so perdonargli l’assassinio di quella poveretta. Pugnalare una femmina! Un uomo passi, si sa… chi di noi non ha dato un colpo di coltello in vita sua? L’avete vista, compagni? Ha un viso di Madonna addolorata.

-         Io non credo che sia stato Marco a pugnalarla. Del resto, quando il sangue è montato in testa… sapete il proverbio. Intanto la morte di quella povera ragazza ha salvato massaro Giuseppe. Bisogna davvero crede che i briganti l’obbligarono col coltello alla gola a ricoverarli, altrimenti, che diavolo! Avrebbero ucciso la nipote? Ti pare?

-         Io però non gliela sapeva questa nipote. Volete che parli schietto? Non la veggo liscia come vogliono dirla: Basta, se la vedrà con il giudice.

-         Il giudice, interloquì un altro sopraggiunto, il giudice ha fatto arrestare i due massari ed a mio parere ha fatto bene. stasera il cadavere della giovinetta sarà portato qui.

-         Qui?

-         Sicuro! Lo metteranno nella prigione di Marco.

-         Oh, oh! Fecero gli squadriglieri, è ben crudele il giudice!

-         No, il giudice fa bene: sapete che penso? E abbassò la voce: gli latri si fecero intorno premurosi ed attenti.

-         Penso, continuò lo squadrigliere, che il giudice voglia fare una prova.

-         Una prova?

-         Già. Egli non crede a quel che narrano i massari. Quella nipote scesa giù dal cielo proprio ieri notte… capite che è starno. Eppoi si sono raccolti altri indizi. È un gran volpone, il giudice! Egli starà in ascolto e di sicuro Marco in presenza di quel cadavere dovrà dir qualcosa.

-         Ben pensato, ma crudele. Io affronterei venti briganti, ma non starei un istante solo con un cadavere. Morirei dallo spavento”.[84]

Nell’esempio del dialogo qui sotto riportato manca addirittura l’intercalare dell’autore:_

-         “Ci è dunque un uomo che vi ama?

-         Sì, di una amore assai basso.

-         E che voi non amate?

-         No, padre mio, no.

-         Perché ne amate in altro?”.[85]

Molto spesso il dialogo è, come precedentemente espresso, alla base del racconto, con l’intervento o senza dell’autore. Ecco un esempio del periodare secco a botta e risposta:

      “-    Già. Ma parlasi d’altro. Dite, che novità abbiamo?

-         Le solite. Le castagne e il grano sono andati a male, non abbiamo speranza che nel granturco.

-         E del resto, null’altro?

-         Ah, sì; stanotte fu trovato ucciso massaro Mico.

-         Massaro Mico? Quello che ha la vigna presso il vallone?

-         Per l’appunto!

-         O poveretto! E chi l’ha ucciso?

-         Non ne so nulla ancora.

-         Oh, che mi dite. Era tanto un brav’uomo.

-         Sì, ma un po’ donnaiuolo.

-         Infine non faceva male a nessuno: andava appresso alle femmine di male affare, ma rispettava le oneste. Non credo avesse nemici.”[86]

I dialoghi senza intromissione dell’autore sono molto frequenti. Eccone un ulteriore esempio:

-   Tu dici che Peppe Carbonelli si terrà l’offesa?

-   Se non lo conoscessi! Ma non ci è che dire: il giovanotto è bene ardito.

-   Vedrai che coglierà questa occasione per raggiungere lo Sciancato sulle montagne.

-   Lo Sciancato non lo vuole, non se ne fida.

-   E dimmi: come ti regolerai tu, se Peppe Carbonelli l’affronterà in mezzo a noi?

-   Farò il mio dovere: son pagato per questo, e quando son pagato…

-   Hai ragione.

-   Ma non vi è pericolo: Peppe Carbonelli è uccello di notte; le sue cose se le sbriga al buio.

-   Peccato, il giovanotto mi piace. Ha un certo sguardo…Ma sai che quello sguardo non mi è nuovo? Quattro anni or sono conobbi un tenente dei bersaglieri che comandò per due giorni la squadriglia della quale io faceva parte. Sono passati quattro anni ormai, eppure a me pare che quel giovane lì gli somigli molto”.[87]

Il dialogo è spesso interrotto da lunghe riflessioni di questo o quel personaggio, il più delle volte ripetizioni inutili che appesantiscono il racconto, il quale in questo modo perde la sua caratteristica di racconto “scenico” in tali occasioni soprattutto la prosa dell’autore si carica di quella prolissità e di quella retorica tipica dei meridionali. Per evidenziare la catena di dubbi e di pensieri molteplici che turbinano, ad esempio, nella mente di Giorgio, il Misasi scrive ben tre pagine intere di esclamative ed interrogative. A chiusura di queste lunghe serie di interrogativi angosciosi, sono poste osservazioni di questo tipo:

“Così stette lungamente tutta data a tali pensieri, lei sola vegliante nel sonno profondo della casa”;[88]

oppure:

“Quanto stette così immersa nei suoi torbidi pensieri non avrebbe saputo dire”.[89]

Parallelamente all’analisi della forma narrativa adottata dall’autore casentino, è interessante esaminare anche il rapporto narratore-opera. Il Tomaševskij, uno dei formalisti russi, afferma in tale proposito:

“vi sono vari tipi di narratore: il racconto può essere condotto come una semplice comunicazione di fatti oggettivi da parte dell’autore, senza che si spieghi in che modo si è venuti a conoscenza degli avvenimenti (racconto astratto), può essere attribuito al narratore come a una qualche persona concreta. Questi è talora presentato come la persona che ha udito i fatti da altri o come un testimone, o infine come uno dei partecipanti alla vicenda. In tal modo vi sono due tipi fondamentali di narrazione, il racconto astratto e quello concreto. Nel primo caso l’autore è al corrente di tutto, anche dei pensieri più reconditi degli eroi. Nel secondo caso (il racconto è fatto in prima persona) tutta la narrazione è filtrata attraverso la psicologia del narratore. Sono possibili anche dei sistemi misti.”[90]

Il Misasi può essere collocato in quest’ultima categoria contenuta nella citazione. Egli, anche se sovente assume il ruolo di colui che narra, più spesso si limita, come già è stato detto, a brevi commenti e didascalie; sono i personaggi stessi che parlano, come se lo scrittore fosse testimone di quello che accade. Il nostro autore preferisce scrivere in prima persona, come colui che racconta episodi, cui se non ha partecipato, ha almeno assistito. Non di rado accade che sia lo stesso personaggio protagonista a “narrare” i fatti: ne è un esempio la novella di Francesco il mendico. L’autore si rivela appieno nella prefazione oppure nelle lunghe digressioni di carattere morale che si possono incontrare, inserite nel contesto di un racconto. In tali casi, anzi, l’autore, abbandonando i canoni veristi della imparzialità e dell’indifferenza verso gli argomenti trattati, ribadisce i suoi principi riguardo alla morale. Esemplare a tale proposito è il racconto Il povero Rospo, nel quale l’autore praticamente non narra niente, ma espone le sue osservazioni sul problema dei figli illegittimi prendendo spunto proprio dal povero ragazzo abbandonato, che tutti chiamano Rospo. Comunque, anche nel caso in cui il Misasi narra i fatti dall’esterno, si avverte la sua presenza, a dispetto della impersonalità proclamata dal verismo. A pagina 194 di Frate Angelico, dopo una riflessione sul comportamento dei personaggi trattati, c’è, ad esempio, il sintomatico: “Torniamo al racconto”.

La prosa dell’autore calabrese, in ultima analisi, talora attraente per la sua vivacità, tal’altra satura, al contrario, di prolissità, manca di un’adeguata maturazione. Solo raramente egli riesce ad ottenere un discorso lineare, rapido, scorrevole. Il brano qui sotto riportato, in cui lo stile è talmente asciutto e scarno da far comprendere l’allegra confusione di una festa paesana, è quindi una delle poche eccezioni:

“Poi, ad un tratto, echeggiano le musiche, rullano i tamburi, rimbombano le gran casse, salmodiano i preti, cantano le contadine, squillano i campanelli. La folla si agita, ondeggia, sussurra; le donne salgono su le seggiole, le contadine accosciate s’ergono, gli uomini s’appuntellano ai bastoni per non cadere all’urto dei dietrostanti; i venditori fan riparo del corpo alle merci”.[91]

Gli elementi rinvenuti nella prosa dell’autore casentino –arcaismi, parole dialettali, francesismi, toscanismi,ecc.- sono troppo slegati fra loro e non intimamente rivissuti dallo scrittore per poter dar vita a una lingua originale e nuova come è stata quella di Giovanni Verga delle grandi opere. Sulla lingua senza stile e coordinazione dello scrittore di Cosenza, può essere valida l’osservazione del Russo sulla lingua del Verga giovane:

“la <lingua fatta> di Verga… è per una parte il dialetto siciliano tradotto approssimativamente in un italiano illustre (o, se piace meglio, in un siciliano illustre), e dall’altra è la lingua dei romanzi francesi anch’essa tradotta e ricondotta a un astratto e immaginario modello di una lingua nazionale.”[92]

Luigi Capuana, teorico del verismo italiano, in questo modo sintetizza le sue idee circa la lingua dei nuovi scrittori:

“Dovevam o rimanere con le mani in mano, aspettando la prosa nuova di là da venire? E ne abbiamo imbastita una purché sia , mezza francese, mezza regionale, mezza confusionale, come tutte le cose messe in fretta.”[93]

Sono molti i francesismi adoperati dal Misasi; tale componente del suo linguaggio è dovuta a quel “francese bastardo”[94], imparato sul testo di scrittori francesi d’appendice, come scrive il Russo nel già citato studio sul Verga. Sono frequenti, infatti, i participi presenti alla francese e la costruzione del di partitivo (es. molti di danari). Sono presenti anche vocaboli di tipica impronta francese (es.: avea deciso di rendersi all’invito) oppure termini della lingua francese, come “dormeuse”, più volte rammentata in Devastatrice. In una lingua così ibrida, non potevano certamente mancare i toscanismi, (io mi fo gli affari miei; di molti; anella; l’Anna; l’è un uomo come ogni altro) e nel fare ciò, l’autore di Cosenza, oltre a seguire i canoni espressi dal Capuana, segue le orme del Manzoni e, in minor misura, del Verga delle opere giovanili. Sono frequenti i diminutivi di stampo toscano ed anche quelli coniati dall’autore sul modello di quelli toscani.

Non mancano, nella prosa del nostro autore, errori di grammatica e di sintassi, errori che gli hanno procurato notevoli critiche. Qua e là, si possono addirittura incontrare delle incongruenze, come di chiamare Rosa , personaggio de Il tenente Giorgio, “la bella vedova”, mentre invece ella ha il marito in America. Come riferisce la Jannuzzi nella biografia contenuta in Pagine calabresi, il Misasi stesso confessava spesso:

“Io sono operaio della penna e lavoro a giornate”.[95]

Con l’avallo di un tal genere di affermazioni proprio da parte dello stesso autore, si è venuta maturando nei critici l’idea di un Misasi produttore a “getto continuo”. Egli, stimolato dagli amici e dagli editori, che lo incalzano con richieste sempre più pressanti di racconti e di romanzi, scrive trascurando molto spesso, non solo lo stile, ma addirittura la revisione definitiva dei suoi scritti, che contengono perciò frequenti errori di ortografia. La negligenza stilistica, perciò, giustifica il severo giudizio di alcuni critici, quali il Sapegno e il Cattaneo ( quest’ultimo lo definisce “uno sgrammaticato romanziere d’appendice”.[96]).

Nell’ ottavo volume di Storia della Letteratura italiana, sempre il Cattaneo si esprime in questi termini:

“Nicola Misasi è considerato il rappresentante verista della Calabria. Si tratta di un romanziere d’appendice che col verismo non ha niente di comune e appartiene a una deteriore letteratura popolare”.[97]

Giudizio favorevole viene espresso solo dal Croce:

“Le Calabrie ebbero il loro pittore in Nicola Misasi, che continuò nei suoi racconti e nei suoi quadri di costume il romanticismo calabrese d’intorno il 1840, di Domenico Mauro, di Vincenzo Padula e di Pietro Giannone. Lo continuò anche in certa, non si vuol dire approvazione, ma pure simpatia ammiratrice per le violente passioni d’amore, di gelosia e di vendetta, che erano di quella gente, e, e per il brigantaggio che, al tempi dei Francesi, si tinse non solo di consimili passioni ma anche di una sorta di offeso sentimento patrio o regionale. Così ispirato il Misasi narrava bene, con quella particolarità ed evidenza che nasce dall’adesione alle cose narrate… Il Misasi descrisse la Sila (Il gran bosco d’Italia), con molta sagacia analizzò la vecchia vita provinciale e lo sconvolgimento e distruzione di essa al quale egli aveva assistito, illustrò i sentimenti del popolo calabrese nei suoi canti e ricelebrò il loro gran santo, san Francesco di Paola”.[98]

Nonostante i validi motivi di fondo che si possono riscontrare attraverso una lettura attenta delle opere misasiane, l’autore calabrese è noto soprattutto come narratore di inverosimili storie di briganti, di fanciulle eteree, di femmine perverse e di intrecci complicatissimi con finale spesso drammatico. Attualmente l’opera e il nome del Misasi sono quasi del tutto sconosciuti, anche se vasta è stata la sua produzione e lusinghiero il successo ottenuto presso un pubblico abbastanza eterogeneo di lettori. Il destino dell’autore calabrese è perciò da accomunare a quello degli scrittori che, rivolgendosi in maggior misura a un pubblico di elementare capacità comprensiva, cadono nel più completo oblio. Si tratta di quella letteratura di consumo, che è fucina eterna di “best-sellers”, ma che, con l’arte, non ha niente a che vedere. Mario Praz, scrive a tale proposito:

“ci sono geni supremi e anche maestri minori che, grazie al loro vasto appello umano, godono una certa popolarità in ogni tempo: non questi sono gli indici del gusto, per esprimerci in termini di borsa, subiscono oscillazioni violente. Costoro sembrano passare come comete nell’età in cui vissero, con un bagliore che ha del prodigioso, poi scompaiono, pare, dal firmamento.”[99]

Lo stesso critico, sempre sul medesimo tema, afferma che la grandezza di uno scrittore è

“in ragione diretta della sua perenne contemporaneità,  essendo egli ricco da poter offrire a ogni nuova epoca un aspetto in cui essa può specchiarsi”.[100]

Un concetto assai simile è espresso dal formalista russo Tomaševskij sul carattere effimero della “letteratura di consumo”. Egli è del parere che le opere letterarie che si occupano solo dei problemi di attualità, non riescono a sopravvivere nel tempo; al contrario, andando oltre i limiti dei problemi quotidiani e prendendo come tema quegli interessi che sono rimasti immutati durante tutto il corso della storia umana ( es.: problema dell’amore, della morte, ecc.), l’opera d’arte può sopravvivere al passare del tempo.



[1] Francesco Bruno: La scapigliatura napoletana e meridionale. La Nuova Cultura Editrice, Napoli 1971, pp. 174-175.

[2] ibidem

[3] c.f.r. Sergio Romagnoli, Narratori e prosatori del Romanticismo, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano 1969, p 89.

[4] Cola il Lupo, in Pagine calabresi, Cappelli, Bologna, 1969, p. 60.

[5] Il tenente Giorgio, Bideri, Napoli 1939, p. 42.

[6] La Sila, da Anima rerum, in Pagine calabresi, cit., p. 126.

[7] La Sila, cit., pp. 126-127

[8]  Il povero Rospo, in Pagine calabresi, cit., p. 394.

[9]  ibidem

[10] ibidem 

[11] ibidem

[12] ibidem

[13] Cola il Lupo, in Pagine calabresi, cit., p. 71

[14] Il tenente Giorgio, cit., p. 5

[15] Frate Angelico, in Pagine calabresi, cit., p. 136.

[16] Giosafatte Tallarico, Universale Economica, Milano 1950, p. 23

[17] Il castello di Cosenza, ne Il castello di Corigliano, Bideri editore, Napoli, 1893, p. 27

[18] Racconti calabresi, in Pagine calabresi, cit., p. 45.

[19] L’assedio di Amantea. Bideri editore, Napoli 1941, vol. I°. p. 37.

[20] Ibidem, p. 46.

[21] Il dramma di Pizzo nel 1815, nel volume di Marito e sacerdote, Bideri editore, Napoli 1905, p. 69.

[22] Civetta e collegiale, in O rapire o morire, L. Pierro editore, Napoli 1892, p. 24.

[23] c.f.r. I formalisti russi, a cura di Tavetan Todorov, edit. Einaudi, Torino 1968, p. 130.

[24] Racconti calabresi, cit., p. 47.

[25] c.f.r. Carmela, editore Bideri, Napoli 1940-41, vol : I°, p. 124:

“Penso, sento che la mia casa è minacciata da una terribile sventura. Sentite, da più sere una civetta urla sui tetti della casa. È un brutto presagio: così urlava un mese prima che mio marito morisse…Sentite, sentite…”

[26] c.f.r. Cattaneo: La narrativa meridionale, in Quaderni di Prospettive meridionali, Roma, 1906.

[27] L’Affrontata, in Pagine calabresi, cit. pp. 400-01.

[28] Ibidem, p. 401.

[29] ibidem

[30] L’Affrontata, cit, p. 401.

[31] Ibidem, p. 400

[32] ibidem, p. 402

[33] Il castello di Corigliano, cit., pp. 13-14.

[34] Capanna di carbonaio, in Pagine calabresi, cit., pp. 115-116.

[35] Il povero Rospo, in Pagine calabresi, cit., pp. 396-397.

[36] Quest’aspetto verrà trattato più oltre.

[37] Sola contro tutti, Quintieri editore, Milano 1913, p. 148.

[38] Ne Il gran bosco d’Italia, Sanron editore, Palermo 1900, l’autore spiega il significato di tale vocabolo: “Poiché ci eran pur sempre da temere le scorrerie dei predoni saraceni, le case di campagna furono costruite a mo’ di torri, da ciò il nome di “torre” col quale si indica da noi ogni cosuccia anche di mota e di paglia che serva nella aperta campagna di abitazione ai coltivatori”.

[39] Il tenente Giorgio, cit., p. 98.

[40] Ibidem, p. 12

[41] Ibidem, p. 13

[42] Ibidem, p. 99.

[43] Ibidem, p. 13.

[44] ibidem

[45] ibidem, p. 150.

[46] Gelosia, in Pagine calabresi, cit., p. 425.

[47] Carmela, Bideri editore, Napoli 1940-1941, vol. I°, p. 10.

[48] Ibidem, vol. II°, p. 8.

[49] Ibidem, p. 89.

[50] C.f.r. Devoto-Giacomelli: I dialetti delle regioni d’Italia, Sansoni, Firenze 1972, p. 319.

[51] Cola il lupo, cit. p. 50 .

[52] Il tenente Giorgio, cit., p. 94.

[53] Marco, in Pagine calabresi, cit., p. 82.

[54] Cola il Lupo, cit., p. 52.

[55] Ibidem, p. 51.

[56] Frate Angelico, cit., p. 241.

[57] Es.: Gelosia, in Pagine calabresi, cit., p. 421:

 “Hanno ammazzato massaro Mico, hanno ammazzato massaro Mico”.

[58] Es. : Frate Angelico, cit., pag. 236:

“-Verrà la sua volta, sta sicuro- disse il frate stendendo il braccio in atto di minaccia- Dio talvolta porta in alto i tristi per renderne più precipitosa la caduta”.

[59] La badia di Montenero, Libreria moderna editrice, Napoli 1902.

[60] Fantasticaggini, da Il novelliere della domenica, edit. Lezzi, Napoli 1892, p. 45.

[61] Sacrificio d’amore, Bideri editore, Napoli 1946, p. 72.

[62] La badia di Montenero, cit.

[63] La badia di Montenero, cit., p. 67.

[64] Francesco Bruno: La scapigliatura napoletana e meridionale, cit. p. 197.

[65] Il tenente Giorgio, cit., p. 109.

[66] Cola il Lupo, cit. p. 54.

[67] Cola il Lupo, cit., p. 74.

[68] Sacrificio d’amore, cit., p. 1.

[69] Ibidem, pp. 1-2

[70] Ibidem, pp. 58-59.

[71] Sacrificio d’amore, cit., pp. 60-61.

[72] Francesco Bruno: La scapigliatura napoletana e meridionale, cit., p. 22.

[73] Il tenente Giorgio, cit., p. 147.

[74]Frate Angelico, cit., p. 248..

[75]Il tenente Giorgio, p. 43

[76] Il tenente Giorgio, cit., p. 31.

[77] Ibidem, p. 176

[78] Cola il Lupo, cit., p. 59.

[79] Ibidem,p. 55.

[80] Capanna di carbonaio, cit., p. 106.

[81] Ibidem, p. 113.

[82] Ibidem

[83] Gelosia, cit., p. 428.

[84] Marco, in Racconti calabresi, in Pagine calabresi, cit. pp. 98-99.

[85] Frate Angelico, cit. p. 141.

[86] Gelosia, dalla Domenica del Fracassa, I° novembre 1855,in Pagine calabresi, cit., pp. 426-427.

[87] Il tenente Giorgio, cit., p. 106.

[88] Frate Angelico, cit., p. 308.

[89] ibidem

[90] Todorov, I formalisti russi, cit.

[91] L’Affrontata, cit., p. 403.

[92] Luigi Russo, Giovanni Verga, Editori Laterza, Bari 1959, pp. 305-306.

[93] Ibidem p. 309.

[94] Ibidem

[95] Pagine calabresi, cit., p. 23.

[96] Storia della letteratura italiana, Garzanti editore, Milano 1969, volume IX, p. 251.

[97] Ibidem, vol. VIII, PP. 378-379.

[98] Benedetto Croce: Letteratura della Nuova Italia, Laterza, Bari 1957, pp. 210-211.

[99] Mario Praz, Il patto col serpente, editore Mondatori, Milano 1972, p. 13.

[100] Ibidem, p. 147.

Contesto

La narrativa di Nicola Misasi, di Maria Lorello

 


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