Quel motore è intelligente, di Franco Carlini


Quel motore è intelligente

Gli studiosi scoprono l'«Open Content», un nuovo modulo di diffusione delle idee attraverso l'Internet. La società della conoscenza non monetizzata. "Antenati" si pone da alcuni anni all'interno di questa attitudine mentale. Un articolo da Il Manifesto, 17 agosto 2003.

di FRANCO CARLINI

Non c'è solo il software aperto, Open Source, ci sono anche i contenuti aperti (Open Content), i quali vengono creati, distribuiti e scambiati secondo modelli simili a quelli del software, ma anche originali. Ormai il caso dell'Open Content riceve l'attenzione degli studiosi (sociologi, economisti, politologi) perché rappresenta un modello nuovo di diffusione delle idee, senza essere governato dalla commercializzazione e dai profitti. In realtà è un modello vecchissimo e che ora riemerge con forza. Il «Content» viene distinto dal Software nel senso che si può considerare «contenuto» tutto quanto, pur essendo fatto di bit, non è eseguibile: il testo di un romanzo, una musica, delle immagini, l'orario dei treni. I contenuti digitali hanno bisogno di appositi software per essere fruiti (per leggere, ascoltare, vedere), ma sono da essi distinti. Il file con cui questo articolo è stato spedito al manifesto, se «salvato» secondo un formato di testo (txt) può essere letto da decine di software diversi, è un contenuto puro, distinto dal programma eseguibile utilizzato per scriverlo e leggerlo.

Ma cos'è l'Open Content? Una definizione possibile, dovuta allo svedese Magnus Cedergren, suona così: «un contenuto non prodotto per fini di profitto, spesso collettivamente, con lo scopo di renderlo disponibile a ulteriori distribuzioni e miglioramenti da parte di altri, a costo zero».

La gran parte della produzione culturale dell'umanità è stata di questo tipo, almeno finché non si è capito che sulle canzoni di strada e sulle narrazioni collettive si poteva fare soldi, trasformandole in dischi d'autore e in romanzi d'autore. Ma qui ci si occupa specificatamente dei contenuti creati e diffusi in digitale, di solito attraverso l'Internet.

Lo stesso Cedergren, che nella vita fa il program manager all'agenzia svedese per l'innovazione (Vinnova), ha cercato di analizzare le motivazioni dei creatori e distributori di contenuti aperti. Tre gli esempi analizzati, anche con interviste ai loro protagonisti: Open Directory, Vikipedia, e l'archivio di filmati di Rick Prelinger.

L'Open Directory Project è una gigantesca opera collettiva, una sorte di indice del web che non è realizzata da software automatici, ma da migliaia di persone, pare 50 mila, che volontariamente navigano, esaminano i siti e li schedano. Rispetto ai grandi motori di ricerca come Google magari sono meno completi, ma lì dentro c'è dell'intelligenza e delle competenze. Per esempio, scendendo per le categorie di Open Directory si arriva solo a 21 siti segnalati sulle onde gravitazionali, mentre Google offre la bellezza di 38.700 pagine per la stessa frase, ma quelli indicati da Opend Directory sono siti esaminati, valutati e scelti per il loro valore.

Vikipedia, per parte sua, è un progetto altrettanto ambizioso: si tratta di una enciclopedia universale le cui voci vengono compilate da una moltitudine di esperti, utilizzando un apposito software che permette di intervenire e correggere le voci già depositate, oppure di inserirme di nuove. Infine l'archivio Rick Prelinger fa parte a buon diritto dei benefattori della cultura: sono 10 mila filanti, molti dei quali «effimeri», conservati, digitalizzati e resi disponibili al pubblico.

Interrogando gli «attori», in questo caso i produttori dei contenuti di queste iniziative, Cedergren ha steso questa lista delle principali motivazioni alla base del loro impegno generoso: E' stimolante lavorare con gli altri; è importante imparare cose nuove; motivazioni socio-politiche; possibilità di acquistare prestigio; nuove opportunità di business; altruismo, beneficio per l'utente finale.

Come si vede i perché sono vari e mescolati: c'è la gratificazione personale per il lavoro d'ingegno e creativo, ma anche la soddisfazione del sentirsi utili; c'è il piacere che deriva dall'essere riconosciuti come esperti, ma anche generale sentimenti sociali, legati al desiderio di una società più giusta e solidale e colta. Sono stati d'animo del tutto analoghi a quelli che muovono tanti «volontari», ma con una differenza tuttavia: questo avviene grazie a uno strumento come la Rete che prima non c'era e questa stessa rete digitale non è soltanto un utile strumento per fare più facilmente quello che si potrebbe anche fare alla vecchia maniera. Piuttosto l'Internet stessa viene percepita come un valore da difendere e da sviluppare: è insieme utensile e fine della propria attività di condivisione delle conoscenze e delle idee.

L'insieme di queste pratiche, in molti casi, si contrappone, quando esplicitamente, quando di fatto, al senso comune che vorrebbe monetizzare ogni conoscenza. Proprio perché la nostra è una società della conoscenza, come dicono anche i Bill Gates, non c'è nessun buon motivo, si pensa e si dice, per ridurla a società della conoscenza monetizzata. La forza di queste esperienze è tale che contagia istituzioni importanti che di per sé non sarebbero organizzazioni non profit.

Capita così che proprio nel mese scorso il Massachusetts Institute of Technology di Boston (Mit) abbia lanciato un nuovo sito: si chiama Dspace (spazio digitale) e si assegna lo scopo di raccogliere, distribuire e conservare per le generazioni future la propria produzione intellettuale. Il progetto affianca la messa online dei materiali didattici del Mit: a regime tutti saranno disponibili, lineramente e gratuitamente, agli studenti di tutto il mondo, e proprio mentre, al contrario, altre università, anche pubbliche, si buttano affamate sul potenzialmente lucroso mercato dell'e-learning.



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