Simonides
Simonìdes
Simonìdes era nato a Iuli [isola di
Ceo] nel c.556- (morì in Sicilia nel 468-). Sappiamo che
fu più volte a Atene, ospite del tiranno Ipparco e all'epoca
delle guerre persiane. Fu poi dagli Scopadi [Tessaglia]. A Siracusa
fu alla corte di Gerone, la stessa corte che ospitò Aiskhulos,
Pindaros, Bakkhulides, Epicarmo.
Fu molto famoso tra i contemporanei. Compose lurikà nei
vari generi, riportando numerose vittorie; scrisse epinici (forse
raggruppati secondo le varie specialità agonistiche), peani,
inni, elegeiai, epicedi o treni, encomi, ditirambi: di tutto questo
restano scarsi frammenti. Sappiamo che il suo epitaffio per i
caduti di Maratona fu preferito a quello di Aiskhulos. Compose
anche un carme per i soldati morti alle Termopili, un'elegeia
per la battaglia navale dell'Artemisio e un carme lirico per la
battaglia di Salamina. Gli epigrammi-iscrizioni attribuitigli
sono di discussa autenticità.
Tra gli elementi caratteristici della sua
poesia è il profondo pessimismo dei suoi treni (i canti
funebri): l'incertezza della vita umana non sembra lasciare nessuna
possibilità di salvezza o di consolazione. Un senso profondo
del destino che incombe sull'azione dei mortali è nel carme
dedicato a Scopa: si avvicina qui al tono della trago:idì
a del V secolo. Toni profondamente patetici nel componimento sul
doloroso peregrinare di Danae e Perseo. Nel carme in onore dei
soldati morti alle Termopili, con il martellante incalzare delle
frasi, esprime l'orgoglio di tutti i popoli greci.
Il suo stile è sempre vigoroso, usa in accostamenti arditi
il lessico della tradizione homerica senza disdegnare il ricorso
all'attico contemporaneo. Simonides ebbe larga fama nella sua
epoca negli ambienti greci, per la qualità raffinata di
una poesia che mirava a essere «pittura che parla», secondo una
sua stessa definizione, così come «la pittura è
poesia senza parole».
Dai papiri ritrovati all'inizio del XX secolo
a Ossirinco [Egitto] sono emersi importanti resti di poesie in
metro elegiaco, attribuiti a Simonides. Il testo quantitativamente
più rilevante è dato da una cinquantina di versi
di una elegia in cui Simonides celebrava la definitiva vittoria
dei Greci sull'invasione persiana avvenuta a Platea nel 479-.
Essa si apre con un'esortazione, anziché agli dei, a Achille,
con cui Simonides voleva collegare il trionfo panellenico sui
barbari con i remoti inizi della gloria greca nella spedizione
contro l'asiatica Troia. Segue il racconto della nuova impresa
guerresca che ha visto Atene, Sparta e altre città greche
unite nella difesa comune.
Un altro frammento è dato da 14 versi
di una elegia simposiale. Le fonti mettono in rapporto il poeta
con un Antioco principe di Larissa [Tessaglia] il cui padre si
chiamava Echecratide: quest'ultimo nome è quello che si
individua nei versi sopravvissuti. Sfugge il contesto, ma il passo
contiene una fantasia di mirabile grazia. Il vecchio poeta immagina
di raggiungere per nave l'isola remota dove i beati continuano
a esistere dopo la loro scomparsa dal modno dei vivi, lì
ritroverà, bello come un tempo, il giovane amato Echecratide,
e anche da sé stesso rimuoverà il decadimento degli
anni:
«Viaggiare vorrei per mare portando
nella nave la grazia delle Muse coronate di viole e giungere
alla sede boscosa degli uomini beati. [...] l'isola di venti
propizi, immagine di vita. Lì Echecratide dalle bionde
chiome con questi occhi di vecchio vedrei, e lo prenderei per
mano, perché dal suo corpo pieno di grazia esalasse fiore
di gioventù e stilasse dalle palpebre desiderio d'amore.
E con il mio fanciullo tenera gioia godrei tra i fiori disteso,
lontano dalle pallide rughe, intrecciando alle chiome una corona
bella di fresco cipero screziata di fiori d'ogni colore; e alle
Muse verserei un limpido canto amoroso guidando la mia voce
esperta di poesia».
Il testo è ottenuto dalla combinazione
di alcuni frammeti papiracei appertenenti a due diversi volumi
datati al II secolo (+). E' stato edito da P.J. Parsons nel vol.
LIX degli "Oxyrhynchus Papyri" (London, 1992). La traduzione si
fonda sul testo integrato congetturalmente da M.L. West, "Simonides
redivivus" in: Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphie,
98, 1993, p.1 sgg.
In "Odissea" e in Esiodos, era presente l'idea
di un territorio oltremarino dove i grandi eroi fossero sottratti
alla condizione mortale e vivessero sereni in un paradiso di eterna
primavera. L'immagine fu ripresa da Pindarso nella "II Olimpia"
e poi nel finale dell'"Andromaca" di Euripides. Il tono di Simonides
è diverso, vi dominano sentimenti personali: il vagheggiamento
di un desiderio. L'approdo di Simonides all'isola beata è
un incantamento, qualcosa che è insieme ricongiugimento
prodigioso, frutto di irreale fantasia, malinconia del tempo che
trascorre, del passato che lascia solo la memoria, nostalgia.
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