Una tematica affascinante:
il brigantaggio, di Maria Lorella
Nel periodo in cui vive il Misasi, il
fenomeno del brigantaggio è ormai quasi del tutto spento; tuttavia è ancora
vivo il ricordo di briganti generosi coi deboli e crudeli coi potenti, di briganti
che vendicano il popolo oppresso, che impongono ai signori un’equa ripartizione
del suolo e dei prodotti della terra. Nel libro intitolato Il gran bosco d’Italia, opera in cui l’autore
calabrese sintetizza tute le osservazioni sulla Sila e il brigantaggio già
espresse nelle novelle e nei romanzi, è messo in luce quel clima di attese e di
speranze che accompagnò il brigantaggio. L’autore, infatti, scrive:
“La tradizione ha conservato il
ricordo di alcuni briganti, buoni coi deboli e coi poveri, fieri e crudeli coi
ricchi e i potenti. Ci ricorda briganti che toglievano al ricco per dare al
povero, che avevano preso i boschi per farsi i vendicatori del popolo
sofferente e giustizieri inesorabili e imparziali; briganti che dotavano le
fanciulle povere; che pagavano il cambio all’unico figlio di poveri contadini;
briganti che imponevano al ricco signore, burbanzoso ed avaro, d’essere equo
nelle ripartizioni delle derrate ai coloni; briganti che la notte picchiavano
alla porta di un tugurio e partivano dopo aver deposto sullo scalino una borsa
colma d’oro, che servir dovea al contadino minacciato di sequestro per pagar le
tasse o il fitto al padrone”.
La figura di Giosafatte Tallarico, ad
esempio, rappresenta il brigante buono e generoso che lotta contro ogni sopruso
e prepotenza dei forti e con la sua posizione a favore dei deboli conquista la
simpatia del lettore, nonché quella dei suoi contemporanei. Ne sono
testimonianza le parole del Misasi:
“Il certo è questo, che il suo nome,
nome di malfattori, qui da noi è ricordato con lode più che con biasimo, come
quello di un protettore del povero contro il ricco, del debole contro il
forte”.
Il brigantaggio, come fenomeno
sociale e politico, è una componente essenziale dell’opera misasiana. Il nostro
autore, già nella prima giovinezza, era stato vivamente impressionato dal
brigantaggio. Egli trae la materia dei suoi racconti dalle leggende narrategli
e dalla lettura degli atti processuali osservati negli archivi del tribunale di
Catanzaro. Il brigantaggio aveva influito sulla sensibilità del Misasi ragazzo.
Egli ricorda:
“O dolci tempi della mia adolescenza,
dolci serate trascorse a sentir la zia Nicolanna, una vegliarda che ricordava i
Francesi e la guerra al coltello combattuta per dieci anni nelle nostre montagne,
narrar le audaci imprese brigantesche, le storie truci e insieme pietose che
poi dopo molti anni germogliarono nelle mie novelle e nei miei romanzi, poveri
d’arte, ma non di sentimento armonioso per la mia povera terra che volli far
conoscere nelle sue miserie, nei suoi vizi, nelle sue colpe, ma anche nelle sue
virtù, nelle sue sventure, nei suoi eroismi”.
Sulla strada Catanzaro-Cosenza, egli
ebbe come compagna di viaggio la banda Perrelli ed assistette ad un assassinio
commesso dagli uomini della banda. Del brigantaggio, all’epoca del Misasi, si
discute ancora come di una cosa viva e presente e le molte croci sui valichi
silani sono la manifestazione vivente di un passato ancora vicino. Molti miti e
leggende sono, infatti, legati all’altipiano calabrese e le stesse parole del
Misasi ne danno testimonianza:
“Le foreste fosche ove la notte urla
il lupo; i monti nevosi che adergono al cielo le cime ove lo sparviero ha il
nido; le caverne profonde ove le vergini rapite udirono parole d’amore
frammiste alle bestemmie e scoppi di baci frammisti a’ gemiti di dolore, e
vider lampeggiar d’occhi accesi di passione e lampeggiar di pugnali alzarsi per
ferire; le valli profonde ove la fantasia popolare ha visto vagare nei tramonti
malinconici le fate bianche e gli spiriti dei dannati che vanno errando intorno
le croci elevate nei luoghi, e son molti i luoghi che han croci, ove lasciaron
sola la carne uccisa da un colpo di scure o di fucile: tutto ciò fa parte della
grande leggenda silvana che si frastaglia in cento racconti, i quali hanno per
ero un bandito, e per passione un odio od un amore”.
La tradizione ha creato, appunto, una
specie di epopea brigantesca ed ha conservato il ricordo di briganti generosi
coi deboli e crudeli coi potenti. Lo scrittore ricorda che la madre, mentre lo
accarezzava da bambino, lo chiamava teneramente “brigantellu miu” e che i
ragazzi nei loro giochi, si dividevano in due schiere, soldati e briganti, e
quelli a cui toccava la parte del soldato rimanevano imbronciati ed irati.
Il Misasi esalta il brigantaggio
politico e i briganti, che considera eroici difensori della famiglia e della
tradizione; nei Francesi, invece, vede lo straniero che calpesta la patria e
violenta le donne; nei repubblicani e liberali vede soltanto i complici dello straniero.
Il popolo calabrese
“fece buona accoglienza ai Francesi”
però
“in breve la soldatesca prepotente,
d’indole superba, la boria dei capi, l’ingordigia del conquistatore
incominciarono a pesare sui vinti. Quantunque nei loro proclami molte e continue
furono le lusinghe, le promesse, le proteste di stima e di amorevolezza;
quantunque si parlasse in nome della libertà, della fratellanza e uguaglianza,
parole che dovevano acclimatarsi fra noi e servire al farabuttismo politico dei
nostri tempi, ben altrimenti agivano, ben altrimenti si mostravano coloro che
di tali parole facevano pompa… Le tradizionali costumanze furono derise, derisa
la religione, derise le pie credenze; e il giogo a poco a poco si aggravò sul
collo dei vinti… Né tanta oppressione
infieriva soltanto sulla cosa pubblica, ché anche le domestiche pareti
ne risentivano. I soldati, nei borghi, atterrate le porte, entravano nelle case
a comandar ricovero e vitto, pretendendo lauti pranzi, soffici letti, e sotto
gli occhi dei padri, dei mariti, dei fratelli, amore dalle donne”.
Un simile contesto di avvenimenti e
di situazioni, provoca per il Misasi, come logica conseguenza, il fatto che
“in breve tempo Calabria tutta
incominciò a gemere, la vita ai conquistati divenne insopportabile, e i cuori
si infiammavano d’odio feroce”.
Alcune persone,
“nate al delitto, seppero spalmare di
patriottismo le proprie turpitudini, ed oggi menan vanto di liberalismo puro
che in linea diretta fan discendere dall’invasione francese, durante la quale
essi, i liberali, i patrioti, furono le spie, le più immonde delle spie, quelle
che favorirono lo straniero dei propri concittadini; furon gli alleati, i più
sacrileghi che all’invasore straniero ingordo e brutale facilitarono le
turpitudini a danno della loro patria”.
L’autore cosentino attesta che
“non pochi furono quelli che
parteggiando per le nuove idee importate dagli stranieri, eran mossi da onestà
di propositi e generosità di sentimenti: e volevano che la libertà non fosse un
vano nome”.
Il Misasi, quindi, nonostante le sue
frecciate contro i liberali, non fu né un reazionario né un filoborbonico,
anche se da alcune osservazioni lo si potrebbe definire tale:
“Beati tempi quelli in cui non si era
preoccupati né dalla politica né dalle questioni sociali in cui non si sapea
che fossero società operaie e comitati elettorali; brogli municipali e intrighi
e cabale”.
Le sue affermazioni son dovute
piuttosto ad un errore di valutazione storica. Egli non guardò le cose nel loro
insieme, si fermò al dettaglio e non valutò convenientemente i motivi del
brigantaggio. Non
soltanto i Francesi, ma anche i “galantuomini”, provocarono per il Misasi il
brigantaggio.
“Il brigantaggio –scrive l’autore-
non fu sempre politico, esso fu anche e specialmente sociale, e fa d’uopo cercarne
le cause nell’ambiente che lo produsse, nell’indole, nella tradizione”.
Dalle parole di un brigante si può
intuire la correlazione esistente tra queste due concause:
“Essi vennero qui promettendo
d’abolire i soprusi, le tirannie dei prepotenti, dei ricchi, dei signori, ed
invece essi si son mostrati più feroci, più prepotenti dei signori, in odio ai
quali tu, io, tutti i nostri amici, ci demmo alla campagna.. perché noi fummo
briganti, ricordalo, prima per necessità, poscia per gusto. Ora se avessero
mantenuto ciò che promettevano, libertà per tutti, giustizia pei deboli e pei
forti, allora, sì, non ci sarebbero più briganti per le nostre campagne. Ora
essi furono traditori perché non è vero che ci portarono la giustizia; ci
portarono invece la schiavitù più vergognosa, la superbia, la violenza, e
poiché per questo io mi detti alla campagna, io che ero un buono ed onesto
contadino che un padrone ingordo ammiserì, che un padrone scostumato disonorò
violandogli le sorelle, ed io uccisi il padrone ladro, superbo, scostumato e mi
detti alla campagna, e divenni perciò quel che divenni; sento ora divampare
tutto il mio odio per questa gente superba, violenta, ingorda che è venuta qui
per ammiserirci, per schiaffeggiarci, per violentare le nostre donne, e mi
sento brigante ora contro quegli stranieri, come ora fan cinquant’anni mi
intesi brigante contro il mio padrone”.
Lo scrittore mette in evidenza la
condizione di miseria delle classi lavoratrici e la vita pressoché feudale dei
“galantuomini”; in questo modo egli crea un quadro assai espressivo delle
tristi e penose condizioni della Calabria di allora. Il Misasi non chiude gli
occhi di fronte agli episodi di comune e volgare criminalità, ma pur
considerandoli, non si lascia fuorviare nel suo giudizio. In molti racconti
dell’autore calabrese viene ribadito il motivo principale che produsse il
brigantaggio insistendo proprio sulla miseria, il malgoverno, la prepotenza e
la crudeltà dei signori. Le prepotenze, i soprusi, le angherie dei padroni
fanno sì che i deboli,
“oppressi in nome della legge dei
privilegi e del convenzionalismo sociale”,
trovino scampo e rifugio in Sila.
Sono frequenti gli accenni al sorgere del brigantaggio e brani come quello qui
sotto riportato risultano efficaci, anche se più volte ripetuti altrove:
“La giustizia a quei tempi era un
nome vano e la legge una parola che aveva significato soltanto per i deboli.
Beh, è vero che i deboli alla loro volta divenivano forti quando, stanchi dei
soprusi e delle angherie, si davano alla campagna”.
Un quadro molto espressivo di tale
situazione è offerto da Donna Maria di Santafiora, una delle tante vittime alla
mercé dei potenti:
“Qui da noi la giustizia è un nome,
la legge una parola vuota. Qui da noi domina solo la forza, l’intrigo, il
danaro. Qui si ruba, s’incendia, si uccide e si mena vanto dei propri delitti,
né alcuno osa lagnarsi, neanche le vittime, perché temono danni maggiori. I
giudici, quando non sono complici, sono amici indulgenti; si comprano se
corrotti, si minacciano se onesti; ai gendarmi si chiudono gli occhi con un po’
di moneta, e fino nei sacerdoti del Signore, che dovrebbero difendere i deboli
e gli oppressi, si estende la corruzione. Quante volte il segreto confidato al
confessore fu svelato a chi aveva interesse a saperlo!”.
È frequente nell’autore il tema del
brigante “buono”, costretto a divenire fuorilegge per fatalità, come si può
vedere dalle parole di uno di essi:
“Ognun di noi ha preso la campagna
dopo aver vendicato un’offesa. Io ho sette omicidi sulla coscienza, ma di
nessuno ho rimorso. Mio padre mi ha lasciato in eredità tre vendette e io l’ho
compiute. Quel che noi siamo ci hanno fatto”.
Sempre il medesimo brigante parla dei
suoi rapporti coi galantuomini in questi termini:
“Quando ero un povero contadinello ai
servigi dei marchesi di Macchia, mi si trattava peggio di un cane; ora i
galantuomini mi trattano meglio di un potente signore, mi accarezzano, mi
adulano, si inchinano ai miei voleri. Se tornassi un onesto uomo mi
tratterebbero di nuovo come una bestia da soma”.
Il Misasi non tace che spesso il
brigante era al servizio dei galantuomini, per quanto più volte ripeta che il
brigante combatte contro l’avarizia e le prepotenze di tali galantuomini. Egli
giustifica i briganti col fatto che essi necessitavano della protezione dei
galantuomini per difendersi dai rigori invernali, che non permettevano loro la
permanenza nei boschi silani, e dalle incursioni dei gendarmi e degli
“squadriglieri”. Egli scrive che
“senza le buone e fidate amicizie era
impossibile che il brigante la durasse a lungo l’inverno, la Sila che era il
suo regno, diveniva impraticabile e per la molta neve e per i freddi intensi,
onde faceva d’uopo batter ritirata e nascondersi fino all’estate”.
Perciò
“ognuno della banda aveva il luogo di
rifugio, la casa di un amico che era un galantuomo”.
L’ autore, nella sua analisi del
brigantaggio, accenna anche ai motivi che spingevano i galantuomini a
proteggere e ad aiutare il brigante:
“Primo perché l’influena dei
signorotti dei nostri villaggi era accresciuta dal sospetto che fossero in lega
con una banda brigantesca, secondo perché ci era sempre un nemico da far
uccidere, una loro volontà da imporre, una loro ambizione da conseguire”.
Ai motivi già accennati quale causa
del brigantaggio (quello politico e quello sociale), l’autore ne aggiunge altri
forse discutibili, ma comunque degni di nota:
“Una delle cause del brigantaggio fu
lo spirito inquieto, insofferente del popolo calabrese, popolo eminentemente
fantasioso”.
Il calabrese, secondo il Misasi, è
trascinato alla vita brigantesca da un bisogno irresistibile di indipendenza,
da un
“desiderio sfrenato di viver bene”.