Quanto ci manca Troisi, di Renato
Nicolini
Quanto ci manca Troisi, di Renato Nicolini
Il 4 giugno del 1994 moriva, a Roma, ad appena 41 anni Massimo
Troisi. Era nato a San Giorgio a Cremano, vicino Napoli. Iniziò
a teatro con Lello Arena, poi passò al cinema. Cinque le
pellicole fatte come autore, regista e protagonista: Ricomincio
da tre dell’81, Scusate il ritardo
dell’83, Non ci resta che piangere
con Benigni dell’85, Le vie del signore
sono finite dell’87, Pensavo fosse
amore e invece era un calesse del ‘91.
Mi sembra impossibile che siano già trascorsi dieci anni
dalla morte di Massimo Troisi, come la sua morte mi è sempre
sembrata assurda. Agli artisti è spontaneo continuare sempre
a fare domande, perché fanno ormai parte della nostra immaginazione,
del nostro io più interno. Aspetto le risposte dal suo prossimo
film, anche se so che non potrà più arrivare.
Ho incontrato, durante la sua vita, cinque volte Massimo Troisi,
ogni volta in modo molto diverso dalle altre. Non sono stati i soli
incontri, ma la memoria ne è stata assorbita da quelli che,
per me, hanno finito per assumere un valore simbolico.
La prima volta è stato l'incontro di un giovane spettatore
cinematografico, laureato da non molto ma già oltre la soglia
dei trent'anni, ricercatore universitario, segretario della sezione
Trevi Campo Marzio del Pci, con la passione del cinema e con l'intermittente
sensazione, non troppo gradevole, di non conoscere affatto la propria
strada e di stare perdendo tempo, con un film. Ricomincio da tre
mi è sembrato scritto da un fratello, perché narrava
una storia tutta diversa dalla mia (l'emigrante di famiglia era
stato mio nonno Giovanni, ma era ancora l'Ottocento), ma con questo
nucleo intimo, di incertezza, resistenza ed insieme disponibilità
prevalente al cambiamento, in comune. E mentre tutto mutava, il
figlio si sarebbe sempre chiamato, se non Ciro, almeno Ugo. Ho tanto
amato quel film, che il titolo Scusate il ritardo del successivo
mi sembrava fatto su misura per me.
La seconda volta l'ho incontrato di persona. Era il 1981, l'anno
del pieno fulgore dell'Estate Romana e di Massenzio al Colosseo.
Che non fu solo la proiezione del Napoleon d'Abel Gance di fronte
ad ottomila spettatori, rimasti al loro posto anche sotto una lieve
pioggia, ma anche una serie di esperimenti sulla catena che lega
tra loro i diversi settori dello spettacolo ed i diversi aspetti
della vita urbana. Uno di questi furono gli autobus dei comici,
dove potevano salire solo i fortunati possessori di biglietti di
Massenzio sorteggiati, che percorrevano linee d'autore. Rimase memorabile
la visita di Victor Cavallo alla Garbatella. Assieme a Roberta Carraro,
che era responsabile dell'iniziativa, avevamo pensato soprattutto
a Massimo Troisi, che ci sembrava la persona ideale per dare di
Roma una visione inedita, in evidente fuori sincrono rispetto ai
conformismi che spesso l'imprigionano. Roma come può apparire
a chi la conosce per lavoro, la Roma di Cinecittà ma anche
la Roma dei produttori, dei finanziatori, dell'industria e della
passione del cinema. Ma anche la Roma delle sere e delle notti senza
scopo, dove è facile sentirsi soli. Ci incontrammo al tavolo
di un ristorante di Piazza Campitelli, in una bella giornata che
mi pare fosse proprio ai primi di giugno. Massimo mangiò
poco e non bevve vino, a mia differenza. Ascoltò con attenzione
le nostre proposte, fece qualche osservazione non banale, ma non
si fece coinvolgere. Mi dette l'impressione di una persona (Roberta
mi aveva informato di un suo stato di salute già allora non
buona) che si sforzava di non mostrare stanchezza, ma che era attenta
a non sprecare energie, giustamente concentrata sui suoi progetti.
Questi seguivano una strada diversa da quella del mio effimero.
Quegli autobus avrebbero potuto (in un futuro che puntualmente è
arrivato) avere a bordo le telecamere della televisione o ispirare
una sequenza di film. Troisi si concentrava invece, senza dettare
proclami, sul cinema.
Ed è con il Troisi regista di film straordinari, dai titoli
lunghissimi e dissonanti come Sembrava amore e invece era un calesse,
dalle sceneggiature che debordavano, si smarrivano e si ritrovavano,
che però parlavano finalmente, nel mondo delle macchiette,
dei ruoli e delle sceneggiature obbligate, ma sempre a tutto tondo
(in questo vagamente disneyane), della tarda commedia all'italiana,
il linguaggio del frammento e della contraddizione, che ho avuto
il terzo incontro della mia vita. Di fronte a quei film mi comportavo
come quell'omino che, comparendo come logo dell'eccellenza per le
segnalazioni cinematografiche del manifesto, si fa letteralmente
uscire gli occhi dalle orbite mentre applaude freneticamente.
Suggerirei di rivederli tutti di seguito, essendo la disponibilità
di cassette e di DVD una delle opportunità positive del mondo
globale: e spero che ci lo farà condividerà il mio
giudizio di un Troisi che, in quella fase della sua opera, ci dà
uno straordinario ritratto dell'Italia del '900. Dissonante ed acido,
dove la sconfitta e la malinconia non frenano la vitalità,
non dissuadono da nuovi tentativi. Sono piuttosto consapevolezza
del fatto che le idee giuste non si proclamano perché siano
vittoriose, ma più semplicemente perché sono giuste.
E proclamarlo non è tanto una scelta quanto una necessità.
Di fronte alle critiche di quelli che mettono l'ordine al primo
posto rispetto all'inventiva, Troisi avvertiva che la bellezza dei
suoi film non era un impedimento perché questi potessero
essere ancora migliori; e che, per poter dimenticare il cinema di
chi ci ha preceduto, bisogna pur conoscerlo bene. Credo che questa
fosse una delle molte ragioni del sodalizio artistico con Ettore
Scola, che lo ha diretto più di una volta, in film anche
questi piuttosto malinconici (penso a volte che la malinconia sia
la caratteristica dominante della fine degli Anni Duemila in Italia),
che parlavano della solitudine, della pioggia, del tempo che non
trascorre mai, del servizio militare, dei difficili rapporti tra
le generazioni; o trasferivano indietro nel tempo quest'atmosfera,
come ne Il viaggio di Capitan Fracassa. Il set del capitan Fracassa
è stato il luogo del nostro quarto incontro. Ettore mi aveva
affidato un piccolo ruolo, quello di un aristocratico nero d'animo,
di cuore e di vestiti. Massimo al contrario vestiva il bianco costume
di Pulcinella, introdotto a forza nella storia del Conte di Sigognac;
ed era, più di questi, il vero protagonista, il centro nascosto,
del film. Facendo irrompere un'altra tradizione, quella del Sud,
della maschera napoletana, della materialità della vita,
tra le ombre ottocentesche di Teophile Gautier. Sul set lo ricordo
attento, concentrato, desideroso di imparare in tutta modestia e
con quella squisita cortesia di chi, anche in una situazione impegnativa,
è naturalmente portato a non ignorare gli altri, cui offre
un'allegra cordialità.
L'ultimo incontro l'ho avuto quando Massimo ormai ci aveva lasciato.
Napoli (dove ero stato chiamato da Bassolino) era ferita dalla sua
morte avvenuta solo pochi mesi prima, e reagiva sentendolo come
una presenza sempre viva. È stato allora, attraverso i luoghi
dov'era nato e vissuto, che ho capito (o forse ho soltanto creduto
di capire), la sua anima. Che vedo come una città disposta
spettacolarmente a guisa di palcoscenico, affacciata su una natura
di commovente bellezza, ma che insieme si nasconde ed invita al
segreto.
Pubblicato su L'Unità, il 04.06.2004
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