Nicola Misasi: Personaggi,
di Maria Lorella
Il popolo calabrese è il protagonista
corale di tutta l’opera misasiana. Della sua gente, in particolare di quella
che vive sui monti della Sila, egli scrive:
“Le donne sono belle e forti, han gli
occhi neri e neri i capelli…ed han la passione violenta nel cuore e nel sangue,
la passione semplice, profonda, ingenua, che non conosce lascivie, né
civetterie, né infingimenti, né fralezze; gli uomini son torosi con le membra
arse dal gelo e il viso arso dal sole, liberi come lo sparviero, agili come il
lupo, schietti e ingenui come bambini, quantunque taciturni come coloro che
vivono nella contemplazione dei grandi orizzonti e nella fiera maestà dei
monti. Il loro linguaggio è aspro, fischiante come l’aquilone che li cullò, che
ne arse le membra e ne sferzò il volto, e la loro vita è buona, tranquilla,
misera”.
talora lo scrittore attribuisce a un
singolo personaggio caratteristiche somatiche e di comportamento tipiche di
tutto il popolo calabrese. Tale è, ad esempio, il ritratto fisico e morale di
Pietro Guiscardi:
“Era un uomo sui trenta anni, con gli
occhi ardenti e profondi, la fronte alta, il naso aquilino della sua razza e le
spalle ampie e il torace ampio. Aveva nell’aspetto quella fierezza semplice e
schietta che è un prodotto della forza dell’anima e della forza del corpo, era
uno di quei tipi, insomma, risoluti e recisi, nei quali l’azione precorre il
pensiero, che son leali perché la natura violenta e focosa non saprebbe
infingersi; l’aver vissuto lontano dalla città, nella solitudine dei boschi e
dei villaggi dà ad essi una certa rozzezza ingenua nella vita e nelle
passioni”.
Nella prefazione a Racconti calabresi
l’autore manifesta la finalità di tale opera: far conoscere il popolo di
Calabria perché contro di esso
“dileguino le sinistre prevenzioni”
e muovere una critica contro la
società a lui contemporanea e contro l’umanità in genere che
“nulla da che mondo è mondo ha fatto”
per quella categoria di persone che
vivono nei suoi romanzi:
“poveri contadini, e spesso servi di
contadini, che sono come il bassofondo della società calabrese”.
Il nostro autore non mostra verso il
suo popolo l’impassibilità di Giovanni Verga verso quello siciliano, ma ha la
coscienza di avere una missione da compiere, quella di essere utile al popolo
di Calabria. Il Misasi, pur essendo consapevole dell’immaturità sociale e
politica della sua gente, ancorata a vecchi pregiudizi,
, non dispera di riuscire nel suo intento. Anche i personaggi misasiani, così
come quelli verghiani, hanno un fondo di fatalismoe
di rassegnazione. Spesso questi “servi dei servi” non hanno la coscienza della loro misera condizione: sono il più
delle volte dei relitti umani, che la mancanza di istruzione costringe a una
vita vegetativa permanente. ‘Ntoni, ad esempio,
“mancava fin da cinque anni dal
villaggio ed era vissuto solo in quella solitudine spaccando legna e
bruciandola per farne del carbone. Gli avevano detto che oltre a quella
montagna, oltre al suo villaggio, oltre alla città ove Peppe [suo padrone]
andava spesso col mulo, eranvi altre montagne, altri villaggi, altre città; ma
a lui, del resto, se davvero ci fossero, che importava? Peppe gli dava da
mangiare pane di segala, di lupini; qualche volta patate lesse, sovente
castagne bollite: più, a Natale, una camicia, un paio di mutande e una coperta
di lana: busse e male parole, sempre. Pure faceva buon viso anche alle busse e
alle male parole, perché si sa il padrone che ha l’obbligo di dar pane ha oure
diritto di dar calci e pugni”.
Alcuni, però, consapevoli della loro
condizione, si ribellano, come si può notare dalle parole di Cola:
“Perché debbo lavorare dall’alba al
tramonto e morir di fame e di stento? Perché d’inverno debbo tremar dal freddo
e l’està bruciar dal caldo?”
Cola chiama in causa non solo la
categoria dei padroni, ma anche quella dei preti, i quali ipocritamente
predicano la carità e la povertà evangelica:
“Quando nel vespero delle domeniche,
ti ricordi? S’andava in chiesa ad udir spiegarew la dottrina cristiana, il
parroco ci diceva che il signore ci aveva creato tutti uguali; e intanto lui,
il parroco, aveva mangiato pane di maiorica e carne di bue e bevuto vino dei
Marzi, ed io ero digiuno dal giorno innanzi, e tremava dal freddo accoccolato
presso l’altare, mentre il parroco era avvolto da un grosso mantello di lana!”.
Sta maturando nel povero contadino,
abbrutito dalla miseria e invecchiato ancora giovane, una certa coscienza
sociale. Nel rendersi conto del dislivello enorme che esiste tra la sua vita e
quella del padrone, egli pensa a “risolvere” la propria situazione rendendosi
giustizia da solo, per mezzo dell’aperta ribellione verso una società che non
garantisce l’uguaglianza tra gli uomini, ma che anzi di questa disuguaglianza
si nutre. Questi sono gli interrogativi, ai quali il contadino non sa trovare
risposta:
“Quando vo a portare la ricotta al
padrone, lo trovo a giorno alto sdraiato e ancora sonnacchioso su di un letto
di lana con coperta di seta in una stanza parata come la chiesa quando è la
festa di San Francesco; ed io intanto per portargli le ricotte mi alzo ad un’ora di mattino dal giaciglio di paglia
fradicia, cammino per tre ore a piedi nudi per balze e per monti e spesso senza
un pezzo di pane per sfamarmi! E perché il padrone che non fa nulla, mi piglia
a calci se non l’ubbidisco a puntino? E perché massaro Santo, cui tocca un
terzo del ricolto e lavora appena due ore al giorno, dà a me, che lavoro
dall’alba al tramonto, soltanto un pezzo di pane ferrigno e dei pugni spesso,
delle male parole sempre, per companatico”.
Questo personaggio non accetta
passivamente la sua condizione di servo e mormora tra sé:
“Dovrà venire il mio giorno! Lo so
che debbo finire in galera, lo so”.
Ma anche un personaggio debole,
almeno quale può sembrare Marcella, rivela insofferenze insospettate. Ella,
infatti, si chiede con rammarico:
“Perché la felicità della vita
interiore deve essere immolata alle esigenze del convenzionalismo sociale?”.
Alcuni personaggi popolari, quindi,
anche se non hanno una profonda coscienza sociale, si ribellano per istinto al
loro destino; la piccola borghesia, colta e istruita, appare invece in tutto il
suo conformismo e opportunismo. Quella maturità politica riscontrabile nei
personaggi di Sue e di Zola, nel Misasi non si ritrova neppure nel ristretto
gruppo di personaggi “borghesi” [notai, sindaci, farmacisti, pretori] che si
riuniscono in piazza per i soliti pettegolezzi paesani. Più volte l’autore fa
assistere il lettore ai colloqui fra i rappresentanti di categorie di persone,
fornendo un quadro abbastanza chiaro dell’ambiente pettegolo e retrogrado della
classe borghese. Lo spirito conformista e reazionario è elemento comune a tutti
questi personaggi. Un certo don Vincenzo, dopo aver spiegato piuttosto
egoisticamente che cosa so no per lui la patrie la libertà, così si esprime nei
confronti del re e del papa:
“Il Re, si sa, può far quel che
vuole, perché è nato re, è nato padrone della nostra vita e delle nostre
sostanze, e se ci lascia vivere, e se ci lascia la casa, l’orto, la moglie,
dobbiamo ringraziarlo con la faccia a terra. Non bisogna credere a dio dunque?
E questo vorrebbero i rivoluzionari, che non credessimo né al Papa, che è il
vicario di Cristo,né al Re”.
Nella comunità “colta” della
Calabria, ogni cosa è rimasta ben radicata; ecco quello che pensa un certo don
Angiolantonio a proposito dei “rivoluzionari”:
“Ma sapete che ier l’altro in Cosenza
da alcuni malintenzionati si gridò viva la libertà, viva l’indipendenza e
abbasso, sì abbasso… il re nostro signore che Dio guardi? Erano dei ragazzacci,
degli studentuoli che non han voglia di studiare sobillati chissà da
chi…L’altro giorno mi venne fatto di leggere un giornale che si stampa in
un’isola, rifugio di tutti facinorosi, i quali hanno a capo un certo Mazzini.
Ebbene, sapete che si diceva in quel giornale? Delle cose terribili, delle
bestemmie orrende contro il re, financo contro il Papa: che è ore di finirla,
che l’Italia un tempo regina oggi è schiava e bisogna spezzarne le catene.
Insomma un cumulo di porcherie.”
Sempre nella prefazione precedentemente
citata, il nostro autore giustifica il comportamento dei suoi conterranei:
“Fa d’uopo che si dimostri che quasi
sempre il movente del delitto e della rapina non è un volgare istinto del male,
ma qualche cosa di più elevato,
di più nobile; che bisogna rintracciare nella natura fiera e ardita di questo
popolo”.
Affiorano qui, come altrove, i motivi
sociali espressi dall’autore cosentino:
“O poveri figli delle boscaglie!
Mentre l’umanità si agita e cammina incessantemente verso una meta che si fa sempre
più lontana…fa nascere nuovi bisogni, nuove aspirazioni di felicità e di
benessere e nuovi mezzi per conseguirle; e ci sono Re, Parlamenti, Senati,
Congressi, Università, scuole, Accademie che studiano, si affannano per
l’interesse morale e materiale dell’umanità; povero, oscuro, abbrutito dalle
miserie e dall’isolamento vive nelle boscaglie, nelle campagne deserte il
contadino, che è spesso un servo di contadino, e che pur con le sue fatiche fa
vivere Re, Parlamenti, Senati, Università! E quei poverelli, nati chissà come,
che morranno chissà come, son mille, son centomila, son milioni; e vivono
servendo una miseria meno misera, il contadino; si coprono coi cenci di altri
cenci, mangiano i rimasugli di un cibo scarso e ammuffito, sono i servi dei serviu,
gli ultimi estremi dell’abrutimento e dell’ignoranza…Tali sono oggi, tali
furono dieci secoli orsono, e tali saranno dimani: il progresso è passato e non
li ha visti…”.
Nicola Misasi, con questa disanima
della situazione, vuole senz’altro muovere una denuncia anche contro lo stato
che, istituendo la legge per l’istruzione obbligatoria, pensa erroneamente di
poter risolvere i problemi dell’Italia meridionale. Così egli si esprime:
“E non mi dite che oggi si pensa
anche a quei miseri figli delle montagne con leggi apposite e con l’istruzione
obbligatoria. O sì! Dopo imparato che b ed a suona ba ne sapranno quanto prima;
e non sarà certo quel po’ di abbiccì, appreso chissà come, che li salverà
dall’abrutimento, che darà loro il fuoco nell’inverno, un pane quotidiano, che
non sia fatto di terra, di vestimenta che non siano cenci brulicanti d’insetti.
E son essi intantoi che lavorano, son essi che producono al ricco le gioie
della vita”.
L’autore, nella sua indagine storica,
sociale ed economica che ha per protagonista la Sila, osserva amaramente che la
condizione dei miseri abitanti del luogo non è cambiata nemmeno con l’avvento
dell’unità d’Italia. Anche dopo tale avvenimento storico la sudditanza feudale
dei contadini è rimasta, pur sotto altre forme; essi, in effetti, non sanno che
farsene della conquista del diritto elettorale in quanto tale diritto è
“sfruttato dal signore che vuol
divenire consigliere comunale o provinciale, sindaco o deputato per far sempre
più la sua vanità e la sua prepotenza sui deboli, sugli umili, come un giorno
adulando i re e i suoi cortegiani diveniva barone, conte, marchese”.
La descrizione minuziosa delle
suppellettili e dei costumi del popolo minuto prevale sull’indagine psicologica
dei personaggi. L’elemento pittorico va a discapito della complessità umana di
tali personaggi, i quali sono perciò essenzialmente delle figure “piatte” che
si confondono spesso tra loro. In alcuni casi, malgrado un apparente aspetto di
uniformità, si può cogliere in essi una certa sfumatura nel carattere o nel
comportamento. Maria Monaco e ‘Ntoni, ad esempio, sono ambedue figure
passionali ed istintive, ma mentre ‘ntoni è un relitto umano senza possibilità
di salvezza, Maria si riscatta per un “ancestrale sentimento materno “.Infatti,
quest’ultima, pur avendo tutte le caratteristiche del personaggio “a
stiacciato”, riesce tuttavia a sorprenderci; una donna fiera e animalesca come
Maria sembra incapace, alla fine del racconto, di cullare dolcemente il figlio
della sorella, da lei uccisa, e di canticchiare sottovoce questa malinconica e
fiabesca ninna nanna:
“Sorridono le stelle del mattino
sorridono gli angioletti al mio
bambino.
Dormi bambino mio, dormi tesoro,
nel sonno spunterai le alucce d’oro”.
I personaggi femminili del Misasi
sono creature eteree e idealizzate oppure femmine sensuali. In parallelo si ha
il dualismo tra amore platonico e amore passionale. Ne è rivelatore il dilemma
di capitan Riccardo:
“Egli notava in se stesso un fenomeno
strano: di quelle due donne, l’una pallida, bionda, delicata non era che idea
che egli vedeva attraverso un velo bianco in alto in alto, come se ella vagasse
per l’azzurro infinito del cielo; l’altra invece era la donna turgida di
voluttà, la cui matura bellezza sprizzava fiamme, del cui ricordo sentiva arse
le visceri”.
Ne La badia di Montenero il contrasto mulier-foemina è ben visibile. Ne è
prova la descrizione fisica di Marcella, la donna, e di Anna, la femmina. Anna
è bella,
“di una bellezza gagliarda con due
neri occhi che le fiammeggiavano in fronte”;
ha “le labbra rosse e polpute” ed è
“flessuosa e gagliarda come un
giovane pino, neri gli occhi e i capellisoda
nelle carni come una giovenca ben pasciuta”.
Marcella ha, invece, un
“bel viso…pallido nella massa d’oro
della folta capellatura”;
è “bianca e sottile come uno di quei
fiori che han le corolle delicate così che ogni alito di vento par debba
portarle via”.
L’amore di Anna “era fatto di impeti
e violenze”;
ella
“dell’amore non capiva né le dolcezze
né le malinconie; la sua era una passione che viveva dell’oggi incurante del
domani, in uno spasimo di tutto l’essere”;
infatti
“ella non credea che al mondo vi
fossero altri amori che quelli del piacere”.
Per Marcella, al contrario, l’amore
era
“un sentimento rimasto fino allora
fuori della sua vita, nelle frasi dei libri, nei canti dei poeti, nelle scene
dei romanzi”,
era per lei
“dedizione intera, assoluta nel
presente e nell’avvenire, donazione irrevocabile di tutto l’essere nella gioia
come nel dolore”.
Ambedue queste figure sono “piatte”, anche
se notiamo una certa evoluzione del carattere, sia in Marcella che in Anna.
L’amore di Marcella per un brigante non ci sorprende molto, in quanto esso è
dovuto all’inesperienza della ragazza che
“subiva in ciò l’influenza di letture
romantiche”
e che
“nella figura di lui vedeva la figura
degli eroi, i cui casi l’avevano interessata e commossa”.
Non appena arrivata al convento,
Marcella comincia a fantasticare sul luogo e sulle persone appena viste;
infatti
“ella seguiva un suo pensiero mentre
andava attorno alla celletta; erano figure che si succedevano senza forme
determinate; visioni che si dileguavano rapide, ricordi di scene fantasiose
lette nei libri, note di canzoni
malinconiche, echeggiavano sommessamente nell’anima sua, tutto un
confuso rimescolio di impressioni e di reminescenze, fra le quali per un
fenomeno strano si teneva immobile con lo sguardo fisso, le braccia conserte,
pensosa l’immagine di quel monaco”.
La figura di Marcella ha però un
certo evolversi, come è dimostrato dal suo scaltrirsi dopo aver fatto
conoscenza con Giacomo. Il mistero che circonda il monaco-brigante fa sì che
alla candida anima di Marcella si presenti una possibilità di rinnovamento;
essa, ad esempio, non rivela al padre la vera provenienza dei fiori appuntati sul
petto o l’esistenza di un’apertura segreta nell’armadio che è in camera sua.
Intuendo la vera identità del frate
ella
“sentiva in sé un’angoscia
tormentosa, un’ansia ineffabile, pure non sapeva rivolgersi a parlarne al
padre, perché quel mistero che la faceva vivere in una continua tensione aveva
pure u fascino strano nel suo spirito”.
Del resto è presente una certa
metamorfosi anche nell’anima di Anna che, alla fine del romanzo, riesce a
riscattarsi, proprio per aver compreso che non esiste soltanto l’amore dei
sensi. Le figure femminili del Misasi, dunque, si assomigliano, sia quando
rappresentano il bene, sia quando rappresentano il male: analogo a quello di
Marcella è il personaggio, fra i tanti, di Alma, di Maria (la fidanzata del
brigante Marco), di Maria di Santafiora; parallelo a quello di Anna è invece il
personaggio della regina Carolina d’Austria, nonché quello di comare Rosa e di
molti altri. soltanto Fosca, protagonista di Devastatrice, si differenzia dalle altre, nonostante che lei pure abbia
un personaggio parallelo: Lisa di Ligny. Ella, un mostro di perfidia e di smodata ambizione, è tuttavia la figura
femminile più viva della narrativa misasiana. Nel personaggio di Fosca si
avverte l’influenza delle letture francesi dell’autore, in particolare quelle
riguardanti i romanzi di Emile Zola. Fosca ha, infatti molte caratteristiche
comuni con la Nana dello scrittore naturalista; non è la figura- macchietta del
bene o del male, ma una donna vera, con i suoi istinti, i suoi momentanei
slanci di bontà e di amore disinteressato, la sua scaltrezza, la sua umiltà, la
sua finzione, la sua ipocrisia, la sua bellezza sconvolgente, la sua studiata
civetteria. Ella abilmente adopera queste “qualità” per raggiungere il proprio
fine: la conquista di un’esistenza ricca e lussuosa. Nella penombra del
salotto, aspettando il barone di Montalto, oggetto delle sue mire, si gira e si
rigira
“sulla dormeuse come in cerca di una
posa che meglio ne mettesse in rilievo le formosità della persona”.
Fosca, da grande attrice qual è,
predispone la stanza e se stessa in modo che il barone ne rimanga colpito e più
che mai innamorato. Ecco quello che scrive l’autore:
“Su un soffice guanciale di seta
bianca aveva poggiato la testa, onde il rosso del volto spiccava fra il fulvo delle
trecce e queste parea divampassero nel biancore lucente della seta. Gli occhi
di un cupo azzurro, cerchiati di viola con la sapienza che si acquista nei
camerini fra le quinte e negli spogliatoi delle donne di piacere, apparivano
assai più grandi di quello che non fossero, e le pupille in quel violaceo
ardevano voluttuose. Le guance pienotte avevano anch’esse quella lieve
sfumatura azzurra, che tanto piace ai pittori. Il bel corpo alto, sottile alla
vita e ampio di spalle e di fianchi si stendea mollemente sulla dormeuse,
senonché un piedino posava a terra e le due ginocchia protendevano le loro
rotondità, mentre la stoffa delineava gli altri contorni”.
Anche il suo abbigliamento è ben
studiato, come pure la sovrabbondanza di oggetti sfavillanti sulle vesti e sul
corpo. ella, infatti,
“si era vestita di un ricco abito di
seta color di rosa aperto un po’ al principio del seno, di una rosea sfumatura
anch’esso, che inturgidiva fra la stoffa delineandosi squisitamente nei
magnifici contorni. Le maniche corte e un po’ aperte lasciavano intravedere le
braccia bianche con due mani grassottelle alle cui dita scintillavano le gemme
degli anelli: e sulla fulva massa dei capelli raccolti in morbide trecce
mutilava un brillante. Anche sullo sparato della veste splendeva una borchia
gemmata donde pendevano tre grosse perle e nelle piccole orecchie sfavillavano
due rubini”.
E più oltre il nostro autore
commenta:
“La sua bellezza rispondeva
all’abbigliamento che ricordava la teatralità insolente e sfacciata della “chanteuse”
in armonia col salottino, anch’esso uno stridore di tinte forti”.
Questi ultimi elementi accomunano
ancora di più il personaggio alla Nana di Zola, ma tutta la descrizione della
donna che, sdraiata sulla “dormeuse”, appare in tutta la sua lascivia, richiama
alla mente anche il famoso quadro di Manet raffigurante “Olympia”.qualche
particolare della descrizione evoca anche l’Aspasia leopardiana, nella quale,
appunto, si legge:
“…a me si offerse
l’angelica tua forma, inchino il
fianco
sovra nitide pelli, e circonfusa
d’arcana voluttà…”
un altro personaggio femminile che in
un certo qual modo si distingue dagli altri, è Carmela, un modello di virtù e
di ingenuità, almeno prima che iniziasse i suoi studi in un collegio cittadino.
Ella è una vittima della cattiva educazione ricevuta e di un certo tipo di
letture in auge in quell’epoca. Il Misasi critica la cattiva educazione
impartita dai collegi anche in altre opere; in Carmela egli afferma:
“Dopo otto anni di quella vita, anche
le più buone, le più affettuose, sentivano, se non spezzati, rosi in parte, i
legami che le avevano sì strettamente unite ai loro parenti; non eran più
figlie, non eran più sorelle, non eran più fanciulle neanche né nel pudore né
per la ignoranza del peccato; eran degli esseri ibridi, donne nel sesso, ma
uomini nell’intento perché chiamate a lottare per conseguire la meta volgare
del pane quotidiano”.
Ma il discorso circa i pessimi
effetti dell’educazione –proprio per un fondo di conservatorismo dell’autore a
questo riguardo- è ribadito anche in altre opere, nelle quali si accenna alla
non opportunità di far studiare le donne. Indagando e riflettendo sui progressi
economici e culturali verificatisi in Sila, egli, un nostalgico del passato più
che un vero e proprio conservatore, così si esprime:
“Le scuole normali rigurgitano di
povere fanciulle, che un tempo si destinavano alla rocca e al telaio e che
divenivano buone madri, brave massaie, le quali oggi col cervellino vuoto, col
cuore guasto, con la fantasia esaltata, con la mente confusa da tanto male
apprese e mal digerite cognizioni, escono dalle scuole per dar la caccia ad un
posto di maestra elementare che alcune ottengono intrigando e civettando con
sindaci e con assessori”.
Il Misasi, in molte sue opere,
attribuisce alla cultura il potere di generare l’infelicità, mentre
all’ignoranza quello di condurre a una sicura serenità spirituale. Anche se con
motivazioni meno “esistenziali”, il Misasi giustifica alla maniera del Leopardi
il pensiero espresso circa le conseguenze della cultura, adducendo che la
semplicità dei cuori fa sì che l’uomo, non ponendosi mai problemi sul
significato della vita e dell’al di là, si accontenti di quello che ha. Spesso
i personaggi rozzi e incolti riscuotono la inconscia simpatia dell’autore in esame;
in questo modo si può spiegare l’implicita condanna morale nei confronti di
Carmela. Tale personaggio è una figura malata di bovarysmo, intendendo per
bovarysmo quel particolare atteggiamento di reazione contro la realtà, di
desiderio di realizzare l’ideale, di insoddisfazione dell’esistenza che l’uomo
è condannato a vivere. Emma Renault, cioè madame Bovary, è di natura romantica
e fantasiosa; ella ha avuto una cattiva educazione, che le ha dato aspirazioni
molto al di sopra della sua condizione, aspirazioni che sono state alimentate
dalla lettura di romanzi che hanno suscitato in lei forti emozioni; quando
sposa un medico di campagna, ella è perciò ben presto delusa della vita
mediocre che è costretta a vivere. Anche Carmela si nutre di letture romantiche,
attraverso i libri che le vengono regalati da don Riccardo Lancia, ed ha una
cultura di gran lunga superiore a quella delle persone che la circondano. Ella
avverte un profondo disagio nel costatare che la piatta realtà in cui vive è
ben lungi dall’ideale che si era costruito. La sua bellezza e la sua cultura le
sembrano sprecate nell’ambiente meschino e retrivo in cui è costretta a vivere.
Guardandosi allo specchio, nella casa solitaria nel bosco, ella costata
amaramente che si trova “bellissima” e per questo subito dopo
“il bel seno le si gonfiò ad un
sospiro”.
Così rimpiange di non aver voluto
“afferrare pel ciuffo la fortuna”
nel momento in cui ebbe la
possibilità di avere un posto di maestra offertole da don Riccardo. Vedendo una
dama a braccetto con don Riccardo, ella si domanda con meraviglia e rammarico:
“Quella maschera, che era infine alla
mia età? La figliuola di un miserabile scalpellino, rozza, ineducata,
ignorante, mentre io, invece! Ed ora ella si gode la vita: amori, piaceri,
vesti, gioielli, vacalli, carrozze, ed io fra quattro mura per i comodi e i
bisogni brutali di un uomo”.
In un’abitazione dispersa nel bosco,
a contato con gente cordiale, am rozza, Carmela medita e sospira:
“Forse anch’io ero nata per vivere
nel lusso, nella gioia, nelle feste: più di quelle dame, cultura, gusto,
sentimento pel bello…via, via; ormai che cosa sono? Non ricordo più nulla: in
due mesi di questa vita mi sento già morta ad ogni ideale. A che serve il
rammaricarsi?”.
Ben differente da quello di madame Bovary
è comunque l’epilogo della vicenda di Carmela, che alla fine, si riscatta
dedicandosi completamente al marito divenuto invalido per colpa sua. La lettura
di questo romanzo lascia un profondo senso di tristezza nel lettore poiché è
tutto permeato di pessimismo e di fatalismo. L’insofferenza verso la vita che
sono costretti a vivere e il conseguente desiderio di evasione è presente anche
in altri personaggi, come in quello della baronessa Gilardi che
“per cedere alla volontà del padre,
andò sposa al barone Girali e venne a seppellire la sua giovinezza e la sua
beltà in questo paesello, tra gli alti e foschi pini…essa in sulle prime
pianse, poi si rassegnò a languire, povero fiore di serra trapiantato nel
bosco”.
È proprio la coscienza di meritare
ben altro che spinge la baronessa Girali, così come già Carmela, all’evasione
sentimentale.
Nella caratterizzazione dei
personaggi femminili, il nostro autore adopera uno stile molto ricercato, che
gli ritiene adatto all’animo femminile; le parole del Misasi si fanno più
incisive, invece, allorché delinea personaggi di sesso maschile.
Nel creare personaggi dagli impulsi
indomabili, che affondano nelle tradizioni di un mondo primitivo, l’autore ha
il merito di far affiorare il substrato dell’animo del suo popolo. Sono
presenti la passionalità, la gelosia, la cupidigia della “roba”, l’esagerato
amor proprio che sconfina nella superbia e nella violenza, l’orgoglio e
l’insofferenza del misero che non s’incontra nella moltitudine dei personaggi
verghiani, rasseganti al proprio destino. Nella descrizione del carattere
impetuoso di Enrico Schettini, personaggio del romanzo intitolato Frate Angelico, l’autore manifesta con dure parole
la propria avversione verso i difetti proverbiali dei suoi conterranei:
“Ora, per quanto buono in fondo,
Enrico Schettini risentiva pur troppo dell’indole dei suoi conterranei e della
loro caratteristica passione: l’invidia per coloro che con le buone o le male
arti si elevano al di sopra degli altri; un’invidia bassa, bieca, che talvolta
arma la mano di coltello; che perturba più di quel che non si creda la vita,
dai poeti favoleggiata per dolce, serena, tranquilla, dei nostri paeselli. Né
la coltura, né l’educazione, né la vita varia e più nobilmente intesa dei
centri di civiltà toglie del tutto questa logorante passione dal cuore dei
paesani. Il così detto “galantuomo” dei nostri villaggi, trapiantato in città
perde un po’ di asprezza e di rozzezza, modifica qualche pregiudizio, si copre
di un po’ di vernice, ma in fondo resta l’indole primitiva, invidiosa, maligna,
procliva all’intrigo e ad ogni mala arte”.
Il Misasi, nei suoi racconti, vuole
rappresentare alcune manifestazioni dell’ardore sensuale delle più umili classi
sociali, prive delle complicazioni psicologiche proprie degli ambienti più
evoluti. Molti personaggi misasiani hanno soltanto determinate
caratteristiche:Ligiuzzo conosce soltanto la gelosia e la vendetta, il Guercio
la violenza e la furbizia, donna Maria la dedizione e il sacrificio; Carolina
d’Austri, invece, conosce soltanto l’intrigo, donna Maria di Santafiora la
bontà e la rassegnazione, capitan Riccardo l’obbedienza e la fedeltà ad un
giuramento. Molti di questi personaggi appaiono insieme strumenti di una nemesi
storica, la cui misteriosa presenza influisce negativamente sulla rassegnazione
e sulla fatalità propria di alcuni personaggi. Tale interpretazione delle
vicende umane si può notare particolarmente in Frate Angelico, allorquando Maria, meditando sulle proprie
disgrazie, arriva alla conclusione che
“ella pagava il fio, forse, di colpe
secolari, ella in quel paesello in cui i baroni di Santafiora avevano un tempo
esercitato gli immondi e turpi diritti feudali, era la vittima immolata alle
vendette di tante vittime”.
Lo stesso concetto viene espresso ne Il tenente Giorgio, in cui il soggetto colpito dalla
“vendetta” è addirittura una bambina di quattro anni. Con queste parole i
paesani commentano il rapimento della piccola Maria:
“Ma il rapimento della bimba da tutti
amata aveva mosso a pietà ogni cuore,
quantunque alcuno in tale nuova sciagura piombata su la casa dei marchesi di
Monserrato, avesser visto un’altra e più terribile espiazione ai vecchi
peccati. –Il dito di Dio, il dito di Dio!- dicevano i vecchi massari sottovoce
con aria sentenziosa”.
Il brigante è, insieme al popolo
calabrese in senso lato, il protagonista indiscusso dell’opera del Misasi, così
come il brigantaggio ne è il tema principale. L’autore, per dare una maggiore
caratterizzazione al personaggio in questione e per inquadrarlo nel suo ambiente
naturale, fa spesso la descrizione minuziosa e particolareggiata del costume
brigantesco:
“Giacca di velluto con passamani
verdi, verdi, rossi, turchini… bottoni d’oro e d’argento,… cappello a cono di
velluto con lunghi nastri svolazzanti… la doppietta a bandoliera, la rivoltella
nella cinta che stringeva ai fianchi la cartucciera; e dalla tasca destra delle
brache usciva fuori l’elsa filettata d’argento di un lungo pugnale”.
Il brigante, crudele e sanguinario
nei confronti del nemico, diventa imprevedibilmente timido e mansueto in
presenza della donna amata. Questo contrasto è giustificato dal fatto che
l’autore, volendo narrare l’epopea del brigantaggio calabrese, presenta il
brigante come una figura idealizzata. Non sembra lo stesso individuo quello che
“con le narici aperte pareva pareva
odorasse il sangue: le labbra tremavano scoprendo i denti bianchi e aguzzi”
e che confessa così candidamente alla donna amata.
“Io ti ho sempre amata. Ero un
giovinetto quando ti conobbi bambina. Eri l’unica compagnuzza della mia
sorellina, ed ebbi per te sempre una tenerezza”.
Ne Il gran bosco d’Italia, egli ricostruisce idealmente la vita di un brigante
tipo e da tale ricostruzione scaturisce la partecipazione affettiva dell’autore
nei confronti di questo particolare personaggio. L’autore cosentino crea figure
tipiche del bene e del male, spesso in contrasto tra loro, come ad esempio,
Rugfero silvestri e Jacopo Rinaldi, che possono essere definiti rispettivamente
il “buono” e il “cattivo”. Don Jacopo, per riuscire nel suo intento, invoca
addirittura le forze infernali:
“Ho inteso dire che un tempo il
diavolo patteggiava con gli uomini. Satanasso, Satanasso, io ti darei tutta
l’anima mia perché mi venissi in aiuto…”.
Le parole che questo personaggio
mormora per commentare la morte del Guercio, da lui ucciso pochi minuti prima,
denunciano la sua indole perversa:
“Bah, l’ho lasciato vivere cinque
anni di più di quel che doveva. Ora sì che sono affatto tranquillo”.
Tipica figura del “malvagio” è anche
don Girolamo, personaggio principale del romanzo intitolato Il tenente Giorgio. Don Girolamo è un vecchio prete,
roso dagli anni, dall’avarizia e dall’odio verso la famiglia del cugino. Egli,
ossessionato dall’ingordigia delle “roba”, è disposto, pur di non perderla, a
ogni compromesso o inganno. Ecco come l’astuto prete viene descritto nelle
prime pagine del romanzo:
“Un vecchietto vestito di una zimarra
nera, magro e sparuto, col volto dalle guance bianchicce, con la peluria che da
gran tempo non era stata rasa; con le labbra strette, sicchè la bocca parea un
taglio, dagli occhietti grigi, irrequieti sotto le lenti”.
Come se fosse stato colpito da una
punizione divina, don Girolamo diventa cieco; aumenta così a dismisura la sua
avidità proprio perché egli avverte la propria incapacità nell’arrestare la
“caduta” della sua famiglia:
“Per Gesù Cristo –gridò battendo il
pugno sul tavolo- che se avessi gli occhi, vecchio qual sono, me li vedrei
tremanti alle ginocchia, coloni e guardiani e nessuna banda brigantesca
oserebbe, come non osarono le altre, le più terribili, fare ingiuria al nostro
nome. Il vecchio si era alzato, tremante in tutte le membra, livido, sinistro,
la cui figura era resa più triste dalla nera benda che gli copriva gli occhi”.
L’autore, nella descrizione del prete,
calca sempre di più le tinte, per metterne maggiormente in rilievo la malvagità
d’animo:
“Il vecchio sussultò sulla sedia: sul
fronte gialliccio si delineò la ruga sanguigna che Giorgio aveva visto altra
volta; le mani gli si raggrinzarono, le dita gli si chiudevano come artigli che
stringono la preda”.
Nel fare il
ritratto di qualche personaggio l’autore calabrese adopera spesso la tecnica
manzoniana consistente nell’avvicendarsi di note fisiche e morali. Ne è un
esempio tipico la descrizione di Cola il Lupo:
“Quel
contadino era giovanissimo, contava al più 25 anni, quantunque i patimenti, gli
stenti, i duri inverni l’avessero invecchiato di molto. Nell’aspetto avea
qualcosa di sinistro, ma i marcati lineamenti di quella fisionomia rivelavano a
prima vista un carattere. Gli occhi un po’ infossati, avevano certi sguardi
duri ed acuti, che davano a quel viso un’espressione di tristezza e di ferocia
insieme. Aveva nelle movenze qualche cosa di elastico e di strisciante, e nel
camminare quel non so che di incerto e di sospettoso proprio ai lupi e alle
volpi”.
Frequentemente il Misasi, nel
delineare i suoi personaggi, fa corrispondere a un animo malvagio un viso
deforme e animalesco, come se le caratteristiche somatiche fossero in intimo
rapporto con quelle interiori. Il “malvagio” don Jacopo viene così descritto:
“Era un uomo sulla cinquantina, col
mento e il labbro raso e una striscia di barba ispida che gli passava per la
gola dall’una all’altra tempia. Butterato dal vaiuolo, con gli occhi piccoli
velati di sangue, aveva in tutta la sua persona quell’aria di volgarità
grossolana e pur pretenziosa dei così detti “galantuomini dei nostri villaggi”.
Con parole ancora più crude è
descritto il “degno” compare del Rinaldi:
“Magro, mingherlino, col viso scialbo disseminato di peli,
con due occhi piccoli, l’uno dei quali divaricato e lacrimoso, l’altro
irrequieto e falso, con la testa piccola e il collo lungo come quello della
vipera, Francesco il Guercio accusava tutti i caratteri del malvagio per
istinto. Quell’occhio torbido non aveva mai avuto sguardi di tenerezza, e
quella bocca viscida mai parole d’amore: ci era in lui qualcosa della volpe e
della civetta”.