Nicola Misasi: I motivi della
realtà umana, di Maria Lorella
Raramente gli scrittori si sono
serviti degli animali come autentici personaggi. Nell’autore in questione essi
sono introdotti come elementi di un parallelo e come motivi che caratterizzano
la psicologia dei personaggi; sono frequenti, infatti, le “comparazioni
bestiali”.
Per la descrizione, ad esempio, del
componente di una banda, lo scrittore scrive che ha
“la testa piccola e deforme col muso
sporgente come quello della volpe e del lupo, le labbra rosse e viscide cadenti
sul mento, gli occhi piccoli, infossati, fosforescenti come gli occhi degli
uccelli di rapina”.
Gli attori in un racconto sono però
solitamente degli esseri umani e, come tali, essi hanno certamente dei rapporti
con la vita reale. Edward Morgan Forster, nella sua analisi delle “ragioni
narrative”, afferma che
“i fatti principali della vita umana
sono cinque: nascita, cibo, sonno, amore e morte”.
Risulta interessante, perciò, vedere
il ruolo che svolgono nella narrativa i suddetti motivi della realtà umana.
La morte è un motivo solitamente adottato per concludere lo
svolgimento delle vicende
della narrazione. Nel Misasi la morte non ha questo ruolo secondario; essa
determina piuttosto una situazione di deficienza e un conseguente
danneggiamento. In alcuni casi la morte, infatti, ha un ruolo importante in
quanto costituisce una premessa alle vicende successive. Nella narrativa,
solitamente, il fatto che un personaggio sia orfano non è elemento di base; il
Manzoni, ad esempio, non si sente dell’orfano-Renzo per far nascere da questo elemento
l’azione successiva. Per l’autore casentino il personaggio orfano è
determinante ed è un presupposto per i fatti che seguiranno e che possono
divenire essenziali per lo svolgimento del racconto. La morte di un genitore o
di entrambi costituiscono allora l’esordio del racconto e dà vita ad un’azione
successiva, spesso la condizione di orfano, infatti, ha una funzione decisiva e
il personaggio è portato a risolvere la propria situazione procurando altra
morte. È orfano Cola il Lupo, che uccide per vendetta il padre e il marito
della donna amata; è orfano Stefano, che ucciderà la marchesa Fosca; è orfano
‘Ntonuzzo, che ucciderà la massara Giovanna; e così molti altri. il racconto
può anche terminare con la morte del protagonista ma non, come di solito avviene
nella narrativa, per por fine allo svolgimento della vicenda, bensì perché essa
ha la funzione di catarsi. Frate Angelico, ovvero Ruggero Silvestri, muore alla
fine del racconto, non prima però di aver mascherato colui che è stato causa
della sua rovina; muore il brigante Giacomo, dopo essersi però comportato da
eroe, riscattando in questo modo la dsua vita di uccisioni e di rapine. La
morte è descritta nel Misasi quasi sempre con crudezza di particolari; è
trattata con delicatezza solo
nell’episodio della morte di Elisabetta che “reclinò la testa sul petto”mentre
l’amante sentiva “che le braccia di lei con le quali lo teneva a sé avvinto
ricadevano inerti: un soffio gli sfiorò il viso”.
Da quanto prima esposto è facilmente
intuibile come alla morte sia collegato un altro tema più volte iterato
nell’opera del Misasi: la vendetta.
“le offese si vendicano occhio per
occhio, dente per dente”,
fa dire il nostro autore al barone Guiscardi. La vendetta, infatti, influisce
sempre sull’anima del personaggio che cova risentimenti e rancori nei confronti
di colui che l’ha danneggiato senza una giusta causa. Spesso la vendetta è il
filo conduttore dei racconti del Misasi e ne è un esemplare tipico L’assedio di Amantea, nel cui prologo troviamo il
movente: la violenza subita da Lucia di Roccanera. Già nel prologo Pietro
Guiscardi, marito di Lucia, pregusta la vendetta, che
doveva essere “terribile”; infatti “doveva vendicar lei, doveva vendicar
l’onore di casa sua, così vilmente oltraggiato”.
Ma
“al suo odio non bastava una comune
vendetta, egli la voleva atroce come atroce era stato il suo dolore”.
In molti casi viene invocato
addirittura Dio affinché renda possibile la vendetta. Pietro Guiscardi,
infatti, accanto al cadavere della moglie Lucia, così giura:
“la giustizia di Dio non vuole che
resti impunito il delitto che ti uccise e che a me ti tolse. Io giuro sulla tua
anima benedetta che mi vendicherò, che ti vendicherò”.sempre
il medesimo personaggio, come in delirio, mormora:
“No mio Dio, non essere crudele… non
togliermi questa gioia per aspettare la quale ho vissuto. Fa che sien dessi e
mi confermerai che tu esisti per punire o per premiare”.
Il movente della vendetta è la morte
o l’ingiuria arrecata a un familiare. È significativa a questo proposito l’osservazione
personale dell’autore nel romanzetto Giosafatte
Tallarico:
“L’uccidere un uomo era un fallo
assai lieve, che presto tutti dimenticavano, meno, s’intende, i parenti
dell’ucciso, che ne vendicavano la memoria uccidendo alla loro volta”.
Dalle parole di una madre che piange
il figlio, deceduto per morte naturale, si può cogliere l’essenza dello spirito
del popolo calabrese descritto dal Misasi. La donna non si rammarica tanto del
fatto che il figlio sia morto, quanto dell’impossibilità di vendicarlo:
“O figlio, figlio, fossi tu morto con
una palla al cuore che almeno tuo padre avrebbe saldato la partita; ma al
Padreterno che ti ha colpito, che posso fare, o figlio, figlio mio?”.
Non è solo la morte che provoca la
vendetta, ma anche l’amore-passione. Come osserva Forster, nella narrativa l’amore ha un’importanza maggiore che nella
vita reale dell’uomo. Anche nel Misasi l’amore è alla base del racconto.
Seguendo i canoni naturalisti, l’autore in un breve racconto cerca di fare
un’analisi dell’amore come espressione dell’anima; le sue osservazioni,
infatti, hanno tutto lo stile di un trattatello scientifico, anziché di
un’opera letteraria:
“Nello stato normale, quando le
facoltà fisiche sono in perfetto equilibrio, l’amore è un desiderio e nulla
più, che finisce appena soddisfatto; nello stato patologico invece i gusti e le
tendenze sono sovvertite e l’ammalato è schiavo di un desiderio dispotico cui
non sa, né può resistere: parenti, amici, orgoglio, avvenire, riputazione,
tutto è messo in cale. Nel cervello non si ha che una sola idea, negli occhi
una sola immagine…Non ragiona puù, non si vive più in un mondo reale, ma in un
mondo abitato da un solo essere, o meglio da una sola larva; e se pur non si
conserva un po’ di buon senso. Di lucidezza, l’animo reso fiacco non sa
liberarsi dal peso che l’opprime”.
Non è raro trovare il binomio
amore-morte, permeato da un certo fatalismo pagano; dell’amore che unisce Tecla
di Villa Florida e il Nibbio, egli scrive:
“iul destino aveva esaudito i loro
voti, aveva svelato a lui il cuore di lei, a lei il cuore di lui, li aveva
presi per mano e guidati verso l’abisso ove era l’amore, ma ove era anche la
morte”.
Il rapporto amoroso non è quindi
quasi mai lineare e statico e comporta un ostacolo esterno: spesso la famiglia
di uno o di entrambi. È presente, inoltre, il tradizionale triangolo della
letteratura, in cui l’ostacolo all’amore tra i due protagonisti è costituito da
un rivale. Mancano invece i sentimenti sottili e contrastanti e le implicazioni
psicologiche tipiche della “narrativa maggiore”. Il triangolo amoroso non si
conclude mai col trionfo dell’amore e il conseguente matrimonio, ma la presenza
del rivale conduce sempre a situazioni tragiche di cui è facile prevedere la
fine.
Tragicamente si conclude il triangolo Anna-Marcella-Giacomo, in cui Anna, mossa
dalla gelosia, dapprima denuncia Giacomo ai carabinieri, poi lo pugnala a morte
ed infine si uccide. Addirittura la gelosia fa pronunciare ad Anna:
“Ah, Madonna mia, fa che un toro la
incontri nel suo cammino e le rompe il petto a quella origine di ogni mia
sventura”.
Ugualmente avviene nel racconto Maria Monaco, in cui Maria uccide la sorella
Filomenea che è diventata amante di Pietro, suo marito. Così avviene ne Lo stendardo di San Rocco, come pure
in Cola il Lupo e in altri
racconti. Nella trilogia di romanzi
aventi per protagonista capitan Riccardo, il triangolo amoroso ha un lieto
fine; lo scioglimento della vicenda si ha comunque con la morte, anche se
naturale, di uno dei componenti il triangolo, la regina. In un solo racconto, Mentre piove, nella relazione a triangolo
troviamo la rassegnazione di uno dei protagonisti. Domenico dice infatti ad
Agata:
“Sposa il tuo mugnaio, Agata. Tu
l’hai amato, egli t’ama. Sposa il tuo mugnaio. Addio”.
L’ostacolo all’amore è rappresentato
qualche volta anche dal padre della ragazza. Il Misasi, seguendo l’esempio
verghiano, cerca sempre di calare l’argomento delle sue opere nell’ambiente in
cui vivono i personaggi; nei suoi racconti troviamo, infatti, un’usanza tipica della
famiglia patriarcale calabrese e meridionale in genere: il matrimonio-
contrattazione. Tale costume è citato nella novella Cola il Lupo, in cui il
padre di Anna, ponendo fine al colloquio con il massaro Santo, il sensale,
dice:
“Do duecento ducati, il letto e il
corredo, Peppe il guardiano (il padre dello sposo) farà donazione del suo
fondo”.
Allorché il massaro Santo domanda al
massaro Antonio se Anna è favorevole alle nozze, il padre della ragazza afferma
con decisione:
“Mia figlia non ha altra volontà che
la mia. Se conviene a me converrà anche a lei”.
Il valore religioso ew morale che la
famiglia assume nei racconti misasiani è sottolineato dalle parole di alcuni
personaggi femminili che, per non venir meno all’aobbedienza e al rispetto,
sacrificano il loro amore, subordinandolo agli obblighi patriarcali. Per tale
motivo Anna soffoca i propri sentimenti verso Cola e lo avverte con le seguenti
parole:
“Se tata si sveglia e ci sorprende ce
la farà pagar cara”.
Nel romanzetto Marito e sacerdote è menzionata un’usanza tipica del
passato:
“Fidanzata fin dal nascimento a
Demetrio, la Serafina, cui la madre era morta, veniva custodita con gelosia
nella più riposta stanza della casa paterna, e non usciva che la domenica per
andare alla messa nella Chiesa del villaggio”.
L’obbedienza non è comunque un dovere
cui è sottoposta esclusivamente la donna. Infatti, Filippo Cavalcanti:
“sebbene avesse studiato nelle
pubbliche scuole, e avesse viaggiato, e fosse stato a contato di tanta gente,
aveva conservato integre le virtù familiari dei suoi padri, prima delle queali
il rispetto, l’ubbidienza ai genitori”.
Indicativo di un certo ambiente
retrogrado tipicamente meridionale, sono le parole del barone di Polia, un
ricco signorotto “defraudato” dell’eredità dal proprio cugino, rivolge al
figlio che si era rifiutato di collaborare al rapimento della nipotina del
cugino:
“Se tua madre non fosse una brava
donna, o meglio, se fosse possibile che una donna di casa nostra venisse meno
all’onore suo, io crederei che ella ti generò con chi sa quale pezzente. Già
son questi gli effetti del Sessanta; lo diceva io che ne sarebbe andato
travolto ogni buon principio, ogni domestica virtù, che i figliuoli educati
dalla Rivoluzione si sarebbero ribellati al padre anche contro il loro
interesse. Perché, infine, se io cerco di riavere quel che ci fu tolto non è
pel tuo vantaggio, per accrescere la potenza e la ricchezza della tua casa e
perché un giorno il tuo figliolo possa calcare il piede sul collo di
quell’eretico del quale, sciocco che fui, ti obbligai a sposare la figlia. Non
fu garibaldino? Non congiurò contro i suoi re legittimi´non è nemico acerrimo
del Papa e della Chiesa”?
Talvolta si trova il binomio
amore-stregoneria:
i personaggi, spesso poveri e rozzi montanari, credono facilmente all’
“istoria di una strega che aveva dato
a bere non so che cosa a un giovane, il quale ebbe come una vampa nelle viscere
e nelle vene”.
‘Ntonuzzo, in Capanna di carbonaio,
non ha dubbio alcuno di essere stato stregato dalla donna di Peppe, il suo
padrone:
“La vista gli si faceva torbida e
sentiva certe ondate nel cervello e nel sangue”.
Nelle parole di ‘Ntoni si riflettono
antiche credenze popolari calabresi:
“Ora non so far più nulla, ora non
dormo più. Ora sono scontento di tutti e di tutto. Me l’hai fatta tu la
stregoneria: e, per la Madonna, bisogna che me la levi. Peppe mi ha detto che
quando una femmina una stregoneria fa d’uopo che una tale femmina sia tutta
dello stregato, anche per un solo giorno. Tu mi hai fatto il male e devi guarirmene”.
Così Cola confessa ad Anna il suo
amore:
“La vecchia Orsola ti avrà insegnata
qualche arte diabolica! Quando sono sulla montagnati ho sempre davanti agli
occhi e ne ho rabbia e piacere insieme”.
In questo modo il cavaliere Riccardo
Lancia spiega la sua passione per Carmela:
“Ci sono delle vecchie… l’anno scorso
me ne fu additata una, che infliggono sette spille in un cuore d’agnello e
fanno certi diabolici scongiuri…Quando il cuore di agnello diviene putrido, il cuore di chi si vuol fare schiavo
incomincia a soffrire…come io soffro”.
Analogo motivo è contenuto in Sacrificio d’amore, in cui comare Rosa ricorre alle
arti magiche per far ritornare a lei l’antico amante; il Misasi racconta:
“Una sua comare era famosa nel
dintorno per far delle stregonerie; ed
era andata dalla sua comare che si era mostrata disposta a spendere in favore
di lei tutta l’arte sua. In un cuore d’agnello aveva infisso sette aghi
mormorando certe parole; poi l’aveva avvolto in alcuni cenci e l’aveva
seppellito al piede di un albero, e sulla terra smossa aveva sparso il sangue
di un gallo allora ucciso. E aveva pagato venti lire per questo, e la comare le
aveva detto che stesse sicura che l’uomo così fatturato avrebbe l’istesso
giorno fatto ritorno a lei”.
Parallelamente alla figura della
“magara”, è presente anche quella della zingara che fa “mutare l’odio in amore
e l’amore in odio”.
L’amore è considerato a volte opera
del diavolo; Elisabetta, uno dei personaggi minori de L’assedio di Amantea,
così confessa al suo amante:”Che vuoi? È una fatalità, è lo spirito del male
che mi è entrato nelle carni. Ed io sono andata in chiesa, un giorno che mio
marito era assente, per farmi esorcizzare, ma invano, ma invano”.
L’amore si presenta anche in forma di
carità verso il prossimo: un esempio ne è la generosa ospitalità da parte del
massaro Giovanni nei confronti del vecchio Francesco:
“Io benedico il Signore allorché
manda quel vecchio al mio focolare”.
Oltre all’amore verso il prossimo è
presente anche l’amore verso la famiglia. Esso lega i componenti di una stessa
famiglia e porta spesso a vendette e ad uccisioni a catena.
Anche il culto dei santi rientra
sotto il motivo dell’amore. Ecco quello che scrive il Misasi in Giosafatte
Tallarico:
“Da noi la predilezione per questo o
quel santo, per questa o quella Madonna assume proporzioni grandissime, e
spesso si fa alle schioppettate o alle coltellate e si uccide o si è uccisi per
sostenere la supremazia del santo preferito. Nel vallo casentino si venerano
due crocefissi, quello della Rinella e quello della Riforma, or fan dieci o
dodici annii devoti dei due crocefissi, vennero a contesa a proposito dei
miracoli dell’uno e dell’altro. Il nostro crocefisso della Riforma ne vuole
quattro del vostro della Rinella, dicevano gli uni. E il nostro della Rinella
se lo mette in tasca il vostro della Riforma, rispondevano gli altri. una
domenica si venne alle mani, circa 500 contadini in due schiere erano risoluti
a fare un m,massacro in onore e gloria del crocefisso pel quale parteggiavano”.
L’autore aggiunge un commento
personale a questo tipo di culto:
“Fra le stranezze umane questa che
concilia la devozione, il sentimento e il culto religioso con la rapina,
l’assassinio e il padroneggio, mi è stata sempre inesplicabile”.
Ma la “stranezza” avvertita
dall’autore non è poi del tutto inesplicabile; questa forma di religiosità è
piuttosto da collegare a quel fondo di paganesimo e di politeismo radicato
nell’animo meridionale, che considera Dio un potente alleato contro i propri
“nemici” e che vede nei santi la moltitudine di dei che affollavano l’Olimpo.
La superstizione religiosa del popolo calabrese descritto nelle opere del
Misasi dà origine a situazioni quasi grottesche, come nell’episodio del
Santoro, il difensore di Longobucco durante l’invasione dei Francesi, il quale
“prima di muovere coi suoi per Acri e
di lasciare sguarnito Longobucco, da buon generale volle che per ogni evento
non riannesse indifesa, onde si diede a girare per le chiese e armò di fucili, di pugnali e di pistole le statue dei
santi”.
L’autore commenta che
“era sconcio e risibile insieme il
vedere una Madonna con uno scoppio ad armacollo, un san Francesco di Paola che,
non il tradizionale bastoncello, ma aveva tra le mani una affilata scure, e
nella corda che stringeva alla vita infilzati due pistoloni”.
In tutta l’opera dell’autore di
Cosenza si trovano varie manifestazioni di religiosità; oltre a quelle esposte,
ce n’è una che ricorda l’antica fede, comune ai cristiani e ai musulmani, nel
martirio religioso. A proposito della
guerra combattuta da sanfedisti e da borbonici contro i Francesi, la
moltitudine degli assediati in Amantea riconosce che
“aspettando il nemico era utile anche
rendere propizio il Cielo alle armi della santa causa e assicurare alle anime
di coloro che sarebbero morti per essa, la gloria del paradiso”.
Forster afferma che il cibo ha poca parte nella narrativa. Nei racconti
dell’autore calabrese il sedersi a tavola non è un fatto mondano, ma vuol dire
realisticamente sentir “il batter dei cucchiai e il ciucciar dei contadini
affamati”.
Tale motivo della realtà umana è nel
Misasi un elemento di caratterizzazione ambientale e sociale inteso a mettere
in evidenza la povertà dei personaggi dei suoi romanzi, i quali sono quasi
sempre contadini o servi di contadini. Per contrasto è però presente anche la
descrizione di qualche pranzo delle persone agiate. Sono tre gli strati sociali
cui appartengono i personaggi del Misasi: i galantuominio
borghesi, i massari e i contadini. A ognuna di queste categorie corrisponde un
tipo differente di alimentazione. Al giovane ‘Ntonuzzo, ad esempio, il suo
padrone “dava da mangiare pane di segala, di lupini, di castagne; qualche volta
patate lesse, sovente castagne bollite”.e
la baronessa di Montalto, che cooemnta il Misasi ironicamente, “per
dire il vero, era un cuor d’oro”,
getta al piccolo Andrea, figlio di un contadino, “un pezzo di pane raffermo”..
l’autore riferisce un detto popolare:
“L’han messo a pane bianco”,per
significare che la persona in questione sta per morire, a riprova egli scrive:
“si diventa ghiottoni in punto di
morte: si vuole la leccornia, si vuole il cibo squisito, si vuole andare al
mondo di là con la bocca dolce; il contadino che muore, vuol gustarla anche lui
questa ineffabile felicità del signore, del ricco, del “galantuomo”, un pezzo
di pane, bianco come la neve, leggero, poroso, morbido, rosolato nella crosta.
Per tanti e tanti anni si è cibato di pane di lupini, di orzo, di castagne,
duro, pesante, secco, aspro, che scortica la bocca, che fa male ai denti, e che
pesa come piombo nello stomaco. Sarebbe curioso se un giorno quei tali
contadini che lavorano e muoiono coltivando i campi di quella splendida
signora, da noi ammirata nei teatri e nelle feste, la obbligassero, tanto per
ridere, a mangiare per un giorno il loro pane!”.
L’accenno alla bassa qualità e alla
scarsità di alimentazione nelle campagne e sui monti silani rivela le istanze
sociali dello scrittore. La denuncia della situazione del mondo contadino,
anche se non apertamente polemica, è facilmente intuibile anche dalla
descrizione di un pranzo presso i baroni di Montalto:
“Per tutta la notte la casa risonava
di voci, di canti, di suoni, mentre nello spiazzo davanti la porta i contadini
ascoltavano appuntando gli occhi per vedere dalle aperte finestre, vivamente
rischiarate, i signori convitati rimpinzarsi di dolci e tracannar colmi
bicchieri di liquori portati in giro da servi su vassoi d’argento. Anche essi
però pigliavano parte alla festa, ché la baronessa faceva generosamente
distribuire gli avanzi del pranzo imbandito agli amici: le croste dei pasticci,
le lische dei pesci, le salse, i dolci raccolti e mescolati in un gran bacile.
I contadini facevano le boccacce al sapore di quei cibi nuovi e strani, ma
ingoivano quella roba con una certa voluttà, per poter dire che anche essi,
almeno una volta in vita, avevano mangiato cibi da signori”.
Del resto anche i massri godono di
una certa agiatezza, riscontrabile, ad esempio, nella descrizione di un pranzo
presso il massaro Antonio:
“Dopo le lasagne e mentre Anna
versava in una grande scodella la carne di capra, Antonio diè di piglio alla
brocca del vino e la porse al compare”.
Il cibo può avere in alcuni casi
anche la funzione di caratterizzazione ambientale. Nel racconto Cola il Lupo è descritta tutta la preparazione
del cibo da parte della protagonista e tale descrizione risponde senz’altro a
una esigenza di realismo dello scrittore. Ella aveva
“sparse ad asciugare le gialle
lasagne, cibo di rito nelle grandi occasioni…andava e veniva dal focolare al
desco; or chinandosi a rimestare nel fumante calzerotto, or riponendo il pane
ferrigno, la brocca col vino e forchette di legno sulla tovagliola di tela
greggia…Infine prese col mestolo un filo di lasagna, l’assaggiò per darsi conto
del grado di cottura…[ prese] dalla rastrelliera un gran bacile di creta, e
accoccolata sul pavimento versò le lasagne scolate nel bacile… poi dalla
casseruola prese a grandi cucchiaiate il sugo nericcio dello stufato e lo versò
sulla minestra incaciata ben bene”.
talvolta l’inserimento del motivo
suddetto è un pretesto alla narrazione di qualche racconto: intorno a una
fumante zuppa o a un fiasco di vino c’è sempre qualcuno che si lascia tentare
dalla propria vena narrativa, invitato anche vivacemente dagli altri commensali
che seguono con grande interesse lo svolgimento della narrazione, spesso di
contenuto amoroso. È il caso di Storia
d’amore, un brevissimo racconto con finale drammatico. Questa è la cornice che
introduce il narrare del vecchio pescatore:
“Dal mezzo dei pescatori, accoccolati
intorno al fuoco, fra le due pietre s’’alzava il fumo nell’etere che rarefatto
tremolava; strideva il pesce nella padella, e il vecchio, quasi carpone,
soffiava fra le due pietre gonfiando il pesce e le guance; uno dei giovani
stendea sull’arenile il tovagliuolo con
le vivande rifredde e la cocoma del vino. In un altro focherello, acceso più in
là, bolliva con sordo rigoglio il pesce nella casseruola, ché a lui, famoso in
tutto il litorale da Pizzo a Troppa, per la zuppa e la frittura, spettava
l’alta direzione della cucina. Quando la zuppa fu al punto, in un largo bacile,
colmo di pane affettato, si riversò il contenuto della casseruola; poi il
bacile fu deposto nel mezzo del tovagliolo steso sull’arena”.
Altro elemento che E.M Forster definisce fatto principale della vita umana
è il sonno. Esso, però, non essendo un
elemento dinamico, viene quasi sempre dimenticato dai narratori. Nel racconto Capanna di carbonaio vi è la descrizione di
massara Giovanna e la visione della donna addormentata non fa altro che acuire
la passione del ragazzo che
“all’incerto barlume delle braci.
Vedea sotto le coltri delinearsi quel robusto corpo di donna”.
La ripetuta descrizione della donna
che “supina, russava”, mentre le coperte scivolavano facendo vedere “metà del
seno e delle spalle”porterà
‘Ntoni al delitto.
Il motivo della nascita, nei rari casi in cui viene
adoperato, è inserito quasi sempre in un quadro drammatico. La nascita del
piccolo Giorgio (il futuro Nibbio) ne L’assedio
di Amantea), provoca la morte della madre che è stata violentata durante l’assenza
del marito. Ella, con paura e orrore insieme, mormora a se stessa:
“Sentirlo qui, vivere nelle mie
viscere, perché io lo sento; perché ei vive in me come io vivo in lui, sentire
la ineffabile gioia di una tale parola e rabbrividire, rabbrividire di
vergogna, di spavento quando egli si agita nel mio seno! Ed è lui che mi grida
l’infamia; è lui che insozza il mio corpo. oh, disgraziato, oh disgraziata!”.
Nel momento in cui Pietro di
Roccanera, marito di donna Lucia, sta per entrare in casa dopo un anno, si
sente “un grido acuto di dolore” della donna e poco dopo “il vagito di un
neonato…nel silenzio profondo”.
Anche la nascita di Stefano in Devastatrice è “un prodotto della violenza”; ecco
come viene narrata:
“Dopo otto mesi dalla morte di Don
Ruggero era nato Stefano, che la madre sin dal primo giorno mandò a balia in un
paesello vicino, contro la consuetudine anche delle nostre più cospicue
signore…Le pochissime persone che frequentavano la casa della giovane vedova
lasciavano comprendere con mezze parole, con lo scrollare il capo e col giuoco
espressivo della fisionomia che la nascita di quel figliuolo non era stato
punto di consolazione alla madre; e la levatrice giunse anche a confessare ad
una sua amica, la quale poi la confidò sotto il suggello della confessione a
tutte le sue conoscenti, che donna Maria quando la levatrice le porse il
neonato perché lo baciasse lo aveva respinto da sé con un grido di orrore”.
Analogo motivo è contenuto ne Il tenente Giorgio: anche Maria, figlia della marchesa
di Monserrato, è nata dall’inganno. Commentano i contadini che
“quando si sgravò la Marchesa, quasi
nessuno se ne accorse. Il palazzo rimase chiuso, e la bimba fu battezzata alla chetichella:
non spari, non funzioni in chiesa”.
La stessasi Monserrato si rivolge al
vecchio zio del marito che ha ordito il tutto per non perdere il patrimonio,
con tali parole:
“Lo so, non siete voi, animo freddo,
cuori corrosi dalla cupidigia e dalla superbia…che potete comprendere tutti i
dolori, tutte le torture, tutti gli strazi della mia sciagurata esistenza,
quando la figlia delle viscere mie mi cerca i baci e le carezze ed io debbo
respingere, debbo respingere quella innocente creatura che mi fa rabbrividire
di vergogna ad ogni sua parola”.
In una situazione diversa è invece la
nascita di Andrea che
“quantunque insocievole e testardo,
si sapeva che la baronessa non lo avrebbe mai cacciato dal suo servizio, perché
egli era nato nella stessa notte in cui era nata la signorina Bianca, e la
baronessa nei dolori del parto, aveva fatto voto a Sant’Anna di tenere sempre
al suo servizio i nati in quella notte della famiglia contadinesca a lei
soggetta”.
Come precedentemente esposto, in
questo autore sono frequenti i personaggi orfani del padre o della madre, ma
non sono infrequenti neppure quelli di natali ignoti. Spesso di un personaggio
egli scrive, infatti, che non ha “mamma, non parenti, non nessuno”.
Nella novella Il povero Rospo il nostro autore si esprime nei
confronti di Rospo, il protagonista, nel seguente modo:
“non si sa di chi sia figlio”;
in tale racconto, anzi, lo scrittore
affronta il problema dei figli illegittimi con il fine specifico di spronare
“l’economia a studiare certi gravi problemi sociali”.