Seneca:
l'intellettuale e il potere
Seneca: l'intellettuale e il potere
Con Seneca si svolge il rapporto tra intellettuale
e potere dispotico con tutte le contraddizioni, insolubili e insanabili,
del caso. Da una parte il narcisismo dell'intellettuale che ambisce
a incidere sulla realtà politica e sociale, presentandosi
come il 'consigliere del prìncipe', detentore della saggezza
di una elaborazione millenaria della cultura. Dall'altra il potere
politico che ha le leve per incidere fattivamente sulla realtà
ma ha anche regole e leggi proprie. Il compromesso tra le due
esigenze può essere deleterio per entrambi: per il potere
quando scade nell'astrattismo e dello snaturamento dalla realtà,
per la cultura quando viene usata dal potere per mantenere il
consenso tra le masse e i ceti intermedi. L'esperimento di Seneca,
se davvero Seneca fece questo esperimento e non voleva solo coprire
sotto alibi 'culturali' e intellettuali o filosofici la propria
organicità a Nero, fu un deciso insuccesso. Dopo aver portato
al trono Nero, questi eliminò - coerentemente con il carattere
dispotico di quel potere - tutti coloro che lo avevano portato
al potere.
Nella situazione di insanabile instabilità politica e sociale
dell'impero romano dell'epoca, Seneca espresse tutte le ambiguità
i limiti e le velleità di un ceto intellettuale rimasto
l'unico a far da diga al potere politico dispotico, dopo la sottomissione
della classe senatorile. Con Seneca fallisce la possibilità
del ceto intellettuale di svolgere una funzione organica al potere
politico. Dopo di lui i 'consiglieri del prìncipe' saranno
liberti e cortigiani, e gli intellettuali potranno solo resocontare
quanto avviene (come nel caso di Tacitus).
Non a caso le cose di Seneca che resistono meglio alla critica
sono quelle scritte da intellettuale e non nei suoi contatti,
diretti o indiretti, con il potere. Queste ultime sono documento
di un'epoca. Così, nei suoi rapporti con Claudius, le due
opere estreme come la "Consolazione a Polybius" in cui definisce
Claudius «forza e consolazione», «splendido come un dio», e cui
augura lunga vita affinché possa «rimediare ai lunghi patimenti
del genere umano. Sempre rifulga quest'astro sul mondo, le cui
tenebre furono ricreate dalla sua luce»; e la satira della "Zucchificazione".
Seneca è riuscito a mantenere nei secoli una notevole fama.
Per un duplice motivo. Proprio per le sue 'incoerenze' nei confronti
con il potere: i regimi totalitari e dispotici ne hanno apprezzato
i comportamenti da suddito, mentre gli intellettuali si sono consolati
con le pose d'oppositore, individualista e narcisista, fondamentalmente
non pericoloso per il potere ma rivendicante comunque la diversità
da quel potere di cui non faceva parte: Seneca l'eroe degli esclusi
dal potere. Mentra dall'altra parte vi sono tutte le caratteristiche
del personaggio-Seneca, l'immagine che ha saputo dare di sé
Seneca e che ha permesso il suo uso da parte di epoche e climi
culturali diversi. Si pensi allo stoicismo senechiano, e alla
sue prove anacoretiste ecc. che trovarono una eco in certi ambienti
cristiano-pauperistici; al moralismo e all'attenzione per le istanze
dell'individuo, che troverà eco in epoche borghesi e romanticiste;
a certi aspetti esistenzialisti, la tematica del suicidio ecc.
Sono tutti aspetti che messi assieme danno anche le linee di un
personaggio eterogeneo, contraddittorio (dunque umanissimo).
Seneca ai nostri occhi, ci appare come un miscuglio di idealità
e realismo. Affascinato dalla morale stoica, la piegò alle
esigenze della vita pratica. In un primo tempo visse quasi da
asceta, attenendosi a un regime vegetariano (pitagorico) da cui
lo distolsero il padre e il timore di essere confuso con gli ebrei
quando Tiberius cominciò le persecuzioni di alcune sette
vegetariane. Pare non amasse il vino, i funghi e le ostriche;
i profumi («il miglior profumo è il non averne alcuno»),
le terme. Ne "La vita beata" (XVI,4) si pavoneggia definendosi
un oceano di difetti, ne "L'ira" (III,36) dice di farsi l'esame
di coscienza ogni sera, nei suoi scritti si presenta come modello
insuperabile di vita e fa il continuo elogio di sé stesso.
Voleva essere un santo, ma esposto all'ammirazione di tutti. Rimproverava
il lusso ma possedeva 500 tripodi di cedro con i piedi d'avorio.
Biasimava gli adulatori e di Nero diceva che «poteva vantare una
virtù che non aveva avuto alcun altro imperatore, cioè
l'innocenza», e che «oscurava persino i tempi di Augustus» (La
clemenza, I,1). Appoggiò Nero tra un matricidio e un assassinio.
Con il suicidio riuscì a consegnare la propria immagine
alla storia, riscattando una vita non certamente monolitica. Fu
forse proprio questo a dargli la maggiore fama, e con il proprio
suicidio scrisse la migliore pagina della sua opera-personaggio.
Tacitus ne parlerà negli "Annali" (XV, 62-64).
Seneca come moralista fu tra quanti, nell'antichità, individuarono
e parlarono di quello che è uno dei limiti dell'uomo, non
riuscire a fare pienamente ciò che vuole; e dire esattamente
quello che pensa e sente. Anche nella scrittura Seneca risulta
a volte confuso, intricato, si ripete, compie passaggi bruschi,
usa vocaboli non sempre appropriati. C'è nel suo stile
un tono oratorio che rispecchia la cultura del suo tempo ma anche
la sua stessa natura: uno stile che non piacque a Quintilianus,
a Fronto, a Gellius. Quintilianus in particolare lo trovava «corrotto
e aperto a tutti i vizi». Una eloquenza molle e effemminata, fatta
di sentenze noiose, effetti seducenti e facili. Quintilianus dice
che solo gli adolescenti lo leggevano; Seneca per lui ebbe grande
cultura ma in filosofia fu poco diligente e preciso. Fu molto
amato invece da Augustinus, Tertullianus, Lattantius. I moralisti
cristiani poi videro una corrispondenza tra lui e Paulus, e si
divertirono con le etimologie ("seneca" da "se necans", cioè
suicida); Alighieri parlerà di Seneca «morale».
Indice Seneca
[1997]
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