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Gli intellettuali e il cinema all'inizio della storia del cinematografo


Gli intellettuali e il cinema all'inizio della storia del cinematografo

All'inizio il cinema era un fenomeno da baraccone. Il suo successo tuttavia attrasse l'attenzione degli intellettuali, che verso di esso guardarono all'inizio con sufficienza e disprezzo. Tanto più che esso non veicolava ancora quegli interessi finanziari e non dava tanto lavoro come avverrà in seguito. E' una situazione che tende a modificarsi già intorno alla metà degli anni '10. Già la fotografia aveva mutato a metà del XIX secolo la percezione visiva del mondo; ora il cinema si apprestava a una nuova rivoluzione dello sguardo.
Il cinema era visto come un teatro, ma meccanizzato, in cui la macchina prevaleva sull'uomo. Indicativo da questo punto di vista un romanzo come i "Quaderni di Serafino Gubbio operatore" (1915) di Luigi Pirandello: il documento più alto del rifiuto del cinema da parte di uno scrittore europeo. Serafino Gubbio è un operatore cinematografico. Leggiamo il brano in cui scende nel reparto fotografico della Casa di produzione per la quale lavora:
«Qua si compie misteriosamente l'opera delle macchine. [...] Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d'una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle per il bagno. [...] La vita ingojata dalle macchine è lì , in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telai. [...] Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un'altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso. [...] Siamo come in un ventre, nel quale si sta sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica. [...] E quante mani nell'ombra vi lavorano! C'è qui un intero esercito d'uomini e di donne: operai, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinari, ai prosciugatoi, all'imbizione, ai viaggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi. [...] Basta ch'io entri qui, in quest'oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio 'superfluo' svapori. [...] Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un'apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono a uomini che non sono più ; che qui sono condannati a esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch'esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m'invade tutto l'orrore della necessità che mi s'impone, di diventare anch'io una mano e nient'altro».

A parte i futuristi, tutta la cultura intellettuale italica dell'epoca si poneva in rifiuto della realtà meccanizzata del cinema. In Pirandello e nei migliori c'era certo il rifiuto dell'alienazione della realtà industriale; nella maggior parte il preconcetto per tutto ciò che era nuovo e apparteneva alla massa delle gente. Un atteggiamento molto diffuso in europa. Era anche vero che i prodotti iniziali del cinema erano decisamente rozzi. Con il passare del tempo si dovette riconoscere l'impossibilità di sopprimere il cinema. Enrico Thovez, critico intelligente, dovette ammettere che a dare nome al XX secolo non sarebbero stati Marconi o D'Annunzio: esso «sarà semplicemente il secolo del cinematografo [...] esso è veramente il simbolo della mentalità e della vita moderna». Il problema nel dibattito diventa allora quale posto assegnargli nella gerarchia delle arti, senza nuocere al teatro. Interessante un lungo saggio di Gozzano, "Il nastro di celluloide e i serpi di Lacoonte" (1916). Gozzano nega che il cinema possa essere un'arte ma pensa che «come industria [...esso è] quello che si sforza di far dell'estetica e [...] raggiunge, qualche volta, un attimo fuggente di vera bellezza», offrendo poi alle persone intelligenti «altre cose»: la cronistoria settimanale, il dramma desunto dal romanzo d'appendice, «la 'film' poliziesca, fantastica, a trucchi sensazionali; paesaggi esotici, quasi viaggi a poco prezzo in terre a cui non andremo mai». Non arte, ma un suo succedaneo, che poteva avere anche una funzione sociale. Man mano che il cinema avanza, sorgono nuovi problemi. Offerte di collaborazione ai letterati; insorgere di problemi nuovi come quello giuridico del diritto d'autore; dibattiti cui partecipano nomi in vista della cultura 'alta' del tempo. A un dibattito del 1913 sul «Nuovo Corriere» di Firenze presero parte tra gli altri Bracco, Martoglio, Prezzolini, Marinetti. Nel 1916 Antonio Gramsci in un articolo su l'«Avanti!», scriveva: «Non v'è dubbio che gran parte del pubblico ha bisogno di divertirsi [...] con una pura e semplice distrazione visiva; a soddisfare questa esigenza il teatro si è industrializzato. Salviamolo depurandolo dai cattivi autori e dei cattivi spettacoli riservando il cinema al divertimento, come il cabaret e il varietà , e ridando al teatro la sua funzione naturale di arte». Un po' come fornicare con il cinema ma disprezzandolo come si fa con le prostitute.
Intanto nel 1909 Yambo, cioè Enrico Novelli, giornalista e noto scrittore per l'infanzia, divenne direttore artistico di una importante Casa cinematografica. Lo stesso anno Roberto Bracco e Salvatore Di Giacomo firmarono contratti di collaborazione. Nel 1910 la Milano-Film vantava tra i suoi collaboratori scrittori di prestigio allora come Enrico Annibale Buti, il novelliere e commediografo Giannino Antoni Traversa, Domenico Tumiati. Nel 1912 e nel 1913 Nino Oxilia sceneggiò vari films tra cui uno tratto da "Addio giovinezza", che era tra i maggiori successi teatrali. Lo stesso Gozzano compose scenografie. E naturalmente ci fu D'Annunzio. Come era passato dalla lirica al romanzo e poi al teatro, seguendo il mutare del gusto ovvero della 'domanda', si servì del cinema: servendolo e disprezzandolo. Nel 1911 cedette a un produttore il diritto di sceneggiare sei sue opere. Nel 1913 si assunse la paternità del film "Cartagine in fiamme" che ribattezzò "Cabiria", e di cui rivendette le didascalie. Compose altre didascalie tra il 1914 e il 1921. Ma in una lettera all'editore Treves scriveva: «"Cabiria" è quello che il buon Pascarella chiamerebbe una boiata: è un saggio ironico di arte per la folla arida e melensa». Nello stesso anno denunciò in una intervista «l'esecrabile gusto del pubblico che riduce oggi il cinema a un'industria più o meno grossolana in concorrenza con il teatro». I più entusiasti verso il cinema furono i futuristi, protesi com'erano verso la «civiltà delle macchine». Con intuizioni anche non malvage. Marinetti scrisse:
«Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono, del grammofono, del treno, della bicicletta, della motocicletta, dell'automobile, del transatlantico, del dirigibile, dell'aeroplano, del cinematografo, del grande quotidiano [...] non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d'informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza».
Ardengo Soffici affermò che i mutamenti prodotti dalla meccanica e dalla chimica stavano modificando non solo le «apparenze del mondo in cui conduciamo la nostra vita giornaliera» ma il nostro intelletto e la nostra psiche:
«Le misure stesse sulle quali si ordinano i sentimenti e i pensieri - lo spazio e il tempo - si trovano per noi considerevolmente alterate [...]. E' un fatto che, per chi corre o vola fulmineamente in un'automobile o in aeroplano, la sua nozione delle distanze e della durata differisce molto da quella che potevano averne gli uomini del passato».



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